Ha scritto Errico Buonanno in “Falso Natale” – UTET editrice (2019) -: Le classi operaie e contadine,
all’alba dell’età vittoriana (Londra, 24 di maggio 1819 – Cowes, 22 di gennaio
1901 n.d.r.), avevano perso praticamente ogni rapporto con il Natale. William John
Butler, durante una sua visita nell’Hertfordshire nel 1844, scriveva nel
proprio diario: “Le persone sembrano sentire poco il giorno di Natale. Ho
notato che indossavano gli abiti da lavoro e che, rispetto alle domeniche, la
partecipazione in chiesa era scarsa. A quanto pare, questo è l’atteggiamento
generale nelle aree agricole. La gente sembra aver perso completamente di vista
le grandi feste cristiane, e assieme a esse la coscienza dei grandi eventi che
queste feste celebravano. I costumi papisti possono anche essere riprovevoli,
ma almeno insegnano qualcosa riguardo alle origini della nostra fede e della
nostra salvezza. La religione dei contadini inglesi è invece ormai confinata
alla superficialità”. Ma se questa era la situazione delle campagne, le grandi
città vivevano proprio negli stessi anni una riscoperta, o meglio, una
rivisitazione della festa. Le classi agiate la trovavano un’occasione perfetta
di sfarzo e di sfoggio delle proprie capacità, ovvero un momento di
autocelebrazione: grandi case da decorare, grandi famiglie da riunire, e
addirittura un cenone impostato sulla falsa riga di quello descritto a casa
Cratchit nel Canto di Natale di Dickens. Tratto da “Altro che Covid, il Natale da tempo non esiste più” di Massimo
Fini, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri martedì 22 di dicembre 2020: (…).
Al tempo in cui nacque Cristo le religioni, nel mondo allora conosciuto, erano
orientali. La più estesa era quella di Zoroastro, che partita dalla Persia,
occupava l’Asia centrale e parte dell’India. Non era una religione aggressiva,
tanto che, secondo la leggenda, i Magi che venendo da Oriente andarono a
rendere omaggio al neonato di Betlemme, erano sacerdoti zoroastriani. Il
problema nasce con un’altra religione orientale, per meglio dire mediorientale,
l’ebraismo che si inventa la favola del “popolo eletto da Dio”, relegando tutte
le altre a genti di serie B, e affermando che esiste un solo e unico Dio, il
Suo. Lo scontro con un’altra religione monoteista, anche se meno integralista,
pur essa mediorientale, il cristianesimo, sarà inevitabile. Gli ebrei
otterranno la testa di Cristo nonostante il governatore della Giudea, Pilato,
cerchi finché gli è possibile di salvargli la pelle, scontrandosi però con
questo affascinante borderline che crede di essere “il figlio di Dio” anche se
non è poi del tutto convinto, “padre, padre, perché mi hai abbandonato?”
(oserei dire che Cristo si immola più che per convinzione per una sorta di
coerenza morale e persino estetica). Cominciano le zuffe fra ebrei e cristiani,
incomprensibili alla mentalità romana. I Romani, e i Greci, cioè quello che
possiamo considerare l’Occidente di allora, erano pagani, sostanzialmente dei
laici. Quello degli antenati, presente presso tutti i popoli, era il loro unico
culto, non avevano rapporti col metafisico, con l’aldilà, se non nella forma
della Gloria, cioè del ricordo che si lascia ai posteri. Com’è noto i Romani
durante quasi tutto il loro dominio furono tollerantissimi in materia di
religione, compreso l’infamatissimo Nerone: “date a Cesare quel che è di
Cesare”, cioè il frumento, per il resto ognuno creda a chi gli pare e segua i
costumi che preferisce. Solo con Diocleziano cominciano le persecuzioni
sistematiche, quando l’Imperatore si rende conto che il cristianesimo sta
corrodendo come un tarlo le basi della società romana. Ma sarà troppo tardi.
Per comprendere la mentalità romana è esemplare la storia di Paolo, futuro
Santo e fondatore della Chiesa (che troppo spesso tradirà il messaggio di
Cristo, che è un messaggio d’amore, un “porgi l’altra guancia” contrapposto
all’ebraico, ma certamente non solo ebraico, “dente per dente”). Paolo,
fulminato sulla via di Damasco, arriva a Gerusalemme. Vuole subito andare a
predicare al Tempio. I cristiani della città gli dicono che non è il caso. Ma
Paolo, è o non è un futuro Santo, ci va lo stesso. Viene accerchiato e sta per
essere linciato. Interviene il comandante della piazza Claudio Lisia che lo
sottrae ai facinorosi e lo porta a Cesarea davanti al governatore della Giudea
Antonio Felice. Costui convoca i maggiorenti degli ebrei e chiede loro di che
cosa accusino Paolo. Ne nasce una diatriba lunghissima fra gli ebrei e lo
stesso Paolo, che Felice ascolta pazientemente, poi dice: “Se voi accusaste
quest’uomo di un qualche fatto io vi darei ascolto, come di ragione, o ebrei,
ma qui si tratta di nomi, di interpretazioni, non posso condannare un uomo per
queste cose”. Paolo viene trattenuto nei castra nella forma di “custodia
militaris”, una sorta di custodia cautelare. Non può uscire perché sarebbe
immediatamente ucciso. In questa situazione rimane due anni. Ma Paolo è un
cittadino romano e come tale ha diritto di essere giudicato a Roma. I Romani
armano appositamente una nave, lo affidano a un vecchio centurione con cui farà
amicizia, e lo portano a Roma. A Roma, in attesa del processo, rimarrà altri
due anni, potendo predicare liberamente il suo credo, con la sola limitazione
di non lasciare la città. Il tribunale di Roma, presieduto dal prefetto del
pretorio Afranio Burro, lo assolverà.
Paolo morirà nel 67, in circostanze mai chiarite che comunque nulla
hanno a che vedere con la cosiddetta persecuzione neroniana dopo l’incendio del
64. Passeranno i secoli. Verrà l’Illuminismo, la Dea Ragione sostituirà i
vecchi idoli. Quando Nietzsche negli anni 80 dell’Ottocento proclama “la morte
di Dio” non crede, prometeicamente, di aver ucciso Dio, ma constata con qualche
decennio di anticipo che il sacro è morto nella coscienza dell’uomo
occidentale. Oggi in Occidente, come in Oriente, esiste finalmente un solo,
vero, e unico dio: il Dio Quattrino che tutti ci unisce, e nel contempo ci
divide, nell’individualismo più sfrenato. Delle dolci parole del Cristo è
tabula rasa. (…).
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