"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 26 dicembre 2020

Cosedaleggere. 92 Giorgio Bocca: «la vita vera, la felicità cominciavano quel mattino in cui un grido di mia madre mi tirava giù dal letto: “Giorgio, Giorgio, nevica”».

Il 25 di dicembre dell’anno 2011 Giorgio Bocca ci lasciava. Di seguito, la testimonianza di Roberto Vignolo – “biblista”, docente presso la Facoltà Teologica di Milano – riportata sul quotidiano “la Repubblica” di giovedì 24 di dicembre 2020 con il titolo “Quando Bocca provò a parlare con Dio”: Al 2004 risale il mio primo incontro con Giorgio Bocca. (…). Giusto nella prima di queste occasioni – (…) - verso metà pranzo a sorpresa Bocca comincia a parlarci della morte. Confesso di ricordare solo vagamente l’esatto contenuto delle sue parole. A stupirci e a sottoporci a un rispettoso ascolto, era piuttosto il pathos, il tono che v’imprimeva - insieme ai suoi occhi, spalancati e un po’ umidi. Sguardo e voce di Giorgio restituivano un coinvolgimento personale intenso, profondo. Mantenendo la consueta proprietà verbale di chi sempre cercò di capire la vita meglio che poteva - stavolta il più disincantato dei cronisti solcava il crinale di una inusuale commozione. «Non l’ho mai sentito parlar così» - avrebbe di lì a poco commentato Silvia (Silvia Giacomoni, seconda moglie di Giorgio Bocca n.d.r.). Una volta ripreso l’aplomb ordinario - sulle labbra riaffiorava l’inequivocabile sorrisetto - Bocca concludeva: «quando muoio, non ho ancora deciso se fare un funerale laico, oppure in chiesa». La perplessità, invero, non avrebbe avuto vita lunga. Di lì a breve, nel successivo incontro conviviale - senza preamboli né spiegazioni - l’antico capo partigiano di Valgrana l’avrebbe sciolta, garbatamente intimando al sacerdote proprio ospite: «quando muoio, a farmi il funerale vieni tu». Avendolo frequentato da prima e più a fondo di me, molti colleghi, amici e conoscenti si sono anche loro rispettosamente - chi più, chi meno - meravigliati di dover varcare la soglia della Basilica milanese di San Vittore, sua chiesa parrocchiale, per dargli l’ultimo saluto. In effetti, nessuno avrebbe immaginato una scelta del genere - e nemmeno che un anno prima, in tutta riservatezza, egli avrebbe celebrato il matrimonio sacramentale con Silvia a ben trentotto anni da quello civile - la notizia trapelò solo più tardi. Tuttora su Wikipedia la voce dedicatagli conclude sentenziando: «era ateo». Ma, come non fu un convertito sul letto di morte, Bocca neppure fu un ateo, tantomeno un ateo devoto. Varrebbe la pena aprire qui un capitolo parallelo sul cammino di fede della sua seconda moglie Silvia. A differenza di lui, cresciuto in un ambiente cristiano tradizionale provinciale cuneese, lei proviene da famiglia nient’affatto religiosa. Sottotraccia alla sua professione di cronista cittadina de La Repubblica, e impegnata a dar conto di Martini che nel 1980 arriva a Milano sulla cattedra di Ambrogio, quello di Silvia fu un effettivo cammino di fede. L’incontro della Giacomoni con Martini si sarebbe via via intessuto di molti ulteriori significativi incontri - con (…) Paolo De Benedetti, Enzo Bianchi, e soprattutto Suor Germana, la mitica segretaria ghost writer di Martini - per citarne alcuni. Sicché da quella data in poi alla tavola di casa Bocca-Giacomoni potevano innescarsi inediti discorsi, interessi, vivaci discussioni di tipo religioso, con reazioni e posizioni di entrambi evidentemente molto diverse tra loro. Naturalmente né la conversione di Silvia e tantomeno la frequentazione di personaggi così non hanno condizionato uno spirito indipendente quanto quello di Giorgio. Indubbiamente gli creavano occasioni per riflettere su una dimensione religiosa della vita - comunque già presente nell’educazione da lui ricevuta, e probabilmente mai del tutto rimossa dal suo animo. (…). Come ho potuto udire direttamente, Giorgio Bocca di sé volentieri ripeteva: «Io sono un tradizionalista!». E in tal caso la sua voce non vibrava di emozione alcuna. Suonava in termini di pacifica ammissione, incorniciata da un sorriso nient’affatto sarcastico, semmai autoironico. Era come un vezzo brillante, compiaciuto di chi - sulla cresta di una ragguardevole età - può ostentare una qualche narcisistica conferma di sé nelle proprie radici? Qualcosa sì, ci può stare. C’è da credere però che, così parlando, fosse non solo sincero, ma altrettanto veritiero: lui era veramente affezionato alla sua tradizione. Che lo fosse, trapelava dai suoi molto netti gusti culinari — ancorché il suo apprezzamento della buona tavola, con opzione preferenziale per le classiche ricette piemontesi, aveva poco di particolarismo provinciale. Come già per Qohelet e per Michel de Montaigne - suo grande ammiratore, e prediletto dall’ultimo Bocca - mangiare e bere significava in ogni caso celebrare una piccola quotidiana liturgia, schiettamente godibile, gratificante e condivisa - laicamente sacra. A Bocca piacevano il buon cibo e il buon vino, la terra, la montagna, la neve, lo sci a partire dalla prima elementare, le donne, la parola, la scrittura. Sì, gli piaceva la provincia, ma proprio perché «dà da mangiare» - ovvero consente a tutti di vivere. Gli piaceva la vita, in tutte le sue manifestazioni, affascinanti quanto terribili - quella felicemente apprezzabile e guadagnata con spavalda onestà. E una vita il più possibile compresa, proprio attraverso parola e scrittura che lavorano e, per quanto possono, illuminano l’esperienza. Nutriva per la vita un sentimento positivo, infrangibile a dispetto di quel suo più spietato disincanto con cui sapeva fiutare il rovescio ignobile o anche solo il lato ombroso di situazioni e persone. Con il suo linguaggio volentieri urtante, caustico e perfino abrasivo, né a sé stesso né al proprio lettore Bocca risparmia l’impatto del prender le cose di petto e a viso aperto per il loro verso più scomodo e impervio. Il che, per sua stessa ammissione, non l’esentò da qualche precipitosa e clamorosa ingenuità - peraltro onestamente ritrattata. Deontologicamente convinto della necessità di distinguere tra i fatti e la loro interpretazione, il cronista disincantato fu sempre parimenti posseduto da un sano senso antignostico del creato, resiliente rispetto a ogni male più nefasto; e seppe così mantenere sempre vigile la percezione della sua specifica e irriducibile bontà. Così racconta dei suoi trascorsi di partigiano su e giù per le valli, per scampare ai rastrellamenti tedeschi e fascisti: «eppure sembra ieri che al col Birone ho visto uno degli spettacoli unici della vita partigiana, la fioritura improvvisa contemporanea di milioni di ranuncoli. Ti fermi in una baita per mangiare qualcosa e riposare qualche ora. I prati hanno pochi fiori, qualche margherita, qualche genzianella. Ti svegli che sta spuntando il sole, fai scaldare il caffè d’orzo, prepari il sacco e le armi, pensi alle ore di cammino che devi fare per arrivare ai distaccamenti, ti avvii e nel crepuscolo subito non te ne accorgi perché sei preso dai tuoi pensieri e guardi solo dove metti i piedi salendo per una distesa d’oro, milioni di corolle sono sbocciate nello stesso mattino, alla stessa ora, sei testimone del miracolo della natura nell’aria fresco-tiepida, senti il conforto della vita che continua, che vince, che risorge». Non a caso, ai colleghi - con lui alle prime armi di giornalismo nella Torino dell’immediato dopoguerra - che si arrovellano su quale sia il segreto del buon giornalismo, replica con una sentenza di sapienza proverbiale: «non preoccupatevi, se un segreto c’è, è quello che avete già in testa, il segreto di chi ha orecchio per i suoni del creato, di chi ha occhio per la caccia, dello schermidore che sa parare e tirare». Certo che ci vogliono la spavalderia della caccia e della sfida. Ma al primo posto Bocca mette l’ascolto del creato, dove nulla è mai senza voce eloquente - nulla che non sia originariamente buono. La sentenza classica: rem tene, et verba sequentur, gli si attaglia a pennello. Fieramente mascolino, Giorgio Bocca si riconosceva iscritto in un solco tradizionale decisamente matrilineare, legato da affettuosa venerazione per la madre Carmelina Re e la nonna materna, ambedue donne di fede. Ben più problematico il rapporto con suo padre, Enrico Bocca, professore di matematica, biellese di origine, e cuneese solo di mai integrata adozione - ancorché riconosca di averne ereditato un solitario senso critico e pensoso. Proprio alla madre dedica la prima pagina del capitolo conclusivo de Il provinciale - da molti apprezzato come il suo miglior libro: «Tu eri l’unica persona al mondo che potesse capire sul serio cos’era stato per me andare all’avventura e per te seguirla, da lontano. Non lo dico tanto per dire, lo dico perché dalla morte di mia madre [1976] mi sorprendo continuamente a chiedermi: ma a chi importa veramente se faccio qualcosa? E anche se importa a mia moglie, ai miei figli, ai miei amici, è sempre un’altra cosa, non ci sono dentro gli anni della neve e del fuoco, dell’allegra pulita povertà». Risuona qui una chiara ripresa del primo capitolo - “Gli anni della neve e del fuoco” - dove Carmelina, maestra elementare, diventava per lui testimone di stupore: «la vita vera, la felicità cominciavano quel mattino in cui un grido di mia madre mi tirava giù dal letto: “Giorgio, Giorgio, nevica”. Correvo alla finestra, il naso schiacciato contro il vetro, a guardare in alto i fiocchi che venivano giù mulinando… Per noi la neve voleva dire sentirsi parte di una comunità che per memorie antiche sapeva come partecipare». Come auspica l’imperatore Adriano di Marguerite Yourcenar, Bocca ha davvero saputo «entrare nella morte a occhi aperti». Del resto - poco più che ventenne - se l’era vista in faccia ogni giorno negli anni partigiani. E sempre a occhi aperti - sia pur non troppo a lungo - ha patito quel misterioso e straziante preambolo alla morte con cui percepiamo il nostro decadimento fisico (quello mentale gli fu risparmiato) - quando la nostra vita, un po’ lentamente, un po’ a scatti, va in entropia - iniziandoci ad mistero ben più profondo della morte stessa. Al proprio funerale, lui pensò con qualche anticipo, in condizioni ancora felici. E da tradizionalista, intese mantenersi nel solco materno, quello tracciato da chi l’aveva iniziato allo stupore per la vita. Morì - e questo non fu lui a deciderlo - nel giorno del Natale 2011, nella stagione della neve da lui prediletta. E nella Basilica di San Vittore lo abbiamo salutato il 27 dicembre - memoria liturgica di San Giovanni Evangelista. Era del 1920, nato il 28 agosto - nella memoria liturgica di Sant’Agostino.

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