"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 28 marzo 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 69 B. M. «I socialisti non sono né saranno mai italiani, perché anche i socialisti nati in Italia hanno come modello, come ideale, la Rivoluzione russa e, quindi, sono portatori di un morbo infettivo, di una epidemia letale».

                                                Sopra. I coniugi Matteotti. 

(…). La politica della speranza gli era preclusa e lui (Benito Mussolini n.d.r.), allora, smanioso di trovare una diversa strada che lo conducesse al potere, comprese che esisteva, come esiste tuttora, un'unica passione politica più potente della speranza: la paura. Nel 1919, milioni di donne e di uomini speravano in un futuro migliore e sentivano prossimo il tempo dell'avvento, il momento in cui quel futuro avrebbe fatto irruzione nel presente. Ma moltissimi tra quei milioni di donne e di uomini, soprattutto di uomini, avevano anche vissuto di paura gli ultimi quattro anni delle loro esistenze nelle trincee della Prima guerra mondiale, dove il nemico lo vedevi di rado e solo quando ti piombava addosso per sventrarti con la baionetta, dove la morte ti pioveva in testa dal cielo nei bombardamenti senza che tu potessi rendertene conto, dove addirittura la morte era invisibile e impalpabile, insufflata nei tuoi polmoni  attraverso  il  gas. Per anni quegli uomini avevano mangiato, fumato, bevuto paura, e quella paura ora li seguiva come un'ombra nella vita civile del  mondo riappacificato, determinando il tono umorale di fondo attraverso cui andavano incontro al loro giorno. Ma di cosa avevano paura quei reduci della grande paura una volta tornati alle loro case? Delle speranze degli altri. La piccola borghesia, che aveva faticosamente guadagnato qualcosa nei primi anni del nuovo secolo, e la grande borghesia, che aveva molto da perdere, avevano paura della speranza dei socialisti, cioè della rivoluzione. Avevano paura di quel futuro di redenzione dei torti. Mussolini allora, bandito dalla speranza socialista, nella sua propaganda postbellica scommette la sua intera posta sul suo contrario; soffia sulla paura, la alimenta, la ingigantisce: il socialismo è una barbarie, il socialismo è una pestilenza, il socialismo è l'orda di un invasore straniero che minaccia dall'interno il nostro Paese. Chiunque avrebbe potuto ribattere: "Invasore straniero? Ma come? I socialisti sono italiani, sono cresciuti a fianco a te, ci hai giocato insieme in cortile, tu stesso eri un socialista fino a ieri!" E lui avrebbe replicato: "I socialisti non sono né saranno mai italiani, perché anche i socialisti nati in Italia hanno come modello, come ideale, la Rivoluzione russa e, quindi, sono portatori di un morbo infettivo, di una epidemia letale." Quella epidemia, non a caso, che la propaganda fascista dei primi anni venti definiva "peste asiatica". I nemici socialisti, gli italianissimi portatori della peste di cui il populismo fascista invitava ad aver paura, erano rappresentati come invasori stranieri accampati nel territorio della nazione. (…). (Tratto da “Fascismo e populismo” di Antonio Scurati, Rizzoli editore, 2023).

“Non solo Giacomo tutti i Matteotti dissero no al Duce”, testo di Simonetta Fiori pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 24 di marzo 2024: Perfino le rose rosse finirono sotto inchiesta, due piccoli mazzi deposti dai famigliari sulla bara. Perseguitata in vita, Velia non fu lasciata in pace neppure da morta. I funzionari della polizia fascista provvidero a identificare lo sparuto corteo funebre che ne aveva scortato il feretro fin dentro la chiesa, con quel gesto ridicolo di porre sotto sequestro i fiori perché "troppo rossi", e là sembra di cogliere la radice di tanta ottusa insofferenza contemporanea pronta ad accendersi al solo apparire del colore purpureo perché simbolo della rivolta. Nell'Italia del 1938 era la regola. A 48 anni, le occhiaie che segnavano l'ovale perfetto di Velia Titta Matteotti si fecero fosse profonde, a causa di una malattia a cui certo non erano estranei le ripetute minacce, i controlli ossessivi, i continui pedinamenti eseguiti dagli uomini di Bocchini. Ma una protagonista come Velia non può essere ricordata solo nella veste di vedova martirizzata, come sarebbe ingiusto nel centenario della morte inchiodare Giacomo al personaggio dell'assassinato illustre, essendo stati entrambi - Velia e Giacomo - molto più di vittime sacrificali. Politico lucido, antifascista precocissimo e risoluto oppositore dell'ingresso italiano nella Grande Guerra lui, Matteotti, il socialista coraggioso che nel maggio del 1924 firmò la propria condanna a morte con un discorso parlamentare rimasto nella storia; donna di straordinaria tempra lei, Velia, lettrice appassionata di Romain Rolland e di H.G. Wells, autrice di poesie e di racconti, perfino di un romanzo uscito nel 1920 con lo pseudonimo maschile di Andrea Rota per sfuggire ai pregiudizi dell'epoca e per cogliere in libertà i giudizi dei lettori. «Un trucco riuscitissimo», avrebbe confidato a Giacomo, un innocente stratagemma del quale sorridere insieme nei rari momenti di serenità. La storia non fu generosa con lui, pugnalato più volte sotto l'ascella e al torace e poi abbandonato in una fossa provvisoria nel bosco della Quartarella dove l'avrebbero ritrovato nei giorni di Ferragosto. Ma certo non fu più benevola con Velia, sopravvissuta al delitto con tre figli da allevare, privata dal regime di tutto, non solo del compagno molto amato ma pure degli amici più cari, di una normale vita sociale, e della possibilità di fuggire altrove. Prigioniera del duce, quindi, ma prigioniera anche di una pubblicistica fascista che l'ha sempre ritratta supplichevole al cospetto di Mussolini, quando invece a Palazzo Venezia nelle settimane dell'attesa diede prova di forza e dignità («Non scoppiai in singhiozzi durante il brevissimo colloquio, svoltosi in piedi, senza teatralità, ma in tutta la completa atmosfera di colpa di fronte al delitto», scrive a Gaetano Salvemini alla fine del 1926). Così come si mostrò lungimirante nel dissociarsi dal processo farsa contro gli esecutori del marito, «mi parrebbe di offendere la memoria stessa di Matteotti per il quale la vita era una cosa terribilmente seria». Ma anche la stampa amica finì per ancorarla al tradizionale ruolo di moglie adorante dell'eroe, mite e devota, i tratti del volto ovviamente dolcissimi. In realtà la sua indole autonoma s'era manifestata fin dal principio della storia d'amore, lei ventiduenne, lui ventisettenne e già uomo di esperienza, eppure così insicuro sui suoi sentimenti per la giovane poetessa incontrata a Bosco lungo sull'Abetone. (…). La loro fu una storia molto sognata, desiderata, ostinatamente inseguita ma mai realizzata appieno. Separati prima dalla guerra - lui punito in Sicilia - poi dalla militanza politico-parlamentare di Giacomo, insieme vissero poco tempo, tra affinità e divergenze che mai cessarono di nutrire il rapporto. Velia non era socialista e mai lo sarebbe diventata. Fervente cattolica, figlia di padre anarchico e di madre devota, sorella del baritono che diventò famoso con il nome alla rovescia (Titta Ruffo), la più piccola di casa Titta non avrebbe mai rinunciato alla sua fede religiosa, alimentata dalle correnti spiritualiste del tempo. Non per questo impose il rito cattolico alle nozze, lasciando Giacomo libero di sottrarsi a simboli sacri che gli erano estranei. A 30 anni pubblica il suo primo e unico romanzo, L'Idolatra, nascondendosi dietro panni maschili. Protagonista una donna che muore perché costretta a reprimere il proprio fuoco interiore, storia che pur attraverso l'enfasi retorica dell'epoca narra un riscatto femminile mancato. Dopo l'assassinio di Giacomo, avrebbe continuato a scrivere racconti autobiografici, «consolante fatica nelle lunghe notti di solitudine». Fin dalla prima aggressione, aveva compreso che il destino del marito era segnato. Scelse di stargli accanto senza costringerlo alla resa. «Nulla è più importante che compiere i doveri che si sentono», gli scrive nel 1922, l'anno dopo il sequestro ad opera di fascisti polesani. Oggi la loro casa nel Polesine, sede del Museo Matteotti, è chiusa per lavori di manutenzione. Speriamo che per il 10 giugno - centenario dell'assassinio - sia di nuovo aperta al pubblico. Se lo meritano entrambi, Velia e Giacomo. Se lo meritano entrambi, allo stesso modo.

Nessun commento:

Posta un commento