"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 30 giugno 2019

Sullaprimaoggi. 91 «Paraponziponzipò».


Tratto da “Paraponziponzipò” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 27 di giugno 2019: (…). …zufola garrulo il Merlo (Francesco Merlo sul quotidiano la Repubblica del 26 di giugno n.d.r.) – “il Comune di Sala non ha subìto processi, non ha la cattiva fama della Regione, non ci sono scandali giudiziari”. C’è solo un processo al sindaco Sala per falso in atto pubblico sull’appalto più grande di Expo, ma che sarà mai. Infatti “Sala ha già ricordato che l’Expo ancora prima di cominciare fu sconvolto dagli scandali e dalle tangenti e che lui si trovò circondato da inquisiti, arrestati, condannati, gente con il quid di troppo del mascalzone, una imponderabile nuvola di corruzione”. Ecco: Sala era circondato di mascalzoni, e fra l’altro li aveva scelti tutti lui, ma come fargliene una colpa? Per il Vate del Bitume, quelle sono “nuvole imponderabili”, come quella di Fantozzi, che ti si posa sul capo quando meno te l’aspetti, per pura sfiga. Un po’ come quando ti capita di retrodatare le gare d’appalto a tua insaputa. Infatti ora Sala non sente ragioni e, pur ridendo sempre a labbra chiuse, apre un pertugio per annunciare: “Per le Olimpiadi niente procedure d’urgenza”.

sabato 29 giugno 2019

Letturedeigiornipassati. 10 «All’opera il meccanismo del capitalismo globale».


Tratto da “Accoglienza no-limits e frontiere chiuse” di Slavoj Zizek, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 29 di giugno dell’anno 2015: Che fare con le centinaia di migliaia di disperati che, in fuga da guerre e carestie, aspettano in Africa settentrionale di poter attraversare il mare e trovare rifugio in Europa? Le risposte sono essenzialmente due. I liberal di sinistra esprimono il loro sdegno nei confronti dell’Europa che lascia annegare nel Mediterraneo migliaia di persone: il loro appello è rivolto a far sì che l’Europa si mostri solidale e spalanchi le sue porte. I populisti contrari all’immigrazione dichiarano che dovremmo difendere il nostro stile di vita e lasciare che gli africani risolvano da soli i loro problemi.

venerdì 28 giugno 2019

Letturedeigiornipassati. 09 «Le mappe affettive si creano nelle prime settimane di vita».


Tratto da “Ad amare si impara da piccoli” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 28 di giugno dell’anno 2014: Si è soliti dire che nella vita "non si finisce mai di apprendere". Ma le mappe affettive che sono alla base delle emozioni si creano nelle prime settimane di vita. Aristotele diceva che l'uomo è un «animale sociale», cioè può raggiungere la felicità solo in una relazione con gli altri. Questa intuizione, peraltro di tutta evidenza, è stata studiata e confermata nel secolo scorso da John Bowlby (1907-1990), psicoterapeuta infantile di fama internazionale che ha lavorato alla Tavistock Clinic di Londra. Scostandosi dalla teoria di Freud, secondo il quale il lattante è sollecitato unicamente dalla soddisfazione delle pulsioni e dalle gratificazioni libidiche connesse all'allattamento, Bowlby ritiene che fin dalle prime due o tre settimane si verificano nel bambino «fasi di vivace interazione sociale, con uno scambio animato che comprende espressioni facciali e vocalizzi, durante la quale il neonato si orienta verso la madre con movimenti agitati delle braccia e delle gambe, a cui seguono fasi di disimpegno che preparano la successiva fase di interazione». Se la madre è attenta e risponde alle sollecitazioni del suo bambino, il neonato impara ad amare. Questa «forza motivazionale relazionale», come la chiama Bowlby, orienta il ciclo vitale, regolando gli stati fisiologici ed emotivi. Il modello di Bowlby, secondo il quale lo sviluppo dell'individuo non è deciso tanto dai processi maturativi interni, quanto dai processi interpersonali, è stato condiviso anche da Michael Balint che parla di «amore primario», da Erik Erikson che ha introdotto il concetto di «fiducia di base», da Joseph Sandler che parla di «sfondo di sicurezza», e da Arnold Modell che giunge a ipotizzare un «istinto relazionale». Se la capacità di amare non si apprende in quella prima fase dell'esistenza, difficilmente la si può in seguito acquisire. Lo stesso si può dire per la formazione delle "mappe cognitive" che decidono il modo di conoscere il mondo e delle "mappe affettive" che sono alla base del modo di sentirlo, ossia della risonanza emotiva che le cose del mondo producono in noi. Secondo Freud queste mappe si costituiscono in maniera definitiva (e difficilmente modificabile) entro i primi 6 anni di vita. Oggi le neuroscienze ci dicono che si strutturano definitivamente entro i primi tre anni. Questo significa che nei primi anni di vita ai bambini - che non crescono come le piante - va prestata grande attenzione. Che quando mostrano i loro primi sgangherati disegni non bisogna rispondere: «Li guarderò dopo» (che vuol dire mai), perché il bambino conclude di non aver fatto nulla di interessante e quindi di non essere interessante per la madre. E allo stesso modo quando chiedono il perché di tutte le cose (facendo domande che, pur nella loro ingenuità, possiamo senz'altro definire filosofiche) non si deve rispondere: «Quando sarai grande capirai», perché in quella fase i bambini stanno cercando il principio di causalità che riduce l'angoscia dell'imprevedibile. Una volta per strada ho sentito dire da un bambino: «Dio non esiste perché non ha una mamma». La risposta della mamma fu una bella risata con la sua amica, con conseguente mortificazione del bambino. La capacità di amare si decide in quell'età, insieme alla formazione della propria identità che nasce dal riconoscimento. (…).

giovedì 27 giugno 2019

Letturedeigiornipassati. 08 «Factum infectum fieri non potest, neque Deus».


Tratto da “Che sbaglio chiedere sempre di perdonare” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 27 di giugno dell’anno 2015: Non c'è delitto dopo il quale non si domandi ai parenti delle vittime un gesto di generosità. Ma è sbagliato: lenisce al reo l'angoscia del male fatto e alle vittime crea un obbligo in più. Non mi pare sostenibile la tesi che i paesi più corrotti e col più alto tasso di criminalità sono i paesi cattolici. La Cina, per esempio, non è cattolica eppure pare che esista una mafia cinese, così come pare esista una mafia russa, e in quel Paese il cattolicesimo non c'è mai stato. Per non parlare della mafia internazionale che governa il traffico delle armi e quello della droga, certo a prescindere da qualsiasi legame con la cultura cattolica. (L)’assunto che lega la corruzione e la criminalità alla cultura cattolica non ha evidenti riscontri e perciò non è sostenibile. Più interessante è invece il confronto tra la cultura cattolica e quella protestante, non in ordine alla corruzione e alla criminalità, ma in ordine al rispetto delle regole che sono alla base della convivenza civile. La cultura cattolica è caratterizzata da un doppio registro, che metaforicamente trova espressione nel fatto che dal pulpito si insegnano le regole e in confessionale si perdonano le deroghe. Con il perdono la colpa viene cancellata e la coscienza non si grava di alcun senso di colpa, che è l'unica condizione attraverso cui la coscienza giunge a una sua matura consapevolezza e acquisisce un'adeguata responsabilità in ordine alle sue azioni. La cultura protestante non prevede un ordine sacerdotale che perdona le colpe, e perciò la coscienza di ciascuno deve vedersela direttamente con Dio, il cui silenzio non dà mai la garanzia che la colpa sia condonata. In questo modo il senso di colpa non abbandona la coscienza, che con la colpa commessa deve fare continuamente i conti. Quattro secoli di protestantesimo hanno consentito ai protestanti di non imboccare la strada della doppia coscienza, dove la colpa viene di continuo perdonata e con il perdono, rimossa. Per questo, educati dalla cultura cattolica, noi siamo degli apologeti del perdono, e non c'è evento delittuoso a proposito del quale non si chieda alla vittima se è disposta o meno a perdonare. Questa cultura fa sì che la vittima che non perdona matura, lei sì, un senso di colpa, introiettando la riprovazione generale, invece dell'approvazione che riceverebbe se concedesse il perdono. Da noi il perdono gode di una considerazione positiva perché si pensa che il suo contrario sia la vendetta. Non è così. Il contrario del perdono che condona la colpa è non condonare la colpa, in modo che il colpevole ci faccia i conti per tutta la vita. E questo perché, come dice un motivo teologico medioevale: «Factum infectum fieri non potest, neque Deus», che significa: neppure Dio può far sì che un fatto avvenuto non sia avvenuto. Ma se neppure Dio può far questo, perché lo si pretende dalle vittime ogni volta che si chiede loro se sono disposte a perdonare, ossia a cancellare, se non il fatto delittuoso, il senso di colpa che lo accompagna? Non si corrompe così di continuo la coscienza, che finisce per non essere più in grado di distinguere tra il bene e il male, proprio per effetto di quella pratica che prevede che ogni male può essere sempre perdonato, e il perdono da tutti apprezzato? Una colpa non perdonata dalla vittima, obbliga al contrario il colpevole a elaborare la propria colpa, a prenderne coscienza in vista di una riconciliazione con se stesso e poi con gli altri. Perché solo l'aver frequentato e non cancellato il senso di colpa ha reso la sua coscienza responsabile dell'accaduto e, in questo riconoscimento, redimibile.

mercoledì 26 giugno 2019

Cronachebarbare. 66 «Il Giornale Unico degli Affari suona le grancasse e le trombette».


Un popolo di “demotivati”. Un popolo di “derelitti”. A quel popolo mi sono sentito di fare parte alla visione della esultanza di quei “tic”, ovvero “tipi italiani contemporanei”. L’acronimo non è mio, ma al contempo me ne sfugge il creatore. Dove quei tipi appoggiavano la loro insana esultanza per la scelta di Milano e Cortina quali sedi di una olimpiade invernale prossima? Il popolo dei “demotivati” al quale appartengo hanno tutt’al più fatto una smorfia di disgusto all’inverecondo spettacolo. Quale colpa più grande si può ascrivere ad una “casta” politica che abbia indotto il suo popolo alla demotivazione? Ci può essere altra colpa che sorpassi quella? Ma è la Storia propria di questo popolo di “derelitti”, delle sue “caste digerenti” – dico proprio “digerenti”, che riescono a digerire le vergogne che hanno creato con le loro azioni -, di quel “familismo amorale” che hanno alimentato e prodotto i “demotivati” dell’oggi, è tutto questo insieme a fornire illuminanti ed incontrovertibili verità. Decenni e decenni di intrallazzi e ruberie che hanno connotato ogni iniziativa, ogni aspetto del vivere comune. Dove appoggiare quella esultanza se non pregustando tutto ciò che ne verrà in termini di danaro e quant’altro attenga alle malversazioni e dintorni? Non si dimentichi che anche il terremoto che ha devastato l’Abruzzo veniva salutato da taluni come la manna caduta dal cielo. Un popolo di “derelitti”. Ha lasciato scritto Norberto Bobbio in “Italie ’77. Le mouvement et les intellectuels” (1977): (…). Lascio volentieri ai fanatici, cioè a coloro che vogliono la catastrofe, e ai fatui, cioè a coloro che pensano che alla fine tutto si accomoda, il piacere di essere ottimisti. Il pessimismo oggi, mi sia permessa ancora questa espressione impolitica, è un dovere civile. Un dovere civile, perché soltanto un pessimismo radicale della ragione può destare qualche fremito in coloro che, da una parte o dall’altra, mostrano di non accorgersi che il sonno della ragione genera mostri. (…). Si chiede e chiede a questo popolo di “demotivati” Marco Travaglio in “Le Linguiadi” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi 26 di giugno: Ma le avete viste le facce dei cosiddetti vincitori delle Olimpiadi nella foto di gruppo? E le fauci già spalancate dei Malagò, Montezemolo, Carraro, Pescante e Sala? Fauci già sperimentate sugli stadi di Italia 90 (spese lievitate dell’85%, ultima rata dicembre 2015), le Olimpiadi invernali di Torino 2006 (3,1 miliardi di debito, il 225% delle entrate, cattedrali nel deserto e trampolini nella neve), i Mondiali di nuoto 2009 (700 milioni di euro per il palazzo di Calatrava con le vele a pinna a Tor Vergata, mai finito; piscine sequestrate e/o di dimensioni sballate; scheletri in cemento armato abbandonati ai tossici e alle sterpaglie), l’Expo di Milano 2015 (retate di tangentisti e ’ndranghetisti, 1,5 miliardi di buco, mega-aree abbandonate). Ecco donde ne deriva la demotivazione dell’oggi. Da una storia antica, storia nera, anzi nerissima di ruberie a tutti i livelli, di malversazioni che sarebbe un interminabile elenco. Quelli dalle “fauci già spalancate” non hanno da rendere conto al popolo demotivato, ché tale lo hanno ridotto, ma a gruppi e gruppuscoli di interessi ben più sostanziosi, per la qualcosa suona stonata quella replica ai demotivati dell’oggi, più volta sentita, che il loro malanimo “non consentirebbe d’intraprendere alcunché”. È quella la colpa massima di una “casta” non politica ma ridotta a “casta” tribale. Continua Marco Travaglio nel Suo editoriale: Magari ci sbagliamo e gli stessi personaggi, che hanno sempre fallito, al seguito di Giorgetti e Zaia si trasformeranno in tanti Quintino Sella e faranno tutto per bene, per tempo e al risparmio. Ma, nell’attesa, solo un pazzo smemorato può unirsi all’esultanza di lorsignori per avere “vinto” un evento che negli ultimi 50 anni – dati dell’Università di Oxford – ha regolarmente sforato i preventivi per una media del 257% (796% Montréal, 417 per Barcellona, 321 Lake Placid, 287 Londra, 277 Lillehammer, 201 Grenoble, 173 Sarajevo, 147 Atlanta, 135 Albertville, 90 Sydney, 82 Torino, 51 Rio). Lasciando ai Paesi e alle città ospitanti un conto salatissimo da pagare, che ha portato al default Atene e Rio, al debito-record Torino e le altre all’aumento vertiginoso delle imposte locali. Anche al netto delle eventuali tangenti. Infatti le città più avvedute – Sion, Calgary, Innsbruck e Graz – si sono ritirate, terrorizzate da quella che Oxford chiama la “maledizione del vincitore” (le Olimpiadi le vince chi le perde e le perde chi le vince: l’unico che ci guadagna è il Cio). Il Giornale Unico degli Affari suona le grancasse e le trombette a reti ed edicole unificate, come se l’Italia avesse vinto la guerra mondiale e non un “evento” che dura 15 giorni. Ma è tutta propaganda per pompare Lega&Pd che si sono spartiti queste strane Olimpiadi invernali in una città senza montagne, Milano, e in un’altra che rischia di tracollare sotto il peso dei visitatori, Cortina, distante 409 km. L’alternativa era Torino che, oltre al dettaglio delle Alpi, aveva il pregio di costare poco grazie alle strutture del 2006. (…). …Repubblica titola “Miracolo a Milano (e a Cortina)”. Ma il 14.2.2012 plaudiva al ritiro della candidatura olimpica addirittura in tre articoli. Francesco Bei flautava: “Le ‘cricche’ d’affari romane, lo spettro del default greco, la vaghezza del piano, il rischio di una guerra diplomatica al termine dalla quale, alla fine, l’Italia sarebbe finita distrutta come un vaso di coccio. Sono molte le ragioni che hanno spinto Monti a pronunciare il suo no”. Gli faceva eco Tito Boeri: “La tragedia greca era iniziata proprio lì, con la candidatura ad ospitare le Olimpiadi. I sovracosti incorsi nella preparazione di Atene 2004 hanno contribuito a quella spirale di deficit pubblici crescenti, mascherati in vario modo per non pregiudicare l’ingresso nell’unione monetaria, che hanno portato alla crisi del debito”. Seguiva un’impietosa analisi finanziaria di Walter Galbiati: “Non esiste una formula matematica certa che possa valutare il ritorno economico che giustifichi lo spendere 5, 10 o 15 miliardi per realizzare i Giochi. Il ritorno di immagine e gli introiti aggiuntivi, che si trasformano in Pil, sono frutto di stime difficilmente ponderabili. I costi invece sono certi”. (…). …il Corriere esalta “La vittoria di Milano e Cortina”, “immagine di un Paese giovane che sa sorridere” (le fauci della Banda dei Quattro). Sette anni fa tripudiava per lo scampato pericolo: “Tra il 2014 e il 2018 lo Stato avrebbe dovuto trovare una copertura di 800 milioni l’anno. Con buona pace di chi aveva parlato di Olimpiadi a costo zero”. E Sergio Rizzo irrideva ai “musi lunghi delle nostre alte gerarchie sportive” (i soliti Malagò, Montezemolo, Carraro e Pescante): “Si è arrivati a sostenere che sarebbe stata un’operazione ‘a costo zero’ con le spese coperte da introiti fiscali e incassi dei biglietti. Spese astronomiche già in partenza. Otto miliardi? Dieci? Quanti davvero? Il partito dei Giochi avrebbe dovuto ricordare che da troppi anni sbagliamo, e per difetto, ogni preventivo. Di soldi e di tempi”. E giù botte alle solite cricche: “Un impasto mostruoso di burocrazia, interessi politici e lobbistici che spesso alimenta la corruzione e ci fa pagare un chilometro di strada il triplo che nel resto d’Europa. E in due decenni non è cambiato proprio nulla. Anzi. Per rifare gli stadi di Italia 90 abbiamo speso l’equivalente di un miliardo e 160 milioni di euro, l’84% più di quanto era previsto? Nel 2009 ci siamo superati, arrivando ai Mondiali di nuoto senza le piscine, ma con una bella dose di inchieste”. Quattro anni dopo, Rizzo passò a Repubblica e massacrò la Raggi per aver ribadito il no montiano per il 2024. E ora magnifica “l’occasione per Milano per fare un altro salto nella graduatoria delle metropoli europee. E scavare ancora più in profondità l’abisso che già la separa dalla capitale”. Tutto fa brodo. La Stampa è tutto un peana all’ “Italia che vince”, a “Mr Wolf Giorgetti missione compiuta”, mentre lacrima per “Torino beffata” e l’Appendino che “non si pente”. Quando invece era Monti a ritirarsi dai Giochi, elogiava “la coerenza di un no responsabile”, in sintonia con “le attese dei cittadini”. E persino il Sole 24 Ore, organo di Confindustria, oggi entusiasta perché “vince lo sprint dell’Italia”, nel 2012 definiva “l’avventura delle Olimpiadi un rischio il cui costo avrebbe creato un effetto sui conti pubblici difficilmente calcolabile”. Un po’ come Salvini, che quando Renzi candidò Roma per il 2026 twittava furibondo: “Gente che in tutta Italia aspetta una casa e un lavoro da anni. E Renzi pensa di fare le Olimpiadi. Ricoverateloooo”. E nel 2016 ribadiva: “Renzi propone le Olimpiadi a Roma nel 2024. Per me è una follia, sarebbe l’Olimpiade dello Spreco. Il fenomeno di Firenze pensi alle migliaia di società sportive dilettantistiche italiane, che fanno fare sport a tantissimi bambini e che rischiano di chiudere per colpa dello Stato, invece di fantasticare su improbabili Olimpiadi. Senza contare tutti i debiti e gli sprechi del passato e del presente. Tirino fuori i soldi per sistemare strade, scuole e ospedali”. (…).

martedì 25 giugno 2019

Letturedeigiornipassati. 07 «Che stiano a guardare inermi una nostra ulteriore crescita?».


Tratto da “Gioventù perduta? No, cancellata per errore” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del 25 di giugno dell’anno 2016: Come diceva Heidegger, «siamo nel tempo della povertà estrema». La ragione è che, - lo scriveva già Hölderlin - «più non son gli dèi fuggiti, e ancor non sono i venienti». Sembra che la nostra cultura non abbia più bisogno dei giovani, perché le leggi dell'economia che hanno ridotto la politica a pura esecutrice dei suoi ordini, con conseguente morte definitiva della democrazia, hanno soppresso tutti gli dèi per far posto a un unico dio: il denaro, generatore simbolico di tutti i valori. Per denaro si adottano tecnologie sempre più idonee a sostituire il lavoro umano, per denaro si sposta quel po' di lavoro che resta nei Paesi dove costa meno, per denaro si trasferisce la formazione della ricchezza dalla produzione agli scambi finanziari, potenziati dagli sviluppi dell'informatica al punto che basta un click per fare e disfare in un attimo enormi fortune. Oltre al lavoro, a voi giovani hanno tolto anche la possibilità di ribellarvi, ultima speranza. E questo non perché siete diventati "animali notturni" con la testa un po' intontita dall'alcol o dalla droga, ma perché, come insegna Hegel, la rivoluzione è possibile quando c'è il conflitto tra due volontà: quella del servo e quella del signore. E oggi sia il servo che il signore, sia il datore di lavoro che il dipendente, sono dalla stessa parte, avendo come controparte il mercato. E come fai a prendertela con il mercato? Il mercato è nessuno, anche se tutti sappiamo che dietro a quel nessuno c'è l'1% che detiene o governa i soldi di tutti. Il mercato ci allucina poi con la menzogna della crescita, quando tutti sappiamo che l'Occidente non può più crescere perché, se è vero come dice il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, che noi occidentali, che siamo poco meno di un miliardo, per mantenere l'attuale tenore di vita abbiamo bisogno dell'80% delle risorse della Terra, cosa pensiamo che facciano gli altri sei miliardi che popolano il pianeta? Che stiano a guardare inermi una nostra ulteriore crescita? Il declino e forse la fine dell'Occidente sono già ben visibili nella condizione di voi giovani che sopravvivete erodendo la ricchezza dei padri, senza essere in grado, e non per colpa vostra, di assicurare una ricchezza ai vostri figli, cui del resto forse avete già rinunciato, come dicono le statistiche sulle nascite. Come fa a prevedere - non dico per voi che ne siete già consapevoli, ma per se stessa - un futuro, una società come la nostra che, non per trascuratezza né per l'infausta contingenza ipocritamente denominata "crisi", ma strutturalmente, fa a meno della popolazione da 15 ai 30 anni, quella che rappresenta, come natura vuole, il massimo della potenza biologica, il massimo della potenza sessuale (benché non più, per le ragioni sopra elencate, procreativa) e il massimo della potenza ideativa? A differenza di Priamo, che poteva incolpare gli dèi, noi non abbiamo più neppure un dio, né da invocare né da maledire.