Tratto da «Il rito rubato del
Natale “senza”» di Marino Niola - antropologo culturale -,
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 24 di dicembre 2020: (…). I
social tracimano suggerimenti sui modi di aggirare il Dpcm. Ma non è solo
l’impuntatura puerile e irresponsabile di chi non vuol saperne di saltare,
anche solo per una volta, l’appuntamento con tavolate, rimpatriate, abbuffate,
scampagnate. In realtà la posta in gioco è diversa. E va al di là della
dipendenza capricciosa dalle abitudini, dall’inerzia ripetitiva delle
consuetudini. Dietro le resistenze e le resilienze, c’è una sorta di istinto
cerimoniale custodito nelle profondità del nostro genoma culturale. E che
spinge a difendere ad ogni costo una festa che non è una semplice festa
religiosa o consumistica. Ma è l’ultimo grande ciclo rituale dell’Occidente.
Che ha abolito uno dopo l’altro tutti i riti e tende a considerare i giorni non
lavorativi come finestre del calendario vuote. Come pause improduttive, come
tempo morto. Ecco perché Natale non è singolare ma plurale. Non una festa ma le
Feste, per antonomasia. Che da tempo immemorabile sono considerate la cerniera
magica dell’anno. Un serial di liturgie sacre e profane cui è d’obbligo
partecipare. Credenti e non credenti. Per tradizione e per devozione. Per
piacere e per dovere. Per gioco e per forza. Spesso giocoforza. I dodici giorni
che vanno dal 24 dicembre al sei gennaio, dalla sera della Vigilia alla notte
dell’Epifania, sono quel che resta degli antichi riti del solstizio d’inverno,
quando le giornate ricominciano ad allungarsi. In quel periodo i pagani
onoravano il dio solare Mitra. Il cristianesimo trasforma il trionfo della luce
sull’oscurità in una celebrazione del suo sole infante, nella Natività del dio
bambino, che viene al mondo in una grotta per liberare l'umanità dalla tenebra
del peccato originale. Insomma, la nostra maratona natalizia è l’effetto di una
stratificazione di simboli fitta come una geologia. Che ci lascia eredi di uno
straordinario giacimento di consuetudini famigliari, di comportamenti
millenari, di funzioni religiose e di ritualità laiche. Il palinsesto
cerimoniale natalizio è quanto di più zippato si possa immaginare. Una
successione ininterrotta di azioni comandate, emozioni recitate, riunioni
obbligate. Fabbricare il presepe, adornare l’albero, la corsa ai regali, il
cenone della Vigilia, il pranzo di Natale, la gita di Santo Stefano, il
frastuono pagano della notte di Capodanno, l’attesa notturna della Befana. Un
dodecathlon che lascia esausti i partecipanti. Una forma di agonismo ludico che
ha qualcosa delle antiche prove iniziatiche. Il risultato è una fibrillazione
collettiva, un fremito prolungato che accarezza la schiena della società. E si
preannuncia già ai primi di dicembre quando in molte famiglie si rinnova
l’annosa diatriba fra presepe ed albero, tra conservatori e innovatori, che
trasforma ogni salotto italiano in una dépendance di casa Cupiello. Di fatto le
feste sono un rito pubblico e privato, un bilancio consuntivo dell’anno vecchio
e un preventivo di quello nuovo. Uno scrutinio, con promossi e bocciati. Non a
caso i due grandi vecchi che aprono e chiudono il ciclo, Babbo Natale e la
Befana, sono dispensatori di doni e di castighi. Ormai solo di doni. E lo
scambio dei regali resta la chiave di volta della kermesse natalizia, insieme
alle abbuffate collettive. Perché rappresentano la materializzazione degli
affetti, l’incarnazione della generosità, la metabolizzazione della famiglia e
della comunità che diventano nutrimento spirituale e materiale, l’esultanza che
diventa pienezza. E mette le persone in relazione con il sacro attraverso i
cibi comandati, che una volta si chiamavano “devozioni” o “sacrifici”. In
realtà i riti danno ai nostri sentimenti un linguaggio condiviso, una forma
riconoscibile. Anche, forse soprattutto, al sentimento del tempo. Che smette di
essere un’astrazione e diventa esperienza emotiva. Niente come la riunione
festiva, con la sua conta di chi c’è e di chi non c’è più, ci fa vivere quella
sensazione insieme gioiosa e melanconica della vita che se ne va e che rinasce,
di un tempo che scorre e di un tempo che ricorre. Ecco perché le generazioni
trovano nel clima natalizio quell’armonia che manca nella vita di ogni giorno.
È come se le feste passassero un colpo di evidenziatore scintillante su tutto
quel che unisce, e fa di tanti individui una famiglia, una comunità. Passata la
festa passato l’incanto. La vita torna a scorrere e cancella quello scintillio
che le persone in questi giorni difendono con le unghie e coi denti. (…). …nonostante
le derive consumistiche, il Natale resta il solo avamposto dello spirito
festivo in un’epoca di deritualizzazione della vita. L’ultimo rifugio
dell’armonia, della grazia, della poesia in un mondo fatto solo di prosa.
Perché è il momento in cui gli individui escono da sé stessi e fanno società. O
attraverso il sacro. O attraverso la santificazione della convivialità, che
aggiunge un posto a tavola e per una volta all’anno fa una cosa sola di parenti
e serpenti. Di fatto il virus ha rovinato la festa. L’ha colpita al cuore,
perché il contatto ravvicinato dei corpi e delle anime in questo momento
significa contagio. E quel che di solito dà gioia adesso fa paura. Ma una cosa
il Covid ce l’ha insegnata. Che senza riti la collettività entra davvero in
sofferenza. Perché in realtà non è la società a fare il rito, ma il rito a fare
la società.
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