Ha scritto Alessandro Robecchi in “Altro che imprenditori: il partito del Pil
sono gli italiani che lavorano” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 5
di dicembre dell’anno 2018: Prima di tutto una precisazione. I tremila
imprenditori che l’altro giorno (dicembre 2018 n.d.r.) a
Torino si sono riuniti per dire sì alla Tav e a tutto il resto (grandi opere,
medie opere, tagli alla manovra) non sono, come si è scritto con toni eccitati
e frementi “Il partito del Pil”. Non rappresentano, come si legge in titoli e
sommari “due terzi del Pil italiano e l’80 per cento dell’export”. Il Pil
italiano, e anche l’export, lo fanno milioni di lavoratori che in quelle
imprese sono occupati. Gente che da anni vede assottigliarsi il suo potere
d’acquisto, mentre aumentano profitti e rendite, che assiste all’erosione dei
suoi propri diritti, che va a lavorare su treni affollati come gironi
infernali, che sta in bilico sul baratro della proletarizzazione, che teme ogni
giorno un disastro, una delocalizzazione, una vendita ai capitali stranieri,
una riduzione degli organici, che combatte ogni giorno con servizi sempre più
costosi, che fa la parte sfortunata della forbice che si allarga – da decenni –
tra redditi da lavoro e profitti. Il Pil italiano – come il Pil di tutti i
paesi del mondo – lo fanno loro, ed è piuttosto incredibile che una platea di
tremila persone venga più o meno, con pochissime sfumature, identificata con
l’economia italiana senza nemmeno una citazione di sfuggita, un inciso, una
parentesi, che ricordi i lavoratori. (…). Sicuri che quei tremila (80 per cento
dell’export, due terzi del Pil) non abbiano colpe in tutto questo? Che non
abbia funzionato niente, negli ultimi trent’anni, politica, economia, finanza,
Stato, amministrazione, tranne loro, sempre perfetti e “motore dello sviluppo”?
È un po’ incredibile, andiamo! Eppure negli anni di Silvio gli imprenditori italiani
hanno avuto di tutto e di più, e negli anni del centrosinistra meglio ancora,
dalla pioggia di miliardi del Jobs act al coltello dalla parte del manico nelle
relazioni sindacali, come la possibilità di demansionare i dipendenti, per non
dire dell’articolo 18. Da almeno trent’anni, con piccole frenate e forti
accelerazioni, la filosofia al governo sostiene la tesi che aiutando le imprese
si aiutino anche i lavoratori, che se stanno bene gli imprenditori staremo bene
tutti, che se la tavola è sontuosa, qualche briciola cadrà dal tavolo per i
poveri. Questo, in trent’anni di sperimentazione, non si è verificato, anzi è
successo il contrario, la precarizzazione è avanzata, fino al cottimo, fino
all’algoritmo che gestisce i tempi di vita delle persone. (…). È legittimo lo
sconcerto e anche l’accorato appello, che confina col piagnisteo, che confina
con le minacce, va bene, si chiama pressione politica. Ma partito del Pil no.
Il partito del Pil, qui, sono milioni di italiani (e stranieri) che lavorano, e
anche loro a caccia di qualcuno che li rappresenti in un Paese senza sinistra. Un
“prototipo” eccellente di quegli imprenditori valorosi, di quei “capitani
coraggiosi”, dei quali ha scritto Robecchi solamente due anni addietro,
ce lo presenta, aggiornato al presente, Marco Travaglio in “Montezuma” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 3 di dicembre
2020: (…). Il Montezemolo (…), detto “Libera e bella”
per il crine fluente e cotonato d’un tempo, nasce nel 1947 a Bologna da
nobili lombi sabaudi. Amico del cuore di Cristiano Rattazzi, figlio di Suni
Agnelli, fa tanto divertire l’Avvocato. Così nel 1973 approda alla Ferrari. È
il suo più grande e forse unico successo della vita (donne a parte), anche
perché alla guida delle Rosse c’è Niki Lauda. Appena passa alle Relazioni
esterne della Fiat, si scopre che si fa pagare da finanzieri straccioni per
presentarli ad Agnelli, per giunta con banconote nascoste dentro libri svuotati
di Enzo Biagi. Romiti lo caccia su due piedi e anni dopo racconterà: “Abbiamo
pescato un paio di persone che pretendevano soldi per presentare qualcuno
all’Avvocato. Uno l’abbiamo mandato in galera, l’altro alla Cinzano”. Tra i
fumi dei vermouth, Libera e bella resiste poco. Eccolo dunque sulla tolda di
Azzurra all’America’s Cup. E poi al vertice del comitato dei Mondiali di Italia
90, altra calamità naturale: opere sballate, sprechi faraonici, ritardi
mostruosi, costi degli stadi alle stelle (ultima rata pagata dallo Stato nel
2015). Ma, come diceva Totò, il talento va premiato. L’Avvocato lo ripesca e lo
manda a rilanciare la Juventus con il “calcio champagne” di Gigi Maifredi.
Risultato: la Juve arriva settima, esclusa dopo ben 28 anni da tutte le Coppe
internazionali. In più, la società paga 4 miliardi di lire in nero al Torino
per l’acquisto di Dino Baggio, con fondi gentilmente forniti da un conto
svizzero di Agnelli. “Vedremo che cosa saprà fare da grande”, dice l’Avvocato
mentre lo congeda dalla Juve dopo appena un anno e richiama in servizio il
grande Giampiero Boniperti. Montezuma viene parcheggiato a Rcs Video, a
occuparsi di videocassette: altro flop catastrofico da centinaia di miliardi.
Così torna in Ferrari, l’unica cosa che gli riesce bene. Ma, lievemente
bulimico, non si contenta e inizia una collezione di poltrone e sofà da Guinness:
Corriere, Stampa, Le Monde, Tf1, Fiera di Bologna, Confindustria, Luiss,
Indesit, Merloni, Poltrona Frau, Maserati, Unicredit, Ntv treni, Tod’s,
Federazione Editori, Campari, Assonime, Citi Inc., Pinault, Fnac, Ppr Sa,
Telethon, Unione Industriali Europei, Confindustria Modena, Cnel, Citigroup,
Fondo Charme (sede in Lussemburgo, ci mancherebbe), senza contare una
candidatura a ministro di Qualcosa nel governo Berlusconi-2 (2001), annunciata
dal Caimano per acchiappare voti in campagna elettorale, mai smentita
dall’interessato e poi tramontata. Dall’alto di cotanti successi, è pronto per
la politica. Nel 2009 fonda Italia Futura in vista della discesa in campo,
circondato da un trust di cervelli da paura: Umberto Ranieri, Andrea Romano,
Carlo Calenda, Linda Lanzillotta. Il meglio sono i fratelli Vanzina, che almeno
un mestiere ce l’hanno e lo fanno bene. Lui intanto si fa beccare al telefono
col faccendiere pregiudicato della P2 e della P4 Luigi Bisignani, a cui ha
assunto il figlio alla Ferrari, ma solo perché “è in gamba”. Naufragata anche
Italia Futura, che confluisce in Scelta Civica di Mario Monti, cioè nel nulla
cosmico, la maledizione di Montezuma si riabbatte sulla Fiat, di cui diventa
presidente dopo la morte di Umberto Agnelli. Poi arriva Marchionne e nel 2010
lo liquida con una buonuscita di 27 milioni. E nel 2014 lo caccia anche dalla
Ferrari: pure lì ha perso il tocco magico. Ma l’Innominabile (al secolo
Renzi Matteo da Rignano sull’Arno n.d.r.) è pronto a riciclarlo, come mediatore con
gli arabi di Etihad e poi come presidente della “nuova Alitalia”. Che perde più
soldi di quella vecchia, tant’è che ora il nostro è indagato a Civitavecchia
per bancarotta. Non bastando, lo piazzano anche al comitato per la candidatura
di Roma alle Olimpiadi del 2024, in tandem col suo dioscuro Giovannino Malagò.
Ma lì, a impedirgli di fare altri danni, provvede Virginia Raggi col gran
rifiuto. Lui, appena uscito da Ntv con 250 milioni in saccoccia, si rifà con la
presidenza del Sigaro Toscano, perché non si dia del venditore di fumo: nel
2018 ne annuncia financo la quotazione in Borsa, ma ovviamente non se ne saprà
mai più nulla. (…).
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