Ci sono “parole” che offendono il
“silenzio”.
Così come ci sono parole che vivificano, come per incanto, il “silenzio”.
Ed il Natale – per credenti o non credenti - abbisogna del “silenzio”. Poiché nel “silenzio”
del Natale le parole dette o scritte hanno tutte il fascino di quelle verità
non più dette, non più ascoltate, al tempo delle vite che affannosamente
ruinano sotto i colpi (oggi) della pandemia e non solo. Ha scritto Enzo Bianchi
– già priore della comunità di Bose - in “Le
parole giuste del Natale diverso”, pubblicato sul quotidiano “la
Repubblica” del lunedì 21 di dicembre 2020: (…). Abbiamo ascoltato annunci
davvero stolti: Natale senza festa, Natale dimesso e rassegnato, Natale
triste... Ciò mi ha spinto a domandarmi più volte che cosa rende il Natale una
festa e che cosa al contrario lo contraddice, lo impedisce. Pur assumendo
diversi significati per i cristiani e per i non cristiani, Natale resta
un'occasione di festa. Per i cristiani è la memoria della nascita di Gesù, (…).
Per quelli che non conoscono l'avventura della fede cristiana, Natale resta una festa dell'intimità, una possibilità di
gustare gli affetti e di un po' di tempo insieme, celebrando la vita. Per
tutti Natale significa vivere qualche giorno in modo particolare, conoscendo e
gustando il senso di gratuità di cui tutti abbiamo bisogno: gratuità del
sentirsi amati, gratuità dello stare insieme, gratuità di attenzioni, sguardi e
parole scambiati nella gioia e nel dire sì alla vita. Certo, non vanno
dimenticati quelli che a causa della malattia, della solitudine e della miseria
non vivono nulla del Natale perché non hanno nessuno che in quel giorno possa
fare loro una carezza, abbracciarli e dire: "Stiamo insieme!".
D'altronde, dobbiamo pur ricordarlo, vi sono sempre uomini e donne che non
riescono a festeggiare il Natale come vorrebbero, a causa del lavoro che non
può essere tralasciato: medici, infermieri, forze dell'ordine, lavoratori
dediti a servizi essenziali e continui. Non diciamo dunque che quest'anno sarà
un Natale senza festa ma piuttosto un Natale diverso, privo di alcuni elementi
di contorno, e cogliamo l'occasione per viverlo realmente, se non in compagnia
di tutti coloro che vorremmo accanto, almeno con i nostri cari, con quanti
vivono insieme a noi. Un pranzo preparato con amore è una confessione fatta ai
commensali: "Io vi voglio bene". Un pranzo condiviso nella gioia significa:
"Io sto bene con voi". E lo scambio dei doni è il riconoscimento che
io accetto il dono dall'altro, il dono che è l'altro, dunque riconosco che non
posso stare senza di lui. Abbiamo bisogno di vivere un Natale autentico, che
sia comunque una celebrazione degli affetti e una epifania degli amori che
viviamo. Augurarsi buon Natale significherà così augurarsi tanto amore vissuto
nella gioia. Sempre cara torna alla memoria mia visiva la struggente
immagine dello scomparso Paolo Villaggio che nel film “La voce della luna”, del grande ed indimenticabile Federico Fellini,
implora il mondo affinché si conceda un po’ di silenzio. Un grido disperato il Suo,
una richiesta senza speranza. Nel mondo che impazza, la cacofonia planetaria
non lascia spazio all’ascolto interiorizzato, che tutto sembra un fluire
inarrestabile di parole, spesso inutili, il più delle volte senza senso alcuno.
Sembra quasi che il silenzio sia una non-vita, la negazione della giovialità,
l’annullamento di ogni attività dell’uomo. Da altre esperienze di vita, da
altri insegnamenti e convincimenti, ci giunge una lezione ed una “parola”
(inascoltata) ben diversa: il silenzio è proprio dell’uomo, della sua anima,
della sua fragile psiche. Trascrivo, in parte, le considerazioni di Giuseppe
Jisõ Forzani, monaco buddista, che su di un supplemento del quotidiano “la
Repubblica” del 16 di settembre dell’anno 2007, sotto il titolo “Elogio del silenzio”, così scriveva: (…).
L'educazione all'ascolto, presupposto di ogni dialogo autentico, compreso
quello con sé stessi, si fonda sulla capacità di fare silenzio. Se, mentre
ascolto la parola dell'altro (o il suono di una musica, o il passaggio del
vento) io non sono capace di fare silenzio dentro di me, se non faccio tacere
il brusio dei pensieri, delle riflessioni condizionate, delle emozioni
istintive, io forse sento i suoni che mi giungono all'orecchio, ma certo non li
ascolto per quello che sono, in tutta la loro potenza espressiva. Il rapporto
con il silenzio è una funzione esistenziale primaria, alla quale ci si deve
educare tramite quell'esercizio o quella pratica che definiamo “fare silenzio”.
Fare silenzio non vuol dire imporsi o farsi imporre un tacere esteriore e
interiore passivo, subìto, ma ampliare lo spazio interiore, che è
potenzialmente sconfinato ma normalmente ingombro di ogni genere di
oggetti-pensiero. Vuol dire riconoscere il valore espressivo del silenzio,
comprenderlo come piena partecipazione e non come passiva ricezione, come
nutrimento dello spirito, della mente e persino del corpo. Non è per niente
facile fare silenzio, anche perché da secoli la nostra cultura ha imboccato la
strada di considerare parola e silenzio come antitetici nemici (i vassalli
rispettivamente dell'essere e del non essere) e non ha elaborato un'educazione
affettuosa al silenzio. Anche là dove la meditazione è rimasta come pratica
tramandata, si tratta per lo più di meditazione pensata, tecnica psichica,
esercizio di elaborazione di immagini mentali, per raggiungere un qualche stato
interiore desiderato. Un rapporto immediato, totale, assorto e vigile con il
silenzio non viene proposto come pratica dalla nostra cultura filosofica e
religiosa, ma viene abbandonato al sortilegio dell'attimo. L'amicizia con il
silenzio, come ogni amicizia, è un bene di cui avere cura. Altre culture, altre
sensibilità ed esperienze, in particolare orientali, che oggi si incrociano con
le nostre, ci fanno conoscere modalità di fare silenzio, con la mente e con il
corpo, che possiamo imparare e far nostre. Penso si tratti di una delle non
molte speranze che visitano oggi il nostro presente. La ricerca è affidata a
ciascuno. Il criterio per distinguere, rispetto al silenzio, la paglia e l'oro
credo sia questo: se la meta della meditazione proposta è uno stato di
benessere e pace, se il silenzio interiore si ammanta di aggettivi e promesse,
siamo nell'ambito del gioco mentale; se si tratta soltanto di sedere in
silenzio, siamo alla soglia del fare silenzio. (…).
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