Perché questa volta sarebbe diverso? «La tecnologia ha reso la velocità di propagazione infinitamente maggiore. È un acceleratore pazzesco di quel che succedeva già prima. Attraverso la rete un politico può impiantare un’idea in dieci milioni di menti ancor prima di essere sceso dalla tribuna. E le dinamiche virali dei social network offrono pochissimi incentivi alle persone per assumere un tono riflessivo e moderato. Piuttosto il contrario. Detto questo sono anche sorpreso quando i miei amici di sinistra trovano assolutamente ovvio che Facebook debba censurare affermazioni ritenute offensive. Per me non è affatto ovvio. Perché di quel passo finiremmo come la Cina, dove lo Stato censura le voci fuori dal coro con la scusa di proteggere il popolo».
E pensare che all’inizio della rivoluzione digitale si diceva che internet avrebbe allargato il dibattito, dando voce a tutti: cosa non ha funzionato? «Era un ottimismo acritico come acritico è il pessimismo attuale verso tutto quello che riguarda la rete. (…). …tento un’analogia con l’invenzione della stampa. C’è voluto tempo per capire che non bastava che qualcosa fosse stampato perché fosse vero. Forse ne serve altrettanto per conquistare la stessa consapevolezza con la rete. Ho fiducia nella capacità delle persone di discriminare tra vero e falso, ma è più difficile farlo avendo davanti solo 140 caratteri. La tecnologia è come un velo supplementare».
Vivere in mezzo alle fake news non dovrebbe essere il paradiso dei giornali, come fornitori di notizie vere? «Certo. Il problema è di sostentamento, non di necessità della professione. C’è chi, come il Guardian, fa un punto di principio nel non fare pagare il sito sostenendo che sia una scelta democratica. Ma noi, mentre accumulavamo sei milioni di abbonati paganti, a marzo abbiamo avuto anche 240 milioni di visitatori al sito. Si può fare l’uno e l’altro».
L’altra deriva populistica che denuncia è la morte dell’expertise: perché non ci fidiamo più dei competenti? «Il Covid ha fornito un ottimo esempio del perché anche gli esperti hanno responsabilità nel loro ridotto status. Prima ci hanno detto che le mascherine non servivano, poi che erano indispensabili. Avrebbero dovuto dire, trattandoci da adulti, che servivano ma era meglio lasciarle ai medici e a chi ne aveva più bisogno. Hanno contaminato il loro discorso di considerazioni politiche e si sono fatti male da soli. Già la crisi del 2008 aveva screditato un gruppo ristretto di esperti, gli economisti. Questa volta è stato il turno dei virologi».
Eppure, tornando alla retorica, Trump ha vinto pur essendo uno degli oratori più rozzi ad aver varcato la soglia della Casa Bianca… «Non sono d’accordo. Trump ha una sua antiretorica, fatta di paratassi (Salvini è suo fratello in questo), che è a sua volta retorica. Nato ricchissimo, ha trovato un modo di convincere masse di dimenticati che era in grado di capirli e aiutarli. Non è impresa di poco conto. Senz’altro gli è servita l’esperienza televisiva del reality show The Apprentice. Lui interpreta quella versione di sé stesso e gli viene benissimo».
Ma la stessa volgarità funzionerà anche in tempi drammatici come quelli che stiamo vivendo? «Non vedo perché no. Una lingua rabbiosa si addice a momenti arrabbiati. Come fanno il rap e l’hip hop, molto più rivelatori dell’anima dell’America di quanto molti intellettuali siano disposti ad ammettere. E come dimostra il successo di Hamilton, il musical che è riuscito proprio col rap a restituire la sofisticazione e la ricchezza espressiva di un libro di ottocento pagine».
Biden, quanto ad affabulazione, sembra un po’ moscio o sbaglio? «Non esaltante, ma la carta della forza tranquilla potrebbe giocargli a favore. I miei amici liberal lo danno vincente a mani basse. Io, che avevo predetto Trump, oggi lo vedo solo in leggero vantaggio».
In questa degradazione del discorso pubblico anche i giornali hanno evidentemente delle responsabilità: come si può fare meglio? «Il Times è un giornale che ha evitato le scorciatoie per far clic scegliendo la strada della serietà estrema. E questa scelta ha pagato. Io penso anche, abbastanza in solitudine, che non guasterebbe sentire parlare i politici con le loro parole invece che nelle ricostruzioni giornalistiche. Infine un atteggiamento scettico va bene, ma cinico no. Le legittime preoccupazioni della categoria per il proprio futuro professionale spesso hanno colorato di nero anche le cronache. Non giova».
Com’è possibile che, dopo aver compiuto il miracolo di decuplicare gli abbonati del giornale, ora lasci il posto a un altro ad? «È perfettamente normale. Il nostro secondo trimestre ha segnato il sorpasso dei ricavi digitali su quelli cartacei. È la prima volta che accade e ne sono fiero. Ma sono anche persuaso che, almeno per i prossimi dieci anni, la persona che prenderà il mio posto avrà ancora a che fare con il prodotto di carta. Con l’energia fresca che serve per conquistare nuovi pubblici, giovani inclusi».
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