"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 31 dicembre 2020

Cosedaleggere. 93 «Doveva essere una sorpresa per Natale».

Orrori delle feste comandate. 1 Come per dire che, se le cose degli umani avvengono in date ben precise, c’è proprio da crederci che “il cielo è vuoto”, così come è cantato nel brano di Cristiano De André: “Il cielo è vuoto, c'è soltanto il sole Che acceca la terra e fa esplodere il grano E noi che intanto bruciamo”.

mercoledì 30 dicembre 2020

Strettamentepersonale. 31 Catanzaro: «È città rupestre e a pan di zucchero, come Orvieto in Umbria e Avranches in Normandia...»

 

A lato. Veduta settecentesca di Catanzaro in una incisione di Claude-Louis Chatelet.

Questo è un “post” che dedico alla mia “piccola città”, per dirla con Francesco Guccini.

martedì 29 dicembre 2020

lunedì 28 dicembre 2020

Leggereperché. 56 «"Che fare?", una domanda che la politica, ridotta ad analisi dei sondaggi e a una campagna elettorale senza fine, è incapace di soddisfare».

 

Tratto da “Sì, compagni il comunismo si è realizzato” di Maurizio Ferraris, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 28 di dicembre dell’anno 2018: (…). Malgrado quello che si dice e si pensa, siamo la società più vicina al comunismo che la storia abbia mai conosciuto. Sicuramente, più vicina di quanto lo fossero le esperienze storiche di comunismo realizzato, e senza dimenticare che la più grande esperienza di comunismo realizzato è tutt’ora in corso e tutt’altro che in crisi, visto che la Cina si sta avviando a diventare il potere egemone del XXI secolo. Conviene dunque smettere il gioco futile del condannare il capitalismo e rimpiangere il comunismo. Il comunismo è già qua, nella rivoluzione in corso.

domenica 27 dicembre 2020

Virusememorie. 52 «Una cosa il Covid ce l’ha insegnata. Che senza riti la collettività entra davvero in sofferenza».

 

Tratto da «Il rito rubato del Natale “senza”» di Marino Niola - antropologo culturale -, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 24 di dicembre 2020: (…). I social tracimano suggerimenti sui modi di aggirare il Dpcm. Ma non è solo l’impuntatura puerile e irresponsabile di chi non vuol saperne di saltare, anche solo per una volta, l’appuntamento con tavolate, rimpatriate, abbuffate, scampagnate. In realtà la posta in gioco è diversa. E va al di là della dipendenza capricciosa dalle abitudini, dall’inerzia ripetitiva delle consuetudini. Dietro le resistenze e le resilienze, c’è una sorta di istinto cerimoniale custodito nelle profondità del nostro genoma culturale. E che spinge a difendere ad ogni costo una festa che non è una semplice festa religiosa o consumistica. Ma è l’ultimo grande ciclo rituale dell’Occidente. Che ha abolito uno dopo l’altro tutti i riti e tende a considerare i giorni non lavorativi come finestre del calendario vuote. Come pause improduttive, come tempo morto. Ecco perché Natale non è singolare ma plurale. Non una festa ma le Feste, per antonomasia.

sabato 26 dicembre 2020

Cosedaleggere. 92 Giorgio Bocca: «la vita vera, la felicità cominciavano quel mattino in cui un grido di mia madre mi tirava giù dal letto: “Giorgio, Giorgio, nevica”».

Il 25 di dicembre dell’anno 2011 Giorgio Bocca ci lasciava. Di seguito, la testimonianza di Roberto Vignolo – “biblista”, docente presso la Facoltà Teologica di Milano – riportata sul quotidiano “la Repubblica” di giovedì 24 di dicembre 2020 con il titolo “Quando Bocca provò a parlare con Dio”:

venerdì 25 dicembre 2020

Eventi. 33 «Natale resta una festa dell'intimità, una possibilità di gustare gli affetti e di un po' di tempo insieme, celebrando la vita».

 

Ci sono “parole” che offendono il “silenzio”. Così come ci sono parole che vivificano, come per incanto, il “silenzio”. Ed il Natale – per credenti o non credenti - abbisogna del “silenzio”. Poiché nel “silenzio” del Natale le parole dette o scritte hanno tutte il fascino di quelle verità non più dette, non più ascoltate, al tempo delle vite che affannosamente ruinano sotto i colpi (oggi) della pandemia e non solo. Ha scritto Enzo Bianchi – già priore della comunità di Bose - in “Le parole giuste del Natale diverso”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del lunedì 21 di dicembre 2020: (…). Abbiamo ascoltato annunci davvero stolti: Natale senza festa, Natale dimesso e rassegnato, Natale triste... Ciò mi ha spinto a domandarmi più volte che cosa rende il Natale una festa e che cosa al contrario lo contraddice, lo impedisce. Pur assumendo diversi significati per i cristiani e per i non cristiani, Natale resta un'occasione di festa. Per i cristiani è la memoria della nascita di Gesù, (…). Per quelli che non conoscono l'avventura della fede cristiana, Natale resta una festa dell'intimità, una possibilità di gustare gli affetti e di un po' di tempo insieme, celebrando la vita.

giovedì 24 dicembre 2020

Cosedaleggere. 91 «Oggi in Occidente, come in Oriente, esiste finalmente un solo, vero, e unico dio: il Dio Quattrino».

 

Ha scritto Errico Buonanno in “Falso Natale” – UTET editrice (2019) -: Le classi operaie e contadine, all’alba dell’età vittoriana (Londra, 24 di maggio 1819 – Cowes, 22 di gennaio 1901 n.d.r.), avevano perso praticamente ogni rapporto con il Natale.

lunedì 21 dicembre 2020

Uominiedio. 30 «La storia del cristianesimo come l'abbiamo raccontata fino adesso è finita».

Tratto da “Nel Natale di Gesù il cristianesimo è a una svolta”, intervista di Marco Cicala allo “storico del cristianesimo” Giancarlo Gaeta pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 18 di dicembre 2020: (…). "Da anni (…) lavoro sulla natura dei testi evangelici. Che per i credenti sono scritture ispirate, dunque perfettamente attendibili, sulla vicenda di Gesù Cristo. Mentre la critica storica ne ha dato letture svariate. Ebbene, la mia idea è che i Vangeli siano animati da un contrasto. Perché da un lato furono scritti mezzo secolo dopo i fatti o, come nel caso di Giovanni, a 70-80 anni di distanza. Ma in quella lontananza temporale cercano di ricreare una vicinanza con Gesù, di renderlo nuovamente presente nella fede".

Operazione telescopica. Soggetta al rischio di qualche deformazione ottica. "Certo. Nessuno degli evangelisti è stato testimone diretto, contemporaneo di Gesù. Ognuno di loro si pone il problema del linguaggio con cui comunicare quella vicenda alla comunità della quale fa parte. La morte di Cristo, quel tipo di morte, ha prodotto un trauma, ha spezzato il legame tra lui e i suoi seguaci, ha scavato un vuoto, una mancanza, un'assenza. Ma proprio di quel vuoto si nutrirà la fede dei credenti".

domenica 20 dicembre 2020

Lalinguabatte. 100 «La sovranità è sempre popolare».

C’è da diffidare alquanto allorquando, da qualche antro malsano e maleodorante della politica, si invoca il popolo sovrano quale arbitro supremo, o illuminato, delle dispute politiche.

venerdì 18 dicembre 2020

Cosedaleggere. 89 «Babbo Natale l'autocertificazione per "comprovate esigenze lavorative" l'aveva in tasca».

 

In un “N.B.” posto a chiusura del Suo “Babbo Natale contro Jeff Bezos”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi venerdì 18 di dicembre 2020, Giacomo Papi ha scritto: “A parte Babbo Natale, che esiste, tutto il resto è vero”.

giovedì 17 dicembre 2020

Leggereperché. 55 «La mia vita scolastica era intrisa di religiosità, quella domestica, ai miei occhi infantili e conformisti, di dissolutezza».

Tratto da “Tutte le insidie dell'ora di religione” di Claudia de Lillo – in arte Elasti – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 17 di dicembre dell’anno 2011: Sono nata in una famiglia di atei. Per metà, per giunta, ebrei. E anche un po' comunisti. Sono cresciuta con due genitori separati e poi divorziati, negli anni '70, quando ancora, quelli come me, erano considerati bambini molto sfortunati.

mercoledì 16 dicembre 2020

Virusememorie. 51 «L’oscena congrega dei no-mask, che attira le bombe sulle case degli altri».

Stati d’animo. 1 Tratto da “L'osceno egoismo dei no-mask” di Michele Serra pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 13 di novembre 2020: (…). …mi tocca il cuore il parallelo tra le (…) memorie di guerra e l’odierna clausura.

martedì 15 dicembre 2020

Leggereperché. 54 «Non sappiamo che cos'è bello, cos'è buono, cos'è giusto, cos'è vero, cosa è santo, ma unicamente che cosa è "utile"».

 

Tratto da “La passione per il denaro” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 15 di dicembre dell’anno 2012: È l'elemento umano che rende irrazionale il mercato. Ma nella sua forma più sregolata, la corruzione, è un tratto molto italiano. Tocca alla buona politica correggerlo. (…). …due cose: 1. Se l'egemonia del mercato non confligga col mondo della vita, riducendo l'uomo a puro funzionario di apparati e prevedendolo solo come produttore e consumatore. 2. Se la corruzione della politica italiana non abbia aggravato ulteriormente la situazione, infrangendo le regole del mercato e quel che resta della sua razionalità. Per quanto concerne la prima domanda possiamo dire che il mercato, rispetto al furto, alla rapina, alla guerra è, come diceva Max Weber nel primo decennio del secolo scorso, la forma più razionale per regolare gli scambi. La stessa parola "ragione" è nata in campo economico con l'introduzione del "redde rationem" che prevede che negli scambi si dia un bene equivalente a quello che si riceve. Naturalmente il mercato non è la forma più alta di razionalità perché è ancora condizionato da una passione umana che è la passione per il denaro. La tecnica, ad esempio, che non soffre di questa passione (e quindi di questo sottofondo di irrazionalità che caratterizza tutte le passioni) è molto più razionale dell'economia. In quanto sufficientemente razionale, il mercato non è una sciagura, a meno che non diventi l'unico regolatore delle relazioni umane come oggi sembra sia diventato, al punto che più non sappiamo che cos'è bello, cos'è buono, cos'è giusto, cos'è vero, cosa è santo, ma unicamente che cosa è "utile". Il criterio dell'utilità economica prevede gli uomini come semplici produttori e consumatori, e quando di certe cose non si sente proprio il bisogno, il mercato, attraverso la pubblicità, non esita a "produrre" gli stessi bisogni, in ciò affiancato dalla moda, per cui, ad esempio un cellulare, che ancora svolge la sua funzione, viene sostituito con quello di nuova generazione perché non è più di moda, dando ragione al filosofo Günther Anders secondo il quale la data di scadenza non riguarda solo gli alimentari, ma tutti i prodotti, "la cui fine" è "il fine" per cui sono stati costruiti. Quante volte ci siamo sentiti dire che un pezzo di ricambio costa di più dell'acquisto di un modello nuovo? In questo portare le cose il più rapidamente possibile alla loro fine io vedo un esempio concreto del nichilismo sotteso alla logica di mercato che per produrre ha bisogno che le cose si consumino il più rapidamente possibile.

lunedì 14 dicembre 2020

Cosedaleggere. 88 «La morale evapora e tutti possono sentirsi innocenti».

 

Tratto da “Perché scienza e politica devono essere libere” di Gustavo Zagrebelsky, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 14 di novembre 2020: (…). …è possibile, anzi necessario, precisare il significato che si intende attribuire a queste due parole: scienza e politica. La scienza si occupa di ciò che è "per natura"; la politica, di ciò che è "per artificio". Altrimenti detto, la scienza si rivolge a dure e testarde verità che stanno al di fuori della volontà e dei desideri degli umani; la politica riguarda mutevoli e discutibili preferenze. La scienza si propone di conoscere; la politica, di scegliere. In sintesi, la scienza si occupa di ciò che è indipendentemente da noi; la politica, di ciò che vogliamo che sia e crediamo che possa dipendere da noi. Una distinzione chiara? Non direi: c'è il dubbio che la "scienza politica", insegnata in tante università, nasconda un ossimoro insidioso. Innanzitutto, un chiarimento. Usando la parola politica, non intendiamo cose che riguardano la politica dei partiti, ma ciò che ha a che vedere con ciò che si fa, da chiunque si faccia, per modellare e governare la dimensione pubblica della vita, cioè la pòlis. Per questo "politica". Un concetto larghissimo che comprende, certamente, l'attività dei partiti, ma non l'esaurisce. Esclude i pensieri e le attività che nascono e muoiono nella dimensione individuale e privata e che, a bene pensarci, sono assai poco numerose. Non è vero che tutto è politico, come diceva l'ingenuo '68, ma è vero che moltissimo è politico. Nelle società libere, scienza e politica sono a loro volta libere. Anzi, il segno più chiaro delle società che amano la libertà è la libertà della scienza (e dell'arte, naturalmente) e della politica. Ciascuna di esse pretende di non avere limiti: se si prostituissero - come fu per la chimica, la fisica, la sociologia, l'arte sotto il bolscevismo e il nazismo, e in generale in tutti i regimi totali o totalitari - le condanneremmo come tradimenti. Lo stesso per la politica: nei regimi liberi, la politica è, per definizione, libera di darsi i suoi fini. Che ne sarebbe se fosse costretta a ubbidire a una religione, a una ideologia, a una verità pre-confezionata? "L'arte e la scienza sono libere e libero ne è l'insegnamento"; tutti i cittadini sono liberi di associarsi per determinare la politica nazionale: così parla la Costituzione. Libere, ciascuna nel suo ambito, ma ciò non significa che non si incontrino. Al contrario. L'espansione dell'una implica la riduzione dell'altra. Contro ciò che si pensa generalmente, lo spazio della scienza, della scienza "pura", incontaminata dalla politica, si è ridotto grandemente a vantaggio di quest'ultima. L'umanità è sempre più in condizione di creare condizioni artificiali, cioè politiche nel senso ampio anzidetto, là dove un tempo operava la "natura incontaminata". Perfino ciò che riguarda la vita e la morte, la costituzione degli esseri viventi e le loro dotazioni sessuali, le funzioni cerebrali, tutte cose fino a non molto tempo fa appartenenti integralmente alla natura intatta, è entrato nella sfera delle realtà artificiali. La bio-politica è questa espansione, da un lato, e questa restrizione, dall'altro. Se e quando gli esseri umani riusciranno a creare la vita dal nulla o sconfiggere la morte con le loro arti demiurgiche, si potrà dire che l'artificio ha vinto su tutta la linea.

domenica 13 dicembre 2020

Uominiedio. 29 «Essere ad un tempo cristiani e scienziati».

 

Tratto da “Il conflitto interiore di certi scienziati” di Umberto Galimberti – “che si pongono il problema di come si possa essere a un tempo cristiani e ricercatori scientifici” -, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” di ieri sabato 12 di dicembre 2020:

sabato 12 dicembre 2020

Leggereperché. 53 «In ognuno dei commensali c'era un pezzetto di mio padre, che ho catturato, con un apposito retino acchiappa ricordi».

 

A lato. "Porto di San Francisco" (2019), acquarello di Anna Fiore.

Tratto da “I ricordi abitano nelle case dove hai vissuto” di Claudia de Lillo – in arte Elasti – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 12 di dicembre dell’anno 2015:

venerdì 11 dicembre 2020

Cosedaleggere. 87 «Non saremo più “liberisti”, ma finalmente liberi».

Tratto da “Mercati, anatomia da colpo di stato” di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 6 di dicembre 2020: (…). C’è un’ovvia differenza fra l’industria e la finanza. L’industria produce cose, oggetti, vestiti e, in campo alimentare, il più essenziale di tutti i beni, il cibo. La finanza non produce nulla, partorisce semplicemente altra finanza, è denaro che partorisce altro denaro, cosa che scandalizzava Aristotele per il quale il denaro essendo inanimato non poteva essere fertile (Politica). La finanza è una semplice “partita di giro” a somma zero. “Nulla si crea e nulla si distrugge”, diceva Democrito. Si può star certi che se c’è un rialzo alla Borsa di New York altri, in diverse aree del mondo, stanno perdendo qualcosa, non necessariamente denaro ma per esempio posti di lavoro. Le Borse vanno in visibilio quando una grande azienda licenzia un migliaio di dipendenti. La finanza, a differenza dell’industria che ha bisogno di operai, di tecnici, di impiegati, di portieri, non dà nemmeno lavoro. Basta un individuo particolarmente abile con computer veloce e costui schiaccia un pulsante e mette in ginocchio un intero Paese. Intendiamoci, questi trucchetti sul denaro ci sono praticamente da quando esiste il denaro, anche se nel corso dell’evoluzione, chiamiamola così, hanno preso dimensioni un tempo sconosciute. Nel Medioevo il grande mercante pagava le maestranze in moneta povera, sostanzialmente rame, che i poveracci usavano fra di loro (sarebbe stato inutile e assurdo tesaurizzarla) mentre il mercante realizzava sui mercati internazionali in oro e argento. È quanto succede anche oggi nei Paesi sottosviluppati, detti pudicamente “in via di sviluppo”, dove i locali spendono moneta locale, che non val nulla, mentre i loro datori di lavoro realizzano in dollari, euro, sterline. Il mercato è onnipresente. Esiste una vera e propria “dittatura dei mercati” di cui si preferisce non parlare o solo bisbigliare, anche se di recente due film, non a caso americani, The Wolf of Wall Street di Scorsese e Panama Papers di Soderbergh hanno affrontato in modo serio la questione. Questa dittatura però è sfuggente perché anonima. Sono finiti i bei tempi in cui il dittatore era un soggetto in carne e ossa e quindi potevi sempre sperare di sparargli col tuo fucilino a tappo e farlo fuori. Sparare contro “i mercati” è come cercare di colpire un fantasma. Il mercato è quindi invincibile? Teoricamente no. Al mercato si oppone l’economia di Stato quale è esistita, per fare l’esempio più noto, in Unione Sovietica. Ma l’economia di Stato è infinitamente meno efficiente di quella a libero mercato. Se l’Urss ha perso la Guerra fredda con l’Occidente non è perché aveva meno atomiche, meno bombardieri, meno carri armati, insomma meno armi, meno popoli arbitrariamente soggiogati, l’ha persa sul piano dell’economia. Un Paese a economia di Stato circondato da Paesi “liberisti” è spacciato. Dovrebbe essere talmente forte da occupare una buona parte del globo, per questo Trotzkij affermava “la Rivoluzione o è permanente o non è”. E infatti non è stata. Gli antichi Imperi fluviali, sostanzialmente collettivisti, comunisti, dov’era prevalente il concetto di “equivalenza” e di una ragionevole redistribuzione della ricchezza fra i sudditi, hanno potuto resistere tremila anni perché così immensi da non temere una concorrenza esterna.

giovedì 10 dicembre 2020

Cosedaleggere. 86 «Metà del mondo mi pare superstiziosa quanto i contadini medievali».

 

Tratto da “Torniamo alla scienza”, intervista di Antonello Guerrera allo scrittore inglese Ian McEwan pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” dell’8 di dicembre 2020: (…). McEwan, con la piaga pandemica e la scienza sempre più "pop", tempismo perfetto per "Invito alla meraviglia" (ultima pubblicazione dello scrittore inglese, Einaudi Editore, pagg. 115, euro 14 n.d.r.). "Questa grave crisi è arrivata in un contesto di duro anti-razionalismo, populista, superstizioso, a volte violento e furioso. Gli Stati Uniti degli ultimi anni ne sono stati esemplari, a causa di un presidente immaturo, per cui le mascherine erano una questione politica. DI lì, si sono moltiplicati i negazionisti del Covid. Se trent'anni fa immaginavamo una nuova, imminente era di umanesimo secolare, laico, dettato da evidenze scientifiche, beh, ci sbagliavamo. Negli ultimi decenni, nelle democrazie più avanzate dell'Occidente, abbiamo mandato sempre più spesso i nostri figli all'università, ma ciò non sembra esser stato efficace. Perché quasi metà del mondo mi pare superstiziosa quanto i contadini medievali".

 

martedì 8 dicembre 2020

Virusememorie. 50 «Fiora, ho vissuto tanto, ho vissuto bene. Vivere così non ha senso. Mi manca tutto, mi mancate voi. Mi manca la musica».

Ha scritto Michele Serra in “Frottole di Natale” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 6 di dicembre 2020: (…). Non c’è niente da fare, l’idea che la pandemia sia solo un subdolo pretesto per rovinare l’esistenza alle brave persone, e adesso per guastare le feste, non riesce a uscire dalla testa della nostra destra e di quelle del mondo intero, che da quando è arrivato il Covid non sanno dire altro, non arrivano a formulare un pensiero appena più articolato e soprattutto meno monotono.

lunedì 7 dicembre 2020

Storiedallitalia. 90 «Il Montezemolo, detto “Libera e bella” per il crine fluente e cotonato d’un tempo».

 

Ha scritto Alessandro Robecchi in “Altro che imprenditori: il partito del Pil sono gli italiani che lavorano” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 5 di dicembre dell’anno 2018: Prima di tutto una precisazione.

domenica 6 dicembre 2020

Cronachebarbare. 77 «Ora, le fake news sono vecchie come il mondo. Si chiamano bugie, menzogne, balle».

Sosteneva Mark Twain – al secolo Samuel Langhorne Clemens – che, «nel tempo in cui una bugia fa il giro del mondo, la verità non si è ancora allacciata le scarpe». E sì che l’anagrafe - Florida, 30 di novembre dell’anno 1835 – Redding, 21 di aprile dell’anno 1910 - di quel grande non consentirebbe di pensare che a quel Suo tempo le “fake news” siano state il “pane quotidiano” della grande o piccola stampa. È che “fake news” sì o “fake news” no, o come diavolo si saranno chiamate a quel tempo, le “bugie” della stampa di allora, come della televisione poi e di internet ultimamente trovano la loro esistenza e la loro ragione nel servizio che i mass-media rendono – in tutte le epoche - o sono costretti a rendere al potente di turno.

sabato 5 dicembre 2020

Leggereperché. 52 «Dio è solo una metafora di cui ci serviamo per dare un nome al nostro bisogno di trascendenza».

 

A lato. "Bergerac" (Francia, 2019), acquarello di Anna Fiore.
 
"Tratto da “Cosa cerchiamo nel fondo della notte” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 5 di dicembre dell’anno 2015:

giovedì 3 dicembre 2020

Leggereperché. 51 «I bambini sono convinti di essere circondati da creature straordinarie».

Tratto da “Anche le montagne a volte si spezzano” di Claudia de Lillo – in arte Elasti – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 3 di dicembre dell’anno 2016: La mamma sa tutto. La maestra ha ragione. I papà non piangono. La nonna non dice parolacce. Lo zio ha un mucchio di fidanzate. Il nonno è fortissimo. I bambini sono convinti di essere circondati da creature straordinarie, portentosi X-Men ognuno con il suo super potere. I grandi, ai loro occhi, non vacillano, non dubitano e non si rompono. Possono, e devono, risolvere problemi, proteggere, sorridere, accogliere, conoscere il mondo, distinguere il bene, che va difeso, dal male, che va disintegrato. Sono una sublime sintesi di qualità umane, morali e fisiche. I bambini hanno bisogno di sicurezze per crescere sani e forti e l'ingrato, arduo compito di dispensarle spetta a noi adulti, con i nostri sì e i nostri no, con le nostre verità, con le nostre granitiche certezze e, soprattutto, con la quotidiana messa in scena della nostra presunta invulnerabilità. Quando ero piccola, mia mamma era per me un gigante sorridente e invincibile, anche se, a pensarci oggi, la sua vita di madre separata e lavoratrice lasciava di certo ampi margini di malinconia, solitudine e disorientamento, di cui ero all'oscuro.

martedì 1 dicembre 2020

Virusememorie. 49 «Ciò che chiamavamo vita normale è stata in realtà la condizione di possibilità di questa tragedia».

Ha scritto il filosofo Leonardo Caffo in “Dopo il Covid-19 Punti per una discussione” – “nottetempo” editrice – al tempo della prima ondata della pandemia: “Chiusi nelle nostre case, posto che anche la chiusura in casa implica un problema legato a disparità di classe che avevamo ignorato col falso mito del benessere collettivo, oggi ognuno di noi sa che nulla sarà come prima: il cambiamento ci terrorizza, ma è altrettanto vero che, paradossalmente, forse nessuno si era mai sentito così vivo come in questo momento.

lunedì 30 novembre 2020

Memoriae. 23 «Questa è anche un´epoca di restrizione delle cerchie della socievolezza».

 

Giusto per non definire un “paradigma nuovo” la linea politica annunciata e perseguita caparbiamente dal “capitano” leghista nell’esercizio delle sue “mansioni” politico-ministeriali. I presupposti c’erano già tutti al tempo di questa “memoria” che risale al martedì 22 di luglio dell’anno 2008. Scrivevo allora:

domenica 29 novembre 2020

Cosedaleggere. 85 «La storia non è una inevitabile ascesa verso il mercato e il denaro».

Tratto da “Il rito del dono, lezione per il virus” di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri 28 di novembre: (…). Dunque il dono.

sabato 28 novembre 2020

Leggereperché. 50 «Diventare grandi sta proprio nella consapevolezza che non lo saremo mai».

Tratto da “Diventare grandi è un mestiere che dura tutta la vita” di Claudia De Lillo – in arte Elasti - pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 28 di novembre dell’anno 2015: Ricordo un pomeriggio di tanto tempo fa. Non so con precisione quanti anni avessi, ma non erano molti. Ero a casa di mia nonna, nel suo salotto con il parquet scuro, su cui era vietato camminare scalzi («Attenta! Ti entrano le spine nei piedi!». Sarà stato vero? O era solo una delle tante invenzioni degli adulti per tenerci in scacco?).

venerdì 27 novembre 2020

Lalinguabatte. 99 Mark Twain: «Nel tempo in cui una bugia fa il giro del mondo, la verità non si è ancora allacciata le scarpe».

 

Tratto da “Ma la censura è peggio delle fake news”, intervista di Riccardo Staglianò a Mark Thompson del New York Times pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 28 di agosto 2020: Il vecchio Mark Twain, come al solito, l’aveva detto meglio di tutti: «Nel tempo in cui una bugia fa il giro del mondo, la verità non si è ancora allacciata le scarpe». (…).

Perché questa volta sarebbe diverso? «La tecnologia ha reso la velocità di propagazione infinitamente maggiore. È un acceleratore pazzesco di quel che succedeva già prima. Attraverso la rete un politico può impiantare un’idea in dieci milioni di menti ancor prima di essere sceso dalla tribuna. E le dinamiche virali dei social network offrono pochissimi incentivi alle persone per assumere un tono riflessivo e moderato. Piuttosto il contrario. Detto questo sono anche sorpreso quando i miei amici di sinistra trovano assolutamente ovvio che Facebook debba censurare affermazioni ritenute offensive. Per me non è affatto ovvio. Perché di quel passo finiremmo come la Cina, dove lo Stato censura le voci fuori dal coro con la scusa di proteggere il popolo».

E pensare che all’inizio della rivoluzione digitale si diceva che internet avrebbe allargato il dibattito, dando voce a tutti: cosa non ha funzionato? «Era un ottimismo acritico come acritico è il pessimismo attuale verso tutto quello che riguarda la rete. (…). …tento un’analogia con l’invenzione della stampa. C’è voluto tempo per capire che non bastava che qualcosa fosse stampato perché fosse vero. Forse ne serve altrettanto per conquistare la stessa consapevolezza con la rete. Ho fiducia nella capacità delle persone di discriminare tra vero e falso, ma è più difficile farlo avendo davanti solo 140 caratteri. La tecnologia è come un velo supplementare».

Vivere in mezzo alle fake news non dovrebbe essere il paradiso dei giornali, come fornitori di notizie vere? «Certo. Il problema è di sostentamento, non di necessità della professione. C’è chi, come il Guardian, fa un punto di principio nel non fare pagare il sito sostenendo che sia una scelta democratica. Ma noi, mentre accumulavamo sei milioni di abbonati paganti, a marzo abbiamo avuto anche 240 milioni di visitatori al sito. Si può fare l’uno e l’altro».

L’altra deriva populistica che denuncia è la morte dell’expertise: perché non ci fidiamo più dei competenti? «Il Covid ha fornito un ottimo esempio del perché anche gli esperti hanno responsabilità nel loro ridotto status. Prima ci hanno detto che le mascherine non servivano, poi che erano indispensabili. Avrebbero dovuto dire, trattandoci da adulti, che servivano ma era meglio lasciarle ai medici e a chi ne aveva più bisogno. Hanno contaminato il loro discorso di considerazioni politiche e si sono fatti male da soli. Già la crisi del 2008 aveva screditato un gruppo ristretto di esperti, gli economisti. Questa volta è stato il turno dei virologi».

Eppure, tornando alla retorica, Trump ha vinto pur essendo uno degli oratori più rozzi ad aver varcato la soglia della Casa Bianca… «Non sono d’accordo. Trump ha una sua antiretorica, fatta di paratassi (Salvini è suo fratello in questo), che è a sua volta retorica. Nato ricchissimo, ha trovato un modo di convincere masse di dimenticati che era in grado di capirli e aiutarli. Non è impresa di poco conto. Senz’altro gli è servita l’esperienza televisiva del reality show The Apprentice. Lui interpreta quella versione di sé stesso e gli viene benissimo».

Ma la stessa volgarità funzionerà anche in tempi drammatici come quelli che stiamo vivendo? «Non vedo perché no. Una lingua rabbiosa si addice a momenti arrabbiati. Come fanno il rap e l’hip hop, molto più rivelatori dell’anima dell’America di quanto molti intellettuali siano disposti ad ammettere. E come dimostra il successo di Hamilton, il musical che è riuscito proprio col rap a restituire la sofisticazione e la ricchezza espressiva di un libro di ottocento pagine».

giovedì 26 novembre 2020

Cosedaleggere. 84 «Confondiamo la “libertà” con l’“indeterminatezza” della natura umana».

Tratto da “L’illusione della libertà” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 7 di novembre 2020: Un'idea utilissima alla convivenza, ma che non ha alcun fondamento. La libertà non esiste, esiste, però esiste l’idea di libertà. E le idee fanno più storia di quanto non ne facciano gli accadimenti. Qui capiamo cosa significa pensare: sottoporre a verifica le nostre idee che, per ragioni biografiche, culturali o di propaganda, sono così radicate da non tollerare alcuna critica, perché facilitano il giudizio, ci rassicurano, e perciò vengono scambiate per verità, quando non sono altro che abitudini mentali che non abbiamo mai messo in discussione, perché tranquillizzano le nostre coscienze che non amano l’inquietudine dell’interrogazione. Noi confondiamo la “libertà” con l’“indeterminatezza” della natura umana che, a differenza di quella animale, è sprovvista di istinti che sono risposte “rigide” agli stimoli. Privi di istinti, abbiamo pulsioni a meta indeterminata per cui, per esempio, di fronte a una pulsione sessuale possiamo dedicarci a tutte le perversioni, cosa che non sembra sia concessa agli animali, così come possiamo esprimerci nella scrittura, nella poesia o nell’arte, come ci insegna Freud quando parla di sublimazione. A compensazione della mancanza di istinti sono nati i riti nelle tribù primitive, i precetti e i comandamenti con le religioni, le leggi con le società civili per garantire un ordine sociale. Per far funzionare quest’ordine era necessario persuadere che l’uomo, a differenza dell’animale, gode della “libertà” da cui discende la “responsabilità” delle sue azioni e di conseguenza la sua “punibilità” nel caso di trasgressioni dei precetti, dei comandamenti o delle leggi. Il vantaggio sociale è innegabile, perché se tutti osserviamo le leggi e i trasgressori vengono puniti, siamo garantiti nella nostra sicurezza, per ottenere la quale, come ci ricorda Freud ne Il disagio della civiltà, «l’uomo ha barattato una parte una parte della sua possibilità di felicità (che consiste nella piena soddisfazione delle pulsioni) per un po’ di sicurezza». Percorso inevitabile per diventare civili. Anzi, Freud ne parla come di un «esperimento terapeutico che ha consentito di raggiungere ciò che finora non fu raggiunto attraverso nessun’altra opera di civiltà». L’equivoco consiste nel ritenere che le leggi limitino la libertà dell’uomo, mentre limitano l’indeterminatezza del suo agire pulsionale, che ne renderebbe imprevedibile il comportamento. Nocciolo della questione è che la “liberà” confligge con la nostra “identità”, che è alla base della fiducia sociale. Io mi fido di te perché conosco la tua identità che, se non sei come il dottor Jekill e mister Hyde (doppia personalità), mi consente di prevedere il tuo comportamento. Mi spiego con un esempio: un giorno Sartre finì in ospedale dopo avere fatto un’escursione in montagna senza una guida. Alla domanda del suo amico Merleau-Ponty che gli chiedeva se non potesse andare in montagna con una guida, Sartre rispose: «Secondo te, io sono uno che va in montagna con una guida?». La natura di Sartre, la sua identità sono tali da non consentirgli la libertà di andare in montagna con una guida. Sartre è fatto così, e la libertà di scegliere è puramente teorica. Tralascio i riferimenti alla genetica dove è iscritto il nostro modo di vivere, di ammalarci e di morire, per non parlare dell’ambiente in cui siamo nati e cresciuti, che non è meno vincolante della genetica.

mercoledì 25 novembre 2020

Ifattinprima. 98 Covid, Borse, ricchezze, disuguaglianze.


Delle “Borse” o della “Borsa”, ma prima ancora si parli dell’Italia, dell’Italia che possiede e dell’Italia che poco ha o nulla ha, tanto da inverare quanto ebbe a scrivere il cronista fiorentino Marchionne di Coppo Stefani al tempo della peste nell’anno 1348: “E tale che non avea nulla si trovò ricco”. Ha scritto oggi su “il Fatto Quotidiano” Alessandro Robecchi in “Ricchi da Covid: 34 miliardi in tasca a 40 italiani. È il virus, che bellezza!”: (…). Disse Mattarella il 2 Giugno: “C’è qualcosa che viene prima della politica e che segna il suo limite. Qualcosa che non è disponibile per nessuna maggioranza e per nessuna opposizione: l’unità morale, la condivisione di un unico destino, il sentirsi responsabili l’uno dell’altro”. (…). Passati quasi sei mesi, col Natale alle porte, il dibattito sull’apertura delle piste da sci che surclassa quello sulla riapertura delle scuole (che non vendono skipass, non fatturano in polenta e stanze d’albergo, quindi chissenefrega), sarebbe forse il momento di fare il punto sulla “condivisione dell’unico destino”. E così ci vengono in aiuto due ricerche, da cui grondano numeri e dati. Una è quella del Censis, che si può riassumere con pochi punti fissi: 7,6 milioni di famiglie il cui tenore di vita è seriamente peggiorato causa pandemia, 600 mila persone entrate in quel cono d’ombra che sta sotto la soglia di povertà, 9 milioni di persone che hanno dovuto chiedere aiuto (a famigliari e/o banche). L’altra ricerca viene da PwC e Ubs (le banche svizzere), e ci dice che i miliardari (in dollari) italiani erano 36 l’anno scorso, e che quest’anno sono 40, hurrà. La loro ricchezza complessiva ammontava nel 2019 a 125,6 miliardi di dollari e poi, in quattro mesi (dall’aprile al luglio 2020) è balzata a 165 miliardi di dollari, con un incremento del 31 per cento e oltre quaranta miliardi di dollari in più. In euro, al cambio attuale, fa 33,7 miliardi. E siccome i numeri sono beffardi e cinici, ecco che il totale fa più o meno quanto si è tagliato alla Sanità pubblica in dieci anni, che è poi la stessa cifra che arriverebbe indebitandosi con il Mes (circa 36 miliardi). Non serve sovrapporre le due ricerche per capire che i vasi comunicanti della distribuzione della ricchezza non comunicano per niente, (…). Vengono in mente, chissà perché, le continue metafore e similitudini con cui si paragona l’attuale crisi pandemica a una guerra: le trincee degli ospedali, gli eroi sul campo (medici e infermieri), i sacrifici della popolazione, l’incertezza su mosse e contromosse, la seconda terribile offensiva del nemico. E si dimentica volentieri, in questa continua, sbandierata analogia tra Covid e conflitto armato, che chi si arricchisce durante una guerra è più “pescecane” che “dinamico imprenditore”. Però – sorpresona! – di colpo, davanti alle cifre dell’impennata dei super ricchi italiani, la metafora del “Covid come la guerra”, solitamente molto gettonata, si scolora, si attenua, sparisce del tutto. Sarà una guerra, d’accordo, ma quelli che pagano sono i 600 mila scaraventati nella loro nuova condizione di molto-poveri, o oltre sette milioni di famiglie che stringono la cinghia e i denti. Pagano i tanti soldati, insomma, mentre i pochi generali festeggiano le loro rimpolpate ricchezze. Forse con i 34 miliardi piovuti in tasca ai 40 miliardari italiani si potrebbero attenuare problemi e sofferenze di qualche milione di persone. Come “condivisione di un unico destino” non sarebbe male, anzi, sarebbe un’ottima “unità morale” che, ovviamente, non vedremo. Tratto da “Un vaccino per la Borsa” di Federico Rampini, pubblicato sul settimanale “A&F” del quotidiano “la Repubblica” di ieri 23 di novembre 2020: Viviamo nel migliore dei mondi: questo è il messaggio controcorrente che ci arriva dai mercati azionari. Nell'anno della pandemia e della recessione, molte Borse sono ai massimi storici. In particolare quelle asiatiche - dove il covid ebbe inizio - e quelle americane, in una nazione che supera i 250.000 morti e dove la seconda ondata impone nuovi lockdown. Il valore complessivo di tutte le Borse del pianeta punta verso i 95.000 miliardi di dollari. Per avere un ordine di grandezza questo valore è superiore al Pil aggregato di tutte le nazioni che raggiunge gli 83.000 miliardi (è chiaro che le due grandezze non sono commensurabili: la capitalizzazione di Borsa misura il prezzo di uno stock di ricchezza in un preciso istante, i Pil misurano i flussi di reddito generati in un anno). L'Europa finora è rimasta tagliata fuori dall'euforia finanziaria. Che significato ha tutto questo?La spiegazione più facile riguarda il versante asiatico. Dove si è risvegliata perfino la Borsa di Tokyo, leggendaria per la sua interminabile depressione: quest'anno è risalita al punto tale da raggiungere il suo record trentennale. Il Giappone è uno dei nuovi "miracoli asiatici": rientra in quel gruppo di paesi - mai abbastanza studiati da noi occidentali - che hanno sconfitto in modo magistrale il coronavirus, senza ricorrere a lockdown, con interventi mirati, precisione chirurgica, efficacia massima nell'isolare i focolai sul nascere. Il Giappone è un maestro nel rinascere dopo le crisi, (…). Oggi partecipa a una ripresa economica che coinvolge Estremo Oriente e Sud-est asiatico, con al centro la locomotiva cinese. La Repubblica Popolare cinese chiuderà l'anno con una crescita del 2% del Pil. Vietnam e Taiwan la inseguono da vicino, e tutta quell'area oggi rappresenta la parte del mondo che è già fuori dalla crisi. Che i flussi dei capitali scommettano su quelle Borse è logico.La festa di Wall Street ha spiegazioni un po' meno intuitive. Qui il divario di percezione tra l'economia reale e i mercati finanziari è stridente. L'economia americana chiuderà l'anno con un Pil pesantemente negativo e un tasso di disoccupazione più che raddoppiato rispetto a febbraio.