A lato. "Bergerac" (Francia, 2019), acquarello di Anna Fiore.
"Tratto da “Cosa
cerchiamo nel fondo della notte” di Umberto Galimberti, pubblicato sul
settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 5 di dicembre dell’anno
2015: Scriveva poeticamente David Maria Turoldo un anno prima di morire: «Il
Nulla, tuo necessario limite, nera fonte di ogni altro male. Tuo dramma di
essere Dio». La parola "trascendenza" è stata sequestrata dalla
religione e identificata con Dio. Ma non è questo l'unico senso della parola. A
differenza dell'animale, infatti, l'uomo sa di dover morire e per dar senso
alla propria esistenza questa consapevolezza gli fa nascere il pensiero di
un'ulteriorità, che tale rimane comunque la si pensi, che sia abitata da Dio o
dal Nulla, come scriveva David Maria Turoldo nei suoi Canti ultimi (Garzanti). A
portarci sulle tracce di questi due diversi destini è il dolore e l'amore. Se
ad attenderci è il Nulla, il dolore non ha un senso. Ma, come pensavano gli
antichi Greci - gli unici che hanno preso sul serio la morte al punto di
chiamare l'uomo "il mortale" - il dolore fa parte dell'esistenza, e
quando fa la sua comparsa occorre, come dicevano gli Stoici, reggerlo e
astenersi dal metterlo in scena (substine et abstine). Quanto all'amore,
cadenzato sul ritmo dell'ineluttabilità della morte, va vissuto in tutta la sua
espressività, perché la vita si regge solo se l'amore la alimenta. Se invece ad
attenderci è Dio, qui le cose si complicano, a partire dal concetto che
ciascuno ne ha. Se Dio, come vuole la concezione cristiana, viene pensato come
un Padre che assiste e conforta nel dolore e chiede agli uomini di amarsi come
lui li ama, allora la trascendenza ha un valore consolatorio nel caso del
dolore, e diventa un precetto morale nel caso dell'amore. Se invece Dio è solo una metafora di cui ci serviamo per dare un nome
al nostro bisogno di trascendenza, di oltrepassamento delle relazioni
umane, dove le parole che si scambiano sembrano insoddifacenti sia nel caso del
dolore che dell'amore, allora gli spazi di trascendenza si ampliano, fino a
interrogare sulla genesi del mondo, sul senso della vita, sull'origine del
male, sul perché dell'iniqua distribuzione dei doni e dei dolori. E sulla
ragione per cui l'amore per Dio e l'amore per gli uomini, come ci insegna la
storia di Abelardo ed Eloisa, non collimano in una visibile armonia. Senza
un'apertura a un'ulteriorità - o, se si preferisce il linguaggio religioso,
senza trascendenza - il dolore ci contrae sotto lo sguardo beffardo della
morte, mentre l'amore incontra solo il desiderio e l'appropriazione dell'altro,
la febbre del corpo che si traduce nel gesto sessuale che risponde soltanto
alle esigenze della natura. La quale, nella sua crudeltà innocente, vede
nell'amore solo il modo di perpetuarsi, e nella morte degli individui la
condizione per farlo. L'individuo che non vuol ridursi a semplice funzionario
della specie va alla ricerca ininterrotta di un raggio di trascendenza, per
scoprire nel dolore e nell'amore le due forme di violazione dell'integrità
dell'individuo che si nasconde gelosamente custodito dalla passione per la
notte. La notte del dolore e la notte dell'amore, proprio perché inabissano
ogni stabilità e identità diurna, sono le due vie che possono soddisfare la
nostra mai interrotta ricerca di un'ulteriorità di senso, al di là della legge
del giorno che al dolore chiede solo guarigione e all'amore stabilità e
continuità. Per un raggio di trascendenza occorre oltrepassare quello che
Kierkegaard chiama "stadio etico" per raggiungere lo "stadio
religioso", dove anche i vincoli dell'etica sono infranti.
Nessun commento:
Posta un commento