Il 25 di dicembre dell’anno 2011 Giorgio Bocca ci
lasciava. Di seguito, la testimonianza di Roberto Vignolo – “biblista”, docente
presso la Facoltà Teologica di Milano – riportata sul quotidiano “la Repubblica”
di giovedì 24 di dicembre 2020 con il titolo “Quando Bocca provò a parlare con Dio”: Al 2004 risale il mio primo
incontro con Giorgio Bocca. (…). Giusto nella prima di queste occasioni – (…) -
verso metà pranzo a sorpresa Bocca comincia a parlarci della morte. Confesso di
ricordare solo vagamente l’esatto contenuto delle sue parole. A stupirci e a
sottoporci a un rispettoso ascolto, era piuttosto il pathos, il tono che
v’imprimeva - insieme ai suoi occhi, spalancati e un po’ umidi. Sguardo e voce
di Giorgio restituivano un coinvolgimento personale intenso, profondo.
Mantenendo la consueta proprietà verbale di chi sempre cercò di capire la vita
meglio che poteva - stavolta il più disincantato dei cronisti solcava il
crinale di una inusuale commozione. «Non l’ho mai sentito parlar così» - avrebbe
di lì a poco commentato Silvia (Silvia Giacomoni, seconda moglie di
Giorgio Bocca n.d.r.). Una volta ripreso l’aplomb ordinario - sulle
labbra riaffiorava l’inequivocabile sorrisetto - Bocca concludeva: «quando
muoio, non ho ancora deciso se fare un funerale laico, oppure in chiesa». La
perplessità, invero, non avrebbe avuto vita lunga. Di lì a breve, nel
successivo incontro conviviale - senza preamboli né spiegazioni - l’antico capo
partigiano di Valgrana l’avrebbe sciolta, garbatamente intimando al sacerdote
proprio ospite: «quando muoio, a farmi il funerale vieni tu». Avendolo frequentato
da prima e più a fondo di me, molti colleghi, amici e conoscenti si sono anche
loro rispettosamente - chi più, chi meno - meravigliati di dover varcare la
soglia della Basilica milanese di San Vittore, sua chiesa parrocchiale, per
dargli l’ultimo saluto. In effetti, nessuno avrebbe immaginato una scelta del
genere - e nemmeno che un anno prima, in tutta riservatezza, egli avrebbe
celebrato il matrimonio sacramentale con Silvia a ben trentotto anni da quello
civile - la notizia trapelò solo più tardi. Tuttora su Wikipedia la voce
dedicatagli conclude sentenziando: «era ateo». Ma, come non fu un convertito
sul letto di morte, Bocca neppure fu un ateo, tantomeno un ateo devoto. Varrebbe
la pena aprire qui un capitolo parallelo sul cammino di fede della sua seconda
moglie Silvia. A differenza di lui, cresciuto in un ambiente cristiano
tradizionale provinciale cuneese, lei proviene da famiglia nient’affatto
religiosa. Sottotraccia alla sua professione di cronista cittadina de La
Repubblica, e impegnata a dar conto di Martini che nel 1980 arriva a Milano
sulla cattedra di Ambrogio, quello di Silvia fu un effettivo cammino di fede.
L’incontro della Giacomoni con Martini si sarebbe via via intessuto di molti
ulteriori significativi incontri - con (…) Paolo De Benedetti, Enzo Bianchi, e
soprattutto Suor Germana, la mitica segretaria ghost writer di Martini - per
citarne alcuni. Sicché da quella data in poi alla tavola di casa
Bocca-Giacomoni potevano innescarsi inediti discorsi, interessi, vivaci
discussioni di tipo religioso, con reazioni e posizioni di entrambi
evidentemente molto diverse tra loro. Naturalmente né la conversione di Silvia
e tantomeno la frequentazione di personaggi così non hanno condizionato uno
spirito indipendente quanto quello di Giorgio. Indubbiamente gli creavano
occasioni per riflettere su una dimensione religiosa della vita - comunque già
presente nell’educazione da lui ricevuta, e probabilmente mai del tutto rimossa
dal suo animo. (…). Come ho potuto udire direttamente, Giorgio Bocca di sé
volentieri ripeteva: «Io sono un tradizionalista!». E in tal caso la sua voce
non vibrava di emozione alcuna. Suonava in termini di pacifica ammissione,
incorniciata da un sorriso nient’affatto sarcastico, semmai autoironico. Era
come un vezzo brillante, compiaciuto di chi - sulla cresta di una ragguardevole
età - può ostentare una qualche narcisistica conferma di sé nelle proprie
radici? Qualcosa sì, ci può stare. C’è da credere però che, così parlando,
fosse non solo sincero, ma altrettanto veritiero: lui era veramente affezionato
alla sua tradizione. Che lo fosse, trapelava dai suoi molto netti gusti
culinari — ancorché il suo apprezzamento della buona tavola, con opzione
preferenziale per le classiche ricette piemontesi, aveva poco di particolarismo
provinciale. Come già per Qohelet e per Michel de Montaigne - suo grande
ammiratore, e prediletto dall’ultimo Bocca - mangiare e bere significava in
ogni caso celebrare una piccola quotidiana liturgia, schiettamente godibile,
gratificante e condivisa - laicamente sacra. A Bocca piacevano il buon cibo e
il buon vino, la terra, la montagna, la neve, lo sci a partire dalla prima
elementare, le donne, la parola, la scrittura. Sì, gli piaceva la provincia, ma
proprio perché «dà da mangiare» - ovvero consente a tutti di vivere. Gli
piaceva la vita, in tutte le sue manifestazioni, affascinanti quanto terribili
- quella felicemente apprezzabile e guadagnata con spavalda onestà. E una vita
il più possibile compresa, proprio attraverso parola e scrittura che lavorano
e, per quanto possono, illuminano l’esperienza. Nutriva per la vita un
sentimento positivo, infrangibile a dispetto di quel suo più spietato
disincanto con cui sapeva fiutare il rovescio ignobile o anche solo il lato
ombroso di situazioni e persone. Con il suo linguaggio volentieri urtante,
caustico e perfino abrasivo, né a sé stesso né al proprio lettore Bocca
risparmia l’impatto del prender le cose di petto e a viso aperto per il loro
verso più scomodo e impervio. Il che, per sua stessa ammissione, non l’esentò
da qualche precipitosa e clamorosa ingenuità - peraltro onestamente ritrattata.
Deontologicamente convinto della necessità di distinguere tra i fatti e la loro
interpretazione, il cronista disincantato fu sempre parimenti posseduto da un
sano senso antignostico del creato, resiliente rispetto a ogni male più
nefasto; e seppe così mantenere sempre vigile la percezione della sua specifica
e irriducibile bontà. Così racconta dei suoi trascorsi di partigiano su e giù
per le valli, per scampare ai rastrellamenti tedeschi e fascisti: «eppure
sembra ieri che al col Birone ho visto uno degli spettacoli unici della vita
partigiana, la fioritura improvvisa contemporanea di milioni di ranuncoli. Ti
fermi in una baita per mangiare qualcosa e riposare qualche ora. I prati hanno
pochi fiori, qualche margherita, qualche genzianella. Ti svegli che sta
spuntando il sole, fai scaldare il caffè d’orzo, prepari il sacco e le armi,
pensi alle ore di cammino che devi fare per arrivare ai distaccamenti, ti avvii
e nel crepuscolo subito non te ne accorgi perché sei preso dai tuoi pensieri e
guardi solo dove metti i piedi salendo per una distesa d’oro, milioni di
corolle sono sbocciate nello stesso mattino, alla stessa ora, sei testimone del
miracolo della natura nell’aria fresco-tiepida, senti il conforto della vita
che continua, che vince, che risorge». Non a caso, ai colleghi - con lui alle
prime armi di giornalismo nella Torino dell’immediato dopoguerra - che si
arrovellano su quale sia il segreto del buon giornalismo, replica con una
sentenza di sapienza proverbiale: «non preoccupatevi, se un segreto c’è, è
quello che avete già in testa, il segreto di chi ha orecchio per i suoni del
creato, di chi ha occhio per la caccia, dello schermidore che sa parare e
tirare». Certo che ci vogliono la spavalderia della caccia e della sfida. Ma al
primo posto Bocca mette l’ascolto del creato, dove nulla è mai senza voce
eloquente - nulla che non sia originariamente buono. La sentenza classica: rem
tene, et verba sequentur, gli si attaglia a pennello. Fieramente mascolino,
Giorgio Bocca si riconosceva iscritto in un solco tradizionale decisamente
matrilineare, legato da affettuosa venerazione per la madre Carmelina Re e la
nonna materna, ambedue donne di fede. Ben più problematico il rapporto con suo
padre, Enrico Bocca, professore di matematica, biellese di origine, e cuneese
solo di mai integrata adozione - ancorché riconosca di averne ereditato un
solitario senso critico e pensoso. Proprio alla madre dedica la prima pagina del
capitolo conclusivo de Il provinciale - da molti apprezzato come il suo miglior
libro: «Tu eri l’unica persona al mondo che potesse capire sul serio cos’era
stato per me andare all’avventura e per te seguirla, da lontano. Non lo dico
tanto per dire, lo dico perché dalla morte di mia madre [1976] mi sorprendo
continuamente a chiedermi: ma a chi importa veramente se faccio qualcosa? E
anche se importa a mia moglie, ai miei figli, ai miei amici, è sempre un’altra
cosa, non ci sono dentro gli anni della neve e del fuoco, dell’allegra pulita
povertà». Risuona qui una chiara ripresa del primo capitolo - “Gli anni della
neve e del fuoco” - dove Carmelina, maestra elementare, diventava per lui
testimone di stupore: «la vita vera, la felicità cominciavano quel mattino in
cui un grido di mia madre mi tirava giù dal letto: “Giorgio, Giorgio, nevica”.
Correvo alla finestra, il naso schiacciato contro il vetro, a guardare in alto
i fiocchi che venivano giù mulinando… Per noi la neve voleva dire sentirsi
parte di una comunità che per memorie antiche sapeva come partecipare». Come
auspica l’imperatore Adriano di Marguerite Yourcenar, Bocca ha davvero saputo
«entrare nella morte a occhi aperti». Del resto - poco più che ventenne - se
l’era vista in faccia ogni giorno negli anni partigiani. E sempre a occhi
aperti - sia pur non troppo a lungo - ha patito quel misterioso e straziante
preambolo alla morte con cui percepiamo il nostro decadimento fisico (quello
mentale gli fu risparmiato) - quando la nostra vita, un po’ lentamente, un po’
a scatti, va in entropia - iniziandoci ad mistero ben più profondo della morte
stessa. Al proprio funerale, lui pensò con qualche anticipo, in condizioni
ancora felici. E da tradizionalista, intese mantenersi nel solco materno,
quello tracciato da chi l’aveva iniziato allo stupore per la vita. Morì - e
questo non fu lui a deciderlo - nel giorno del Natale 2011, nella stagione
della neve da lui prediletta. E nella Basilica di San Vittore lo abbiamo
salutato il 27 dicembre - memoria liturgica di San Giovanni Evangelista. Era
del 1920, nato il 28 agosto - nella memoria liturgica di Sant’Agostino.
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