Giusto per non definire un “paradigma nuovo” la linea politica annunciata
e perseguita caparbiamente dal “capitano” leghista nell’esercizio delle sue “mansioni”
politico-ministeriali. I presupposti c’erano già tutti al tempo di questa “memoria” che risale al martedì 22 di
luglio dell’anno 2008. Scrivevo allora: Non
abbisogna di chiosa o di presentazione alcuna il pregevole editoriale “La Costituzione ai tempi della democrazia
autoritaria” di Gustavo Zagrebelsky pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” e del quale se ne riportano di seguito ampi stralci. Ai dubbiosi,
ai superficiali, se ne sconsiglia la lettura; avranno sempre da dire che non
sono queste le “cose” che preoccupano o interessano alla pancia profonda del
bel paese:(…). - A casa nostra vogliamo comandare noi -: espressione pregnante,
che sottintende un titolo di proprietà tutt´altro che ovvio. Detto
diversamente: ci sono persone che, pur vivendo accanto a noi, sono come in casa
altrui, nella diaspora, senza diritti ma solo con concessioni, revocabili
secondo convenienza. Gli immigrati pongono problemi? Li risolviamo con quote
d´ingresso determinate dalle nostre esigenze sociali ed economiche e, per
quanto eccede, ne facciamo dei clandestini, trattandoli da delinquenti. Non
pensiamo che anche noi, gli aventi diritto, portiamo una responsabilità delle
persone che muoiono in mare o nascoste nelle stive, indotte da questa nostra
legislazione ad agire, per l´appunto, da clandestini. La criminalità si annida
nelle comunità che vivono ai margini della nostra società (oggi, i rom e i
sinti; domani, chissà). Allora, spianiamo per intanto i campi dove vivono e
pigiamone i pollici, grandi e piccoli, perché lascino un´impronta. Basta non
guardare la loro sofferenza e la loro dignità. Certo, i mendicanti seduti o
sdraiati sui marciapiedi ostacolano il passaggio. Noi, che non abbiamo bisogno
di elemosinare, vietiamo loro di farsi vedere in giro. Basta non pensare alla
vergogna che aggiungiamo al bisogno. L´indigenza si diffonde? Istituiamo l´elemosina
di Stato. Si crea così una frattura sociale, tipo Ancien Régime? Basta non
accorgersene. I diritti si rovesciano in strumenti di esclusione quando, per
garantire i nostri, non guardiamo il lato che riguarda gli altri. In una
società di uguali, il lato sarebbe uno solo: il mio è anche il tuo. Ma in una
società di disuguali, l´unilateralità è la premessa dell´ingiustizia, della
discriminazione, dell´altrui disumanizzazione. Quando si prende questa china,
non si sa dove si finisce. Perfino a teorizzare la tortura, in nome della
sicurezza. Ma questa è anche un´epoca di restrizione
delle cerchie della socievolezza. Il nostro benessere è insidiato dagli
altri: dunque rifugiamoci tra di noi, amici nella condivisione dei medesimi
interessi. Al riparo dalle insidie del mondo, pensiamo di trovare la nostra
sicurezza. L´esistenza in grande appare insensata, anzi insidiosa: la parola
umanità suona vuota, le unità politiche create dalla storia dei popoli si
disgregano in piccole comunità sospettose l´una verso l´altra; l´Europa segna
il passo. Le riduzioni di scala della socievolezza riguardano ogni ambito della
vita di relazione e, a mano a mano che procedono, creano nuove inimicizie in
una spirale che distrugge l´interesse generale e i suoi postulati di legalità,
imparzialità, disinteresse personale. La legge uguale per tutti è sostituita
dalla ricerca di immunità e impunità. Ciò che denominiamo familismo crea
cricche politiche e partitiche, economiche e finanziarie, culturali e
accademiche, spesso intrecciate tra loro, dove si organizzano e si chiudono
relazioni sociali e di potere protette, per trasmetterle da padri a figli e
nipoti, da boss a boss, da amico ad amico e ad amico dell´amico, secondo la
legge dell´affiliazione. Sul piano morale, quest´atteggiamento valorizza come
virtù l´appartenenza e l´affidabilità, a scapito della libertà. Sul piano
politico, si traduce in distruzione dello spirito pubblico e nella sostituzione
degli interessi generali con accordi opachi tra famiglie. Sul piano
costituzionale, si risolve nella distruzione della repubblica di cui parla
l´art. 1 della Costituzione, da intendersi nel senso ciceroniano di una
comunione basata sul legittimo consenso circa l´utilità comune. Della
diffidenza e della chiusura, conseguenza naturale è la perdita di futuro, come
bene collettivo. Si procede alla cieca e, non sapendoci dare una meta che
meriti sacrifici, cresciamo in particolarismi e aggressività. Le visioni del
futuro, che una volta assumevano le vesti di ideologie, sono state distrutte e,
con esse, sono andati perduti anche gli ideali che contenevano. Sono stati
sostituiti da mere forze divenute fini a sé stesse, come la tecnica alleata
all´economia di mercato, mossa dai bilanci delle imprese: forze paragonate al
carro di Dschagannath che, secondo una tradizione hindu, trasporta la figura
del dio Krishna e, muovendosi da sé senza meta, travolge la gente che, in preda
a terrore, cerca inutilmente di guidarlo, rallentarlo, arrestarlo. In termini
morali, la perdita di futuro contiene un´autorizzazione in bianco alla
consumazione nell´immediato di tutte le possibilità, senza accantonamenti per
l´avvenire. In termini politici, comporta una concezione dell´azione pubblica
come sequenza di misure emergenziali. In termini costituzionali, distrugge ciò
che, propriamente, è politica e la sostituisce con una gestione d´affari a
rendita immediata. (…). Quelle tre nevrosi da insicurezza - visione parziale
delle cose; disgregazione degli ambiti di vita comune; assenza di futuro -
hanno un unico significato: la corrosione del legame sociale. Non siamo solo
noi a trovarci alle prese con questa difficoltà, ma noi specialmente. Una
domanda classica nella sociologia politica è: che cosa tiene insieme la
società? Oggi la domanda si è spostata, e ci si chiede addirittura se di
società, cioè di relazioni primarie spontanee, non imposte forzosamente, si
possa ancora parlare. In effetti, poiché convivere pur bisogna, vale una
relazione inversa: a legame sociale calante, costrizione crescente. Non è forse
questa la nostra china costituzionale? Una china su cui troviamo, da un lato,
per esempio, indifferenza per l´universalità dei diritti, per la separazione
dei poteri, per il rispetto delle procedure e dei tempi delle decisioni, per i
controlli, per la dialettica parlamentare, per la legalità, per l´indipendenza
della funzione giudiziaria: indifferenza, in breve, per ciò qualifica come liberale
una democrazia; sostegno, dall´altro, alle misure energiche, alla
concentrazione e alla personalizzazione del potere, alla democrazia d´investitura,
all´antiparlamentarismo, al fare per il fare, al decidere per il decidere: in
breve, a ciò che qualifica invece come autoritaria la democrazia. (…). «Voi
avete giuridicamente torto, perché noi abbiamo politicamente ragione». In altri
termini, il (…) richiamo alla Costituzione vale nulla, perché noi abbiamo i
voti. Quella frase (pronunciata da un deputato socialista francese
all’indirizzo di chi si opponeva alle nazionalizzazioni del governo Mitterrand
n.d.r.) fece grande scandalo, chi l´aveva pronunciata dovette rimangiarsela.
Ma si esprime lo stesso concetto dicendo: la gente ha votato, ben sapendo chi
votava, e questo basta; la forza del consenso rende nulla la forza del diritto;
chi obbietta in nome della Costituzione è un patetico azzeccagarbugli che con
codici e codicilli crede di fermare la marcia della nuova legittimità
costituzionale. La Costituzione non ammette questo modo di ragionare. Non c´è
consenso che possa giustificare la violazione delle forme e dei limiti ch´essa
stabilisce (art. 1). Ma questa è legalità costituzionale. Pensare di sostenere
una legalità traballante nella sua legittimità, invocando soltanto la legalità,
è come volersi trarre dalle sabbie mobili aggrappandosi ai propri capelli. Chi
vuol difendere la Costituzione deve accettare la sfida della legittimità e
saper mostrare, anche attraverso i propri comportamenti, che la Costituzione
non è un involucro ormai privo di valida sostanza, non è l´espressione o la
copertura di un mondo senza futuro. Occorre far breccia in convinzioni
collettive, là dove domina indifferenza, sfiducia, rassegnazione: i sentimenti
qualunquistici, naturalmente orientati a esiti autoritari, di cui s´è detto. Se
la crisi costituzionale è innanzitutto crisi di disfacimento sociale, è da qui che
occorre ripartire. Si difende la Costituzione anche, e soprattutto, con
politiche rivolte a promuovere solidarietà e sicurezza, legalità e trasparenza,
istruzione e cultura, fiducia e progetto: in una parola, legame sociale. Se non
andiamo alla radice, per colmarlo, dello scarto tra legalità e legittimità, ci
possiamo attendere uno svolgimento tragico del conflitto tra una legalità
illegittima e una legittimità illegale: tragico nel senso più proprio e
classico della parola. Ci si dovrà ritornare.
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