P.S. “Un appello internazionale per Luciano Canfora” di Corrado Augias pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’11 di aprile 2024: Il quotidiano francese Libération ha lanciato un appello in favore del filologo classico italiano Luciano Canfora nei confronti del quale si aprirà a Bari, il prossimo 16 aprile, un processo che non ha precedenti in Europa dopo il 1945. Canfora, uno dei più illustri cattedratici italiani, è stato trascinato in giudizio dalla Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. L’episodio contestato è che due anni fa, durante una conferenza in una scuola superiore, il professor Canfora ha definito la presidente del Consiglio «Neonazista nell’animo». Il filologo intendeva alludere al fatto che il suo partito, Fratelli d’Italia, ha le sue origini storiche nella “Repubblica di Salò”, quasi un protettorato nazista che dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 impose in Italia, in particolare nel Nord, un regime di terrore poi passato alla storia con la denominazione di nazifascismo. Il manifesto appello del quotidiano francese ricorda che il partito Fratelli d’Italia continua a esibire nel suo simbolo la fiamma tricolore del Movimento sociale Italiano il cui fondatore, Giorgio Almirante ancora nel 1987 dichiarava essere il fascismo “il traguardo” del suo partito. Anche di recente la presidente Meloni ha celebrato la memoria di Almirante da lei definito «un politico e un patriota che non dimenticheremo mai». Nel suo libro autobiografico Io sono Giorgia riconosce l’eredità di colui che tra l’altro fu editore della rivista razzista La difesa della razza, anche se poi aggiunge di non coltivare il culto del fascismo. La sua posizione politica sull’argomento è in definitiva quella di un acrobatico equilibrio tra la necessità di non perdere consensi nell’ala destra, compresa quella estrema, dei suoi sostenitori in vista delle imminenti elezioni europee senza però negarsi una certa pragmaticità in vista di futuri traguardi post-elettorali. Personalmente non condivido tutte le posizioni politiche del professor Canfora, nelle presenti circostanze egli si trova però in una situazione indegna di una democrazia decente e, sul piano generale, pericolosa per la libertà delle opinioni, come dimostrano le numerose querele citate dall’appello. Vengono colpiti giornali, media di investigazione, una professoressa di filosofia della Sapienza, il rettore dell’università per stranieri di Siena, non viene risparmiato nemmeno un vignettista. Vale per Canfora il famoso aforisma attribuito a Voltaire: non condivido interamente il tuo pensiero ma mi batterò perché tu possa continuare a manifestarlo. Tanto più questo vale in una situazione come la presente. Come ha osservato Federico Fubini sul Corriere della Sera: «Uno dei successi di Giorgia Meloni è essere riuscita a far diventare maleducato chiederle cosa pensa del fascismo». Un capo di governo non dovrebbe mai portare in giudizio un cittadino, si tratti di un “quidam de populo” o di un famoso filologo, in particolare quando si tratta di opinioni. Troppo grande la sproporzione dei mezzi a disposizione, la forza che può essere esercitata. È lecito credere che la presidente Meloni si spoglierà prima o poi della pesante eredità postfascista nella quale si è formata. Ritirarsi nobilmente da questo giudizio certamente dettato da un moto di stizza potrebbe cominciare a dimostrarlo. Tra i firmatari dell’appello figurano Maurizio Bettini, Anna Foa, Adriano Prosperi, Aldo Schiavone. Undici professori della Sorbona, cinque di Cambridge tra i quali il Regius Professor di greco, che diffonderà tra breve una traduzione dell’appello in inglese; tre del Collège de France, tra i quali Jean-Luc Fournet, titolare di papirologia. (…). C’è quasi tutta la grande antichistica francese, il che non stupisce, conoscendo la grande passione di Luciano Canfora per la Francia. Tra gli americani, figura il noto studioso del Rinascimento Anthony Grafton. (…). Chi vuole può aderire, scrivendo a canforaliberation@gmail.com.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
lunedì 15 aprile 2024
MadeinItaly. 08 «Piero acutamente annota: “Capii che la libertà viene prima di ogni altra cosa”. Ma siccome è appena uscito dal liceo dei gesuiti, fa il contrario».
(…). Un albero ad alto fusto. Così siamo abituati a pensare la
democrazia. La immaginiamo come una quercia, un pino, un pioppo. Per questo
motivo siamo anche indotti a pensare che possa solo essere abbattuta,
dall'ascia o dal fulmine. La democrazia è, invece, più simile alla pianta della
vite e come la vite richiede cura costante, sapiente, richiede amore e
devozione. La vite deve essere innestata, potata, innaffiata, protetta dai
parassiti e legata ai supporti da mani gentili e forti. È un lavoro quotidiano,
questo: il lavoro di una vita. Soltanto allora quella pianta fragile e
meravigliosa darà il dolce, inebriante vino della democrazia. (Tratto da “Fascismo e populismo” di
Antonio Scurati, Bompiani editrice, 2023).
“QuellidellArcoCostituzionale”. «Fassino, cioè lo gnorri di “mazzetta
rossa”: gaffe, yacht e signorsì», testo di Pino Corrias pubbicato su “il
Fatto Quotidiano” del 14 di aprile 2024: “Ma Fassino, il pover’uomo, dov’è?” Ah,
saperlo. Fassino detto “L’ombra lunga della sera”, per via del suo doppio metro
d’altezza, il fisico largo una spanna e l’umore pieno di nuvole nere, si è
eclissato da Torino, fiutando l’aria, dopo l’ennesimo scandalo di appalti, voti
di scambio e di tangenti, quelle che a Bari, per via del clima e del mare,
chiamano “gelati”. Non si fa vedere in giro. Non parla. Non dichiara. Non
risponde al telefono. Peccato. Perché conosce i Gallo, padre e figlio, da
sempre. E di cose da dire sulla sinistra torinese – che fu comunista,
socialista, riformista e persino paracula – ne avrebbe parecchie, visto che ci
è nato dentro, dai tempi remoti dell’anno 1968, segretario del pci Luigi Longo,
responsabile della Federazione giovanile torinese un infervoratissimo,
barricadiero, Giuliano Ferrara, per dire come cambiano i globuli rossi e i
secoli. Solo una decina di giorni fa il nostro Piero era ancora in grande
spolvero, pronto con le borse e le cravatte per andare a bere il bicchiere
della sfatta a Bruxelles, ultima candidatura, forse, dopo le mille miglia
percorse intorno ai tavoli della politica. A far di conto, un veterano di
incarichi con sette legislature sulle spalle, a partire dall’anno 1994, due
volte ministro, la prima con Giuliano Amato presidente, la seconda con D’Alema,
una volta sottosegretario agli Esteri con Romano Prodi. Poi sindaco di Torino,
2011-2016, fino a quella memorabile sfida prima con Grillo (“provi lui a fare
un partito, poi vediamo”) quindi con Chiara Appendino (“provi lei a fare il
sindaco, poi vediamo”) che lo condussero alla sconfitta mai elaborata, dopo la
quale smarrì Torino e forse anche il senno. La passione politica di Franco
Rodolfo Piero Fassino viene dal padre che fu comandante partigiano in Val di
Susa, compagno d’armi di Enrico Mattei che nel Dopoguerra lo nominò
concessionario Agipgas per il Piemonte. Un posto d’oro. Per questo Piero nasce
benestante a Avigliana, anno 1949. Cresce circondato dal grigio della città
fabbrica e dalla tetraggine del partito che assorbe prima l’invasione sovietica
dell’Ungheria, anno 1956, poi della Cecoslovacchia, soffocata dai carrarmati.
Quella seconda volta Piero acutamente annota: “Capii che la libertà viene prima
di ogni altra cosa”. Ma siccome è appena uscito dal liceo dei gesuiti, fa il
contrario, iscrivendosi al partito, dove si trova subito benissimo: segretario
della federazione giovanile provinciale, tanti saluti alle ceneri di Jan
Palach. Apostolo della disciplina di partito, combatte ogni deriva
movimentista, detesta i No-Tav e il disordine grillino. Ammira (invece) tutti
quelli che tagliano a pezzi e friggono la politica per masticarla a dovere,
“dall’amico Giuliano Ferrara”, al “leale” Clemente Mastella. Sarà il primo a
riabilitare Bettino Craxi, “una figura da inserire nel Pantheon del partito
democratico”. Gli piacciono gli operai che guarda entrare e uscire dalla
fabbrica. Lui fa il volantinaggio e acutamente annota: “Nel movimento operaio
coesistono un’anima movimentista e una contrattualistica”. Ha un debole per il
potere. Ma specialmente per la ricchezza e le estati sullo Yacht di Giovanni
Bazoli, l’emerito di Banca Intesa. Ammira non tanto segretamente Berlusconi al
punto che quando scoppia il pandemonio delle escort, anziché fare fuoco e
fiamme, pigola come un qualunque Violante: “È una storia scabrosa. Dovrebbe
essere il premier a dare una spiegazione per evitare che l’Italia diventi un
gigantesco Bagaglino”. Ma davvero? In una gustosa intercettazione al tavolo del
ristorante “Il gatto nero” di Torino, con moglie e amici, si vanta della sua
tenuta da 20 ettari in Maremma e della sua casa romana, accanto al Pantheon. Ma
in pubblico tiene il profilo basso, al punto da chiedere un poco di
commiserazione per il proprio scarso stipendio: “Noi parlamentari guadagniamo
solo 4718 euro al mese”, diceva la scorsa estate alla Camera, sventolando il
cedolino come fosse il suo personale reddito di cittadinanza. Per poi mettersi
al riparo (con tutti i 13 mila euro mensili in tasca) dalla pioggia di uova e
risate, che gli sono piovute dai social e dai giornali. Delle frasi a vanvera è
uno specialista. La più celebre resta “Abbiamo una banca!”, detta al telefono a
Giovanni Consorte, il capo di Unipol, impegnato nella scalata a Bnl, anno 2005.
Nel partito, mai naviga in proprio. Non avendo carisma, si annette quello degli
altri. È stato alleato di Achille Occhetto fino alla disfatta. Fedele prima a
D’Alema quando conquistò il partito, poi a Veltroni che glielo sottrasse.
Tifoso di Bersani salito a capo della ditta. Devoto a Renzi quando volle
sfasciarla: “È lui che rappresenta la novità”, disse. Per poi affiliarsi a
Zingaretti: “È uno dei miei tanti figli”. Per non dire “dell’ampio, sincero
consenso” verso Enrico Letta, segretario “di alta visione”. Così alta che venne
addirittura da Parigi per guidare il pd contro il muro della destra più destra
di sempre, per poi tornarsene di corsa sui Campi Elisi. A ogni bivio della
Storia, Piero prende la scia e segue. Alle ultime primarie stava con Stefano
Bonaccini, il leader sconfitto. Oggi sta con Elly Schlein, la segretaria che ha
vinto. Dopo il temporale in corso, vedremo. Tolta la politica ha poche
passioni, a parte la Juve, la politica estera, il jazz, le melanzane alla
parmigiana. Veste in giacca e cravatta, da quando è bimbo, a segnalare la sua
battaglia, anche estetica, contro l’insicurezza. Un sentimento che lo
imprigiona, segnalato da un veloce sbattere di palpebre, quando prende fiato, e
insieme da ricorrenti scoppi d’ira. È dai tempi di Botteghe Oscure che si
narrano le sue sfuriate, i portacenere lanciati contro le segretarie. Una
cattiva fama che ha sempre smentito, ci mancherebbe. Recita da martire più che
da carnefice. Finirà riabilitato, visto che non traffica in armi come certi
amici di D’Alema. Non fa a pezzi i giornalisti con la sega elettrica, come
certi compari di Renzi. Della tempesta in corso a Torino intitolata “Ogni
appalto un tot”, conosce l’alfa e l’omega. E sa anche lui quel che Il coro oggi
ripete: “Tutti sapevano tutto”. Lui sta quieto in platea. Ascolta in silenzio.
E al massimo acutamente annota.
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