«La Madonnina vestale del giglio tragico fa “la killer” del pensiero» di Pino Corrias pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, domenica 7 di aprile 2024: Maria Elena Boschi – la signorina onorevole che si incarica di decifrare la rotazione dei giornalisti intorno al sole della politica per calcolarne l’ombra, eventualmente con la pena dell’esilio – non l’ha portata la cicogna, come nelle fiabe a lieto fine, ma la Leopolda, depositata direttamente accanto al nido del suo mentore, il Saudita, anno 2012, dove lei declamò le sue primissime parole in pubblico, “siamo qui per inseguire un sogno”, purtroppo pronunciate a vuoto, visto che i cronisti e i fotografi, in gran parte maschi non raccomandabili, si lasciarono distrarre dalle sue notevoli scarpe leopardate, tacco 12, dal suo incedere, che per pregiudizio sessista fu definito “della giaguara”. Al punto che a noi posteri solo quell’iperbole tramandarono. Malauguratamente per l’Italia, ma anche per lei. Che se ne adontò al punto da precisare, ogni volta che ne aveva occasione, il suo quoziente di preponderante lignaggio politico: “Sono bionda, ma non per questo sono cretina”, disse. E la volta dopo: “Vorrei essere giudicata non dalle forme, ma dalle riforme”. Che all’apparenza sembrava una bella trovata lessicale, essendo lei medesima, Ministra della Riforme, salvo trasformarsi in una crudele sentenza quando si trattò di misurarsi sulla riforma più importante di tutte, quella costituzionale, seppellita a furor di popolo dal referendum, anno 2016, sulla quale si giocò le scarpe e il sorriso: “Se non vinciamo mi ritiro dalla politica” giurò sull’altare della tv, imitando a pappagallo il temerario Saudita: “Metto in palio la testa e se perdo, addio”. Per poi infischiarsene entrambi, e dimostrare che le scarpe, il sorriso e persino la testa erano niente, solo chiacchiere senza durevole distintivo. Maria Elena nacque Overdog – direbbe l’antica Giorgia della Garbatella – nella ridente Laterina, anno 1981, accanto al paesello di Pupo, a dirne la peculiarità maggiore, provincia di Arezzo. Babbo cattolico fervente, collezionista di presidenze, vicepresidenze, consigli di amministrazione, banche, consorzi, eccetera, un democristiano in purezza. Mamma preside, nonché vicesindaco del borgo, anche lei scudocrociata militante e timorata. Villino su campagna ben pettinata, la dimora. Con quieta adolescenza a seguire: catechismo, oratorio, gite con i ceci fritti e la chitarra, messa la domenica, il parroco che vigila sui suoi occhi blu velvet orientati già da allora verso il nume più controverso di quei paraggi, Amintore Fanfani. Poi il liceo Petrarca a Arezzo, le passeggiate sul corso. La laurea in Giurisprudenza, con lode, la festa con le amiche e la comunione di ringraziamento. Un primo impiego da avvocato che sarà anche l’ultimo, visto che tra quelle carte bollate si fa avanti l’atletico Francesco Bonifazi, futuro tesoriere del Pd, un dalemiano che al primo giro utile rottama D’Alema e si accoda all’astro nascente, neoeletto sindaco di Firenze, Renzi Matteo, a quell’epoca detto il Bomba. È lui che gliela presenta. Matteo la ingaggia al primo sguardo come consulente legale di Palazzo Vecchio, con l’incentivo di una poltroncina nel cda di Publiacqua, giusto per l’ideale. Il quale ideale punta ben presto al bersaglio grosso, la conquista del partito democratico – “Basta con lo strapotere rosso!”, “Rottamazione senza incentivi!” – e inizia, nei ricordi di Maria Elena, con il colpo di scena di una telefonata, come nelle fiction: “Pronto Mari, sono Matteo, sei pronta per le primarie?”. Eccoli tutti e due sul pullman della vita, come ne Il Laureato, in fuga, per reciproco amore politico, verso la massima fioritura del celebrato “Giglio magico”, con l’entrata in scena di Luca Lotti, detto il Lampadina, appena scappato dall’Azione cattolica di Montelupo Fiorentino, e l’ex berlusconiano Marco Carrai, manager di multiple imprese, che transitano dai cantieri edili a quelli della cybersicurezza, con angeli custodi nel cielo di Israele. Sono loro lo staff della lunga marcia, con un denominatore comune che li associa, condividere quel fazzoletto di Toscana e le belle banche di riferimento: Carrai è dentro Monte dei Paschi di Siena e la Cassa di Risparmio di Firenze. Maria Elena ha il babbo sistemato in Banca Etruria. Mentre quello di Luca Lotti fa il funzionario nel Credito Cooperativo di Potassieve. Circostanza che porterà un sacco di nubi nere processuali per dissesti finanziari, liquidazioni coatte, migliaia di risparmiatori nei guai. E il solicello finale delle multiple assoluzioni. La scalata intanto riesce. Arrivano i seggi romani e i giorni radiosi dell’Era Renzi che prometteva una rivoluzione al giorno: “La buona scuola”, “Cambiare verso”, “Passo dopo passo”, “I mille giorni”, “La volta buona”. Maria Elena entra alla Camera nel 2013. Le cronache la incoronano “Miss Parlamento”. Lei si schermisce: “Sono una cattolica da parrocchia”. L’anno dopo – quando Renzi soffia Palazzo Chigi all’amico Enrico Letta – è già ministro delle riforme. Altri due anni, eccola addirittura Sottosegretario di Stato, prima donna a ricoprire quel ruolo. E pazienza per i social furibondi: ma non dovevi dimetterti? A rileggere quel che annunciava in quei giorni felici, fa tenerezza: “Taglieremo di 50 miliardi le tasse”, “Dureremo fino al 2018”, “Se dovessimo andare a elezioni il Pd prenderebbe di nuovo il 40%”. E persino: “La politica serve per cambiare il Paese, non per cambiare casacca”. Dichiarazione audace, avendo nel suo guardaroba accumulato quelle della Dc, del Partito popolare, della Margherita, del Pd. Fino all’ultimissima di Italia viva, con stola da capogruppo. I cronisti la incensano: “occhi da nobildonna”, “sorriso rinascimentale”, “incedere sontuoso”, eccetera. Mai nulla che riguardi un pensamento politico. I fotografi la inseguono, specie quando va a cena al Twiga di Daniela Santanchè. I rotocalchi ci aggiornano sulle sue faccende di cuore, e il suo sogno non del tutto eccentrico di “un matrimonio e tanti figli”. Il botto nella commedia degli adulti lo fa adesso, salendo sullo sgabello di vicepresidente della Commissione di vigilanza Rai, per esibirsi con la spensierata proposta di pesare le opinioni dei giornalisti sulla stessa bilancia dei politici per rendere il malanno del libero pensiero passibile di sentenza. E magari farne un albo per i futuri plotoni dell’articolo 21. È finalmente un successo di fischi e di risate. All’unanimità.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 7 aprile 2024
MadeinItaly. 07 Pino Corrias: «Maria Elena Boschi non l’ha portata la cicogna, come nelle fiabe a lieto fine, ma la Leopolda».
Quando la fiducia riacquisterà la vista ed i
soli irraggeranno, non essendo più meri abbandonati; quando le zebre
riusciranno ad attraversare le strade tranquillamente o i buoi faranno il nido;
quando faremo giri di parole ma per arrivare al Dunque e pure Oltre; quando nei
talk show andranno solo mimi e la maggioranza degli spettatori non migliorerà
la propria miopia; quando ogni dito se vorrà cambierà mano, inorridito, da ciò
che ha commesso quella dov'é cresciuto; quando i sensi delle vie supereranno
quelli delle persone e agli "incroci" non ci saranno più incidenti
etnico-razziali; quando protervia sarà parola conosciuta più di "influencer"
e il giorno del Ringraziamento i tacchini divoreranno presidenti americani
comunque ugualmente pieni di sé, ed al quarto potere si aggiungerà anticipatamente
il terzo sapere, il secondo dovere, fino al primo volere; quando nessun prurito
tribale occidentale farà grattar la terra fino a farla sanguinare, beh, in
quell'istante, lo stupore si suiciderà: gettandosi dalla più alta delle
Probabilità. (Tratto da “La fine
dello stupore” di Alessandro Bergonzoni pubblicato sul settimanale “il Venerdì
di Repubblica” del 29 di marzo 2024).
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