Tratto da “Noi
e gli altri davanti al male” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” di lunedì 28 di dicembre 2020: (…). Vaccinarsi, senza costrizione di legge,
è una scelta personale dell’individuo, che cerca tutela e libertà: vaccinare 42
milioni di cittadini è una campagna di massa, la più gigantesca nella storia
d’Italia, a tutela dell’intera popolazione minacciata. Il Paese intero si
prende cura di se stesso, con una scelta di autocoscienza collettiva che non ha
precedenti. Il vaccino è dunque anche un atto politico, in difesa del benessere
comune, come politico è l’attacco del virus, che contagiando l’individuo
infetta la società. È stupefacente come sia il male a rivelarci la nostra
dipendenza dagli altri e la nostra responsabilità nei loro confronti. Nulla di
ciò che facciamo per difenderci è sufficiente se non ci facciamo carico
contemporaneamente della difesa altrui: non solo dei nostri familiari e degli
amici, come d’abitudine, ma di persone che incontriamo occasionalmente e che
potremmo involontariamente esporre, contagiare, mettere in pericolo,
trasformandole in anelli di quella esponenziale catena infettiva che nelle due
ondate sembrava stritolarci. L’insidia della pandemia sta nel trasformare tutti
in potenziali vittime e possibili untori, costringendoci ad aver paura gli uni degli
altri, e insediando qui il maleficio che sostituisce il vuoto alla società,
proponendo il nulla come rimedio supremo. La soluzione va dunque cercata
proprio negli “altri” e non solo in noi, riparandoli, salvaguardandoli,
addirittura custodendoli come forma di autotutela anche se non sono il nostro
“prossimo” ma comuni esseri umani, perché come dice Camus “ci dobbiamo
persuadere che non c’è isola nella peste”. Come chiamare questa scoperta del
legame sociale che sopravvive nella disperazione, anzi diventa il bandolo di un
nuovo ordine difensivo, di qualsiasi speranza? Siamo prima della compassione
cristiana, in anticipo sulla solidarietà politica: è semplicemente la
condivisione della condizione umana radicale, denudata ed esposta al contagio,
insieme con la coscienza improvvisa del limite all’onnipotenza del progresso
che attraverso la scienza e la medicina credevamo ci avesse immunizzato dai
flagelli primordiali, e con il nuovo senso universale di vulnerabilità che
attraversa il pianeta davanti a una minaccia globale, capace di universalizzare
le paure e le angosce. Ciò che è attaccato è l’umano, nient’altro. E dalla
pressione del male riemerge spontaneamente un vincolo che dovremmo riconoscere
esattamente come umano, e proprio per questo in grado di spazzar via tutte le
separazioni identitarie artificiali costruite nell’ideologia, perché viene
prima, prevale sulle differenze, e dura nel tempo. L’ossessione genetica con
cui il Covid attraverso l’infezione ripropone lo stesso metodo a qualsiasi
latitudine, moltiplica e replica in risposta le medesime emozioni ovunque nel
mondo, generalizza le identiche misure di difesa e le stesse strategie di
contrattacco. Il virus ci rende uniformi, anche se noi siamo disuguali, e ci
sottopone per la prima volta a un’esperienza unificata, una sfida condivisa, un
esercizio di sopravvivenza comune. Solo la morte si sottrae a questa prova
collettiva. È vero che si muore sempre da soli: ma nella pandemia la morte
senza commiato è talmente al singolare da diventare pura scomparsa,
spogliandosi con il rito e la liturgia anche dei suoi effetti sociali, come se non
ci fosse un percorso di vita da ricordare: riducendosi a mero fatto biologico,
si banalizza in una semplice fine, quasi a negare la società e la rete di
relazioni che la compone, ridotta in cenere. Tutto il resto è vissuto insieme,
nello stesso momento e nello stesso modo – proprio mentre siamo distanziati e
separati – in un esperimento di compartecipazione estrema che non ha uguali. Al
di là delle nostre stesse intenzioni e delle nostre capacità, questa
condivisione eccezionale crea naturalmente un perimetro sociale obbligatorio:
crea cioè una comunità, che nasce dal bisogno e dall’affanno, dal sentimento
comune della paura, dalla ricerca della stessa via d’uscita, come capita solo
nei momenti ultimi, quando è in gioco il destino collettivo. Questo soffrire e
sperare insieme genera una lettura comune dell’emergenza e il bisogno
conseguente di riconoscere la legittimità del potere pubblico, cui tocca la
potestà simbolica di decifrare la minaccia del male e compilare il calendario
politico della difesa e della rinascita: così in un Paese disgregato si
costruisce l’insieme, come quando bisognava difendere la città da un assalto. Raramente
siamo stati comunità come in questa fase: e non per nostra scelta, ma perché (…) la salvezza o è collettiva o è impossibile. Ora tocca alla politica sfruttare
questo investimento civile spontaneo in uno sforzo comune, trasformandolo in
capitale sociale, invece di dissiparlo nelle divisioni. E tocca a noi scegliere
liberamente il vaccino, e decidere così se dopo la pandemia vogliamo conservare
questo senso di comunità creata dal virus o preferiamo consegnarci nuovamente
al contagio ideologico dell’egoismo italiano.
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