C’è da diffidare alquanto allorquando,
da qualche antro malsano e maleodorante della politica, si invoca il popolo
sovrano quale arbitro supremo, o illuminato, delle dispute politiche. C’è
sempre da temere il peggio allorquando gli uomini della politica, sfiancati da
anni ed anni di insalubre ribalta politico-mediatica, si aggrappano all’ultima
scialuppa di salvataggio: il popolo sovrano per l’appunto. Anche nei paesi del
socialismo reale si faceva tutto in nome del popolo sovrano; dagli stermini di
massa agli insalubri gulag siberiani. Ché di solito, il popolo sovrano, ragiona
di pancia, e quindi per un fatto anche anatomo-funzionale è per lo più poco
illuminato. E come per i sovrani di un tempo solitari sul loro scranno, sovrani
che di illuminato avevano spesso ben poco, anche oggigiorno c’è da temere della
ragionevolezza del popolo sovrano, fatto di una moltitudine mediaticamente ben
addestrata a sonnecchiare sulle cose importanti dell’esistenza e ad infatuarsi
delle castronerie serotine del piccolo schermo. Nel fatale destino del bel
paese poi, è potuto accadere che per le sue ubertose contrade si siano
avvicendati erranti, ieri come nei giorni correnti, cavalieri dall’aspetto
tronfio, cavalieri inneggianti al popolo e vogliosi di scegliere e comandare in
nome suo; una disdetta storica di già vissuta in verità, ché se solo si avesse
un briciolo, dico un briciolo, di sana memoria storica, le ultime distorcenti invocazioni
venute da cavalieri o capitani erranti nell’etere al popolo sovrano avrebbero
meritato un’unica onorevole sorte: di essere sepolte sotto una spettacolare
sghignazzante risata. Ma il popolo, nel secolo
ventunesimo, dove sta? Quale è divenuta la sua natura? O torna comodo farlo
divenire e credere una entità immateriale, come l’etere ed i suoi immaginifici
messaggi? Cerco ansiosamente una risposta. Di seguito trascrivo, in parte, una
nota di Francesco Merlo - “Quanti abusi
nel nome del popolo” - pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 20 di
novembre dell’anno 2007; nota invero straordinaria, sia per la qualità della
sua prosa che per il suo dotto, molto dotto contenuto: (…). Nessuno sa definire il
popolo, che non è la classe di Marx, non è la moltitudine della nuova mistica
rivoluzionaria alla Toni Negri, non è la folla solitaria di Ortega, non è la
gente di Sergio Endrigo, non è la curva sud degli ultrà, non è il pubblico
della democrazia americana, non è l’audience della televisione, non è il
mercato dei consumatori. Non è la comunità spontanea, non è la società
weberiana, non è l’insieme degli eletti e nemmeno degli elettori, non è un
paese in guerra, non è il terzo stato, non è la plebe, non è nemmeno il
protagonista delle canzoni rivoluzionarie - «avanti popolo alla riscossa» o «el
pueblo unido jamás será vencido» - che sono ritornelli tanto nostalgici quanto
ridicoli, da cantare come si canta «ciuri ciuri». E difatti la parola popolo
resiste solo nell’accezione anglosassone, folk in inglese e volk in tedesco,
che è il pittoresco, è il folklore, è il mondo che abbiamo perduto, non il
sostantivo dell’indistinto ma l’aggettivo del semplice e dimesso, e anche
dell’etnico, nel senso profondo di sangue e terra: c’è il popolare della destra
(völkisch) che rimanda ai furori germanici e c’è il popolare della sinistra che
rimanda ai canti, alle musiche, ai proverbi. E possono essere popolari i
peggiori vizi della folla, le orecchie del pettegolezzo, le dicerie e i
venticelli delle calunnie. Ma anche i più efficaci rimedi medici sono popolari,
come le migliori ricette di cucina. In democrazia, la sovranità è sempre
popolare. Ma «in nome del popolo italiano» si esercitano sia la giustizia sia
l’ingiustizia. «Noi, popolo degli Stati Uniti…» è l’incipit della Costituzione
americana. Uccidersi a vicenda nella nomenklatura dei regimi comunisti era il
modo più sicuro di risolvere «le contraddizioni in seno al popolo». Come si
vede, popolare è meno insignificante di popolo. Sicuramente non è solo un alibi
linguistico, non è solo l’ipocrisia delle finte democrazie comuniste (come la
Cina popolare, per esempio) che è la stessa ipocrisia delle “banche popolari”
italiane che si blasonano ancora con l’aggettivo pur non essendo più le risorse
dell’Italia contadina e cattolica, con l’azionariato diffuso e il piccolo
risparmio investito in attività marginali ed agricole. In fondo il merito della
parola popolare è quello di togliere pesantezza alle cose grevemente oscure,
spostarle dalla realtà e renderle idealmente aggraziate, armarle di ingenuità,
di naturalezza e di immediatezza. Il parlare scurrile, per esempio, viene
giustificato e, persino apprezzato, perché sarebbe popolare. E così le
scorrettezze e le sgrammaticature vengono fatte passare per virtù di popolo,
per realismo, per semplicità. Tanto più che oggi popolare significa anche di
larga diffusione, di forte consenso interclassista, di simpatia, (…). Eppure se
si cerca “folk” in un buon dizionario inglese imprevedibilmente si trova oltre
a popolo, gente e razze, anche band of warriors, banda di guerrieri. Certo, è
vecchio inglese, ma in fondo è lo stesso sapore vaghissimo che c’è ancora nella
parola italiana “popolo”, quel significato lontano, la cui forza stava tutta
nel senatus populusque, popolo nel senso militare della Repubblica romana, vera
democrazia contadina affidata alle armi, al verbo populor che vuol dire
devastare, saccheggiare, desolare, e in senso traslato consumare e guastare. Il
populus, contrapposto da un lato agli aristocratici e dall’altro alla plebe,
era fatto di piccoli proprietari terrieri che usavano il vomere, vale a dire la
lama dell’aratro, sia per tagliare le zolle della propria terra sia,
impugnandolo come una spada, per tagliare la gola ai nemici. E populatio
significa infatti saccheggio, devastazione, preda e bottino. Dunque davvero è
sepolta l’anima della parola popolo nell’uso e nell’abuso, nell’usura del
tempo, anche se rimane difficile capire come abbia fatto una parola a diventare
insignificante, a perdere ogni aderenza con la realtà fosse pure un’aderenza
ideale. Machiavelli per esempio usava ancora il popolo nell’accezione romana,
voleva rilanciare il popolo armato contro l’uso dei mercenari. E nel socialismo
ottocentesco il popolo era il titolare della bandiera rossa, dunque
dell’avvenire, e la casa del popolo (chi ricorda il romanzo?) era una
costruzione che mai si portava a compimento. Nel Risorgimento dicevi popolo e
capivi che bisognava buttare fuori lo straniero. Era sinonimo di nazione e di
Patria, magari con la connotazione religioso- mazziniana del massone che
santificava il popolo: lo sostituiva ai santi. Il popolo della prima guerra
mondiale fu “carne da cannone” secondo il linguaggio dell’antimilitarismo
anarco-socialista. Poi nel fascismo il popolo diventa oceanico, una figura
spettacolare del nazionalismo imperialista, un’opera di coreografia della
grande proletaria, alla quale «è fatto assoluto divieto – diceva un editto di
Achille Starace – di portare il colletto della camicia nera inamidato». E
ancora nel dopoguerra aveva un senso dire popolo, e non solo per la sinistra
che si riaggancia al Risorgimento e con “il blocco del popolo” ripropone Garibaldi,
ma anche per i cattolici che organizzano il popolo dei credenti, con le
parrocchie che diventano il popolo di Dio… Nessuno può dire quando esattamente
la parola ha smesso di significare ed è diventata la risorsa difensiva delle
teste confuse, il marchingegno retorico che permette di giustificare, senza
peraltro esibire alcuna reale giustificazione, qualsiasi politica, (…). …in
Italia chiunque riempie di rancori una piazza, o affoga Internet di cattivi
umori, o fa botteghino con gli sberleffi, o viene applaudito nei talk show, o
affolla piazza San Giovanni per un concerto… Insomma chiunque partecipa al
lento sfaldarsi del nostro ordine civile lo fa con il popolo dalla propria
parte: tutti populisti senza popolo, tutti pronti a lusingare una parte di folla,
a sfruttare le sue paure e ad alimentare i suoi pregiudizi, a trasformare il
mal di pancia in macchina di consenso e di attrazione, in nome del popolo che
non esiste, abusando di una parola che ormai suona peggio di una parolaccia. Ha
scritto Michele Serra al tempo della “pandemia” in “Potere al popolo” sul quotidiano “la Repubblica” di sabato 19 di dicembre:
(…).
…dopo tutti questi mesi è diventata fermissima la convinzione che molto, anzi
quasi tutto, dipende da me (da ciascuno di noi). Alle istituzioni non possiamo
chiedere più di tanto. Magari, ecco, di non fare troppa confusione. A noi
stessi, invece, moltissimo: il futuro è nelle nostre mani. È il principio
dell’autogestione, a ben vedere un principio ultrademocratico, perché dà molto
potere al popolo (ma il “popolo”, nel secolo ventunesimo,
dove sta? O ne è divenuto sparuta minoranza? n.d.r.). Il prudente, il rispettoso, il
distanziato, sono i custodi, anzi gli esecutori diretti, della salute pubblica.
Il menefreghista, l’appiccicoso e ovviamente il negazionista sono nemici
pubblici, e quelli che individuano nel Covid il pretesto per la “dittatura
sanitaria” sono i peggiori complici della malattia. (…). C’è una gentilezza
evidente, nell’attesa disciplinata e distanziata che la peste trascorra, e che
la scienza la domi. E c’è un’arroganza demente nell’idea che niente, nemmeno la
peste, deve impedire il nostro diritto al capitone.
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