"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 6 dicembre 2020

Cronachebarbare. 77 «Ora, le fake news sono vecchie come il mondo. Si chiamano bugie, menzogne, balle».

Sosteneva Mark Twain – al secolo Samuel Langhorne Clemens – che, «nel tempo in cui una bugia fa il giro del mondo, la verità non si è ancora allacciata le scarpe». E sì che l’anagrafe - Florida, 30 di novembre dell’anno 1835 – Redding, 21 di aprile dell’anno 1910 - di quel grande non consentirebbe di pensare che a quel Suo tempo le “fake news” siano state il “pane quotidiano” della grande o piccola stampa. È che “fake news” sì o “fake news” no, o come diavolo si saranno chiamate a quel tempo, le “bugie” della stampa di allora, come della televisione poi e di internet ultimamente trovano la loro esistenza e la loro ragione nel servizio che i mass-media rendono – in tutte le epoche - o sono costretti a rendere al potente di turno. Di seguito un estratto dalla introduzione di Marco Travaglio al Suo “Bugiardi senza gloria”, estratto riportato su “il Fatto Quotidiano” del 4 di dicembre 2020 con il titolo “Bugiardi senza gloria: i padroni delle news”: (…). Perché qui l’unico cambiamento accettabile è quello dei gattopardi che fingono di cambiare tutto per lasciare tutto com’è? Perché “Spelacchio”, l’albero di Natale sfigato nella Roma targata Raggi, ha attirato più titoli sui giornali e sui telegiornali della trattativa fra lo Stato e la mafia? Perché la maggioranza degli italiani s’è fatta l’idea che Andreotti, salvato dalla prescrizione per associazione per delinquere con la mafia, reato “commesso fino alla primavera del 1980”, sia stato assolto e dunque perseguitato? Perché Berlusconi, dopo una condanna definitiva per frode fiscale, nove prescrizioni, altrettanti processi mandati in fumo da leggi fatte da lui, un’indagine in corso per le stragi del 1993-94 e tutti i suoi fedelissimi in galera per corruzione o per mafia, passa ancora per uno statista con cui dialogare? Perché l’Eni, con tutte le sue tangenti pagate in giro per il mondo, e i Benetton, con tutti i disastri che hanno combinato dal ponte Morandi alle autostrade, sono tabù per l’“informazione”? Perché i 5 Stelle, che non hanno mai rubato un euro allo Stato, anzi hanno restituito o rinunciato a centinaia di milioni, sono il nemico pubblico numero uno? Perché in Italia le bugie hanno gambe lunghissime, mentre la verità è monca? Tante domande diverse, una sola risposta per tutte. Esistono due storie d’Italia. La storia vera, che tutti afferriamo per un attimo in presa diretta e poi subito dimentichiamo. E la storia falsa, riveduta e corrotta a suon di balle dai giornali e dalle tv dei padroni, che prima la taroccano e poi ce la fanno ricordare come vogliono loro. Ecco perché in Italia il problema numero uno non è né la politica, né l’economia, né la giustizia: è l’informazione, che le condiziona tutte e ne impedisce il miglioramento, anzi ne agevola il degrado (…). Per questo i giornali “di carta” continuano a uscire in edicola, anche se hanno quasi tutti i bilanci in rosso. Convengono ai rispettivi padroni. Non per i ricavi, spesso magri o inesistenti, anche con i finanziamenti pubblici e/o gli introiti pubblicitari. Ma perché condizionano la percezione della realtà, dunque l’opinione pubblica, quindi la politica, l’economia, la magistratura. I padroni dei giornali e delle tv non hanno nulla a che fare con gli editori, anche se si fanno chiamare così: usano i loro media come bastoni e carote. Bastoni per malmenare chi ostacola i loro interessi (in tutt’altri campi: quelli dei loro veri business). Carote per nutrire chi li asseconda e si mette al loro servizio. Provate a immaginare come saremmo tutti migliori, più liberi di sapere, di ricordare e di votare, se qualcuno finalmente depurasse la fonte delle informazioni dai conflitti d’interessi di chi apre e chiude il rubinetto. Se la Rai non fosse dei partiti, ma dei cittadini che pagano il canone. Se Mediaset non fosse di Berlusconi, ma di un editore puro, magari straniero. E se i principali quotidiani e settimanali non fossero della Fiat-Fca, di Berlusconi, di Caltagirone, di De Benedetti, di Angelucci, di Romeo, della Confindustria, delle banche, delle assicurazioni, insomma del Partito degli Affari. Che, proprio perché possiede tv e giornali, continua a piazzare i suoi maggiordomi in Parlamento e al governo per conservare il potere e affossare ogni tentativo di cambiamento. O per cooptare e comprarsi chiunque intenda cambiare qualcosa. Che aspettiamo a ribellarci? Da una decina d’anni la rivolta dei popoli contro gli establishment e le élite cova sotto la cenere un po’ in tutto il mondo, e ogni tanto tracima nelle urne con manifestazioni a volte sacrosante, altre non proprio edificanti, ma comunque indicative di un’esasperazione non più controllabile. Il referendum contro la Troika europea in Grecia, quello per la Brexit nel Regno Unito, l’elezione di Trump negli Stati Uniti, la bocciatura della schiforma costituzionale di Renzi, l’incredibile boom dei 5 Stelle in Italia. Da quando gli elettori si son messi a votare contro i partiti e l’informazione mainstream, le élite reagiscono in modo isterico, puerile e anche un po’ comico. Strillano al “sovranismo” e al “populismo” per demonizzare ed esorcizzare con paroloni insensati ciò che non riescono a comprendere. Anziché guardarsi dentro per capire cosa non va in se stessi, di farsi un esame di coscienza, di riconoscere i propri errori e di chiedere scusa, cercano i colpevoli all’esterno: i social network che subornerebbero gli elettori ignoranti a colpi di fake news e “post verità”. E, non potendo abolire il popolo, tentano in ogni modo di censurare i social, che guardacaso sono gli unici media che non controllano (diversamente da quelli tradizionali: tv e giornali). Ora, le fake news sono vecchie come il mondo. Da Adamo ed Eva. Da Caino e Abele. Si chiamano bugie, menzogne, balle. Politici e giornalisti le hanno sempre raccontate. Basti pensare a quelle che hanno garantito 25 anni di fortune a Berlusconi, due a Monti, nove a Napolitano, sette a Renzi e già quattro a Salvini. Ma ora il Dizionario Mainstream le chiama fake news, per fingere che siano una novità. E nascondere la gelosia delle élite perché il web le ha private dell’esclusiva sulle menzogne, finalmente democratiche e accessibili a tutti. Ora tutti, non più soltanto i padroni, possono fabbricare e diffondere bugie (molto meno pericolose di quelle certificate dal bollino di garanzia di testate storiche, famose, dunque autorevoli per definizione; senza contare che la Rete, essendo libera, contiene tutto e il suo contrario e ogni fake news viene neutralizzata da un’altra di segno opposto, totalizzando quasi sempre il saldo zero). La democratizzazione della bugia fa imbestialire gli establishment che, per quanto ultraliberisti devoti del Dio Mercato, detestano la concorrenza e pretendono il monopolio. Anche delle balle (…). L’unica rottura del circolo vizioso è una ribellione dei lettori. O dei giornalisti. O di entrambi (…). Il 5 novembre, la sera dopo le Presidenziali Usa, Trump è in svantaggio su Biden e convoca la stampa per un monologo senza domande, in cui grida ai brogli e nega la sconfitta. Sei fra i principali network televisivi – Cnn, Nbc, Cbs, Abc, Cnbc, Msnbc – lo interrompono, o lo sfumano, o lo tagliano, o lo oscurano per precisare subito, in diretta, che sta mentendo. Se l’avessero fatto prima della sua sicura sconfitta, sarebbero stati più credibili. Ma quella rivolta dei giornalisti fa comunque il giro del mondo. Anche in Italia, dove molte grandi firme si spellano le mani per applaudire i colleghi americani, non avendo mai osato fare altrettanto una sola volta nella loro vita. (…).

Nessun commento:

Posta un commento