"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 17 aprile 2024

Lamemoriadeigiornipassati. 70 Roma, 17 di aprile dell’anno 1944, borgata del Quadraro. «Ciò di cui abbiamo veramente bisogno sono i libri. Che i libri di storia raccontino che cosa successe alla borgata ribelle».

                                        Sopra. 1944. Gente del Quadraro.

(…), da oggi a Roma via Arrigo Solmi si chiamerà via Deportati del Quadraro. Per comprendere questa decisione bisogna ricordare che il 17 aprile 1944 un migliaio di abitanti del quartiere del Quadraro vennero rastrellati dai nazifascisti per essere deportati in Germania e sapere che il giurista Arrigo Solmi, ministro della Giustizia tra il 1934 e il 1939, fu tra i firmatari delle leggi razziali e razziste del 17 novembre 1938 con cui gli ebrei italiani persero i più elementari diritti di cittadinanza. Gli studi recenti (…) hanno accertato le responsabilità di Solmi in quel tragico tornante della storia d’Italia. Oltre a collaborare alle riviste antisemite La difesa della razza e Il diritto razzista, scrisse nel 1939 la prefazione alla traduzione italiana dell’opera Fondamento giuridico dello Stato nazionalsocialista del gerarca nazista Hans Frank che fu tra i responsabili della distruzione del ghetto di Varsavia e venne impiccato come criminale di guerra a Norimberga. Ad agevolare il cambio toponomastico (…) è il fatto che in quella strada non esistono nuclei abitativi veri e propri ma soltanto una scuola. L’istituto è dedicato a Teresa Gullace, morta il 3 marzo 1944, due giorni prima di Solmi, per mano di un soldato tedesco che le sparò mentre tentava di parlare con suo marito prigioniero dei nazifascisti. Il tragico episodio provocò da subito una vasta eco nella Resistenza romana tanto che il regista Roberto Rossellini volle inserire la scena della morte della donna, rappresentata nel film dalla popolare Pina interpretata da Anna Magnani, nell’opera Roma città aperta. Che nella stessa via e in migliaia di fogli di carta intestata della scuola abbiano a lungo convissuto il fascistissimo firmatario delle leggi razziali con una delle donne simbolo della Resistenza romana (…) è parso un esito toponomastico così paradossale e beffardo da meritare un intervento di riparazione e di risignificazione all’insegna della coerenza e della giustizia di una storia, questa sì, che deve essere condivisa. (Tratto da “La toponomastica riparatrice” di Miguel Gotor - assessore alla Cultura di Roma – pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, mercoledì 17 di aprile 2024).

“La borgata ribelle”, testo di Daniele Castellani Perelli pubblicato sul “longform” del quotidiano “la Repubblica” del 7 di aprile 2024: «Era mezzo buio, erano le 5 del mattino del 17 aprile 1944, e sentimmo prendere a calci la porta di casa. Andai ad aprire io e trovai questi due soldati tedeschi altissimi, con il mitra. Fu un attimo. Ricordo ancora papà in mutande e canottiera che veniva portato via». Domenico Carbutti, 85 anni, accarezza le foto di suo padre Salvatore, uno dei 750 rastrellati del Quadraro. Sono passati 80 anni da quella mattina in cui i nazisti, con il pretesto della ritorsione per l’uccisione di tre tedeschi, avvenuta una settimana prima in un’osteria del quartiere ad opera di partigiani a cui si era unito il Gobbo del Quarticciolo, vollero dare una lezione e chiudere i conti con il Quadraro, la “borgata ribelle” del Sud di Roma, il “nido di vespe”. «In aprile avvenne il rastrellamento del Quadraro – scrisse nelle sue memorie il console tedesco a Roma, Eitel Friedrich Moellhausen – Il comando della città era dell’opinione, più volte manifestata, che quando qualcuno non trovava rifugio o accoglienza nei conventi o nel Vaticano si infilava al Quadraro, dove spariva. Voleva farla finita una buona volta con quel nido di vespe». Si tratta di un episodio che è stato poco studiato, al punto che non è noto l’elenco esatto di tutti i rastrellati né di quanti morirono in prigionia. Ma è una grande storia, «il più imponente rastrellamento che subì Roma», lo definì ancora Moellhausen, escludendo quelli, di natura diversa, dei 2.500 Carabinieri del 7 ottobre e quello degli oltre mille ebrei del 16 ottobre 1943. «Tra i rastrellati c’erano tanti semplici lavoratori, perlopiù artigiani ed edili. C’erano ebrei, partigiani, militari sbandati, carabinieri entrati nella resistenza», ci spiega Pierluigi Amen, storico dell’arte che da dieci anni, operando per conto dell’Anrp (Associazione nazionale reduci dalla prigionia), ha fatto di questa storia il cuore del suo impegno. «Fu il terzo rastrellamento organico a Roma e fu messo in atto dopo l’azione di guerra partigiana di Via Rasella e il conseguente eccidio delle Fosse Ardeatine, avvenuti tre settimane prima – continua Amen – Già dopo quella strage le alte gerarchie naziste avevano dato l’ordine di provvedere all’evacuazione e alla deportazione dei cittadini risiedenti nei rioni e sobborghi maggiormente “infestati” dai comunisti, come Trastevere, Testaccio e San Lorenzo, per poterli avviare al lavoro coatto verso le fabbriche del Terzo Reich. Ma, data la difficoltà tecnica di esecuzione e la mancanza di uomini e mezzi, la scelta cadde sulla borgata Quadraro che, essendo circondata da campi, era relativamente facile da rastrellare». Con la guida di Amen, nostro Virgilio, torniamo allora a 80 anni fa, alle porte del “nido di vespe”. Il “nido di vespe”. Il Quadraro è dove finiva Roma. È un quartiere a Sud-Est della capitale tagliato dalla Tuscolana e a due passi dal Parco degli Acquedotti e da Cinecittà. Al tempo del fascismo era una borgata popolare di baracche e casette a due piani in cui si erano trasferiti prima gli immigrati pugliesi e abruzzesi e poi gli sfollati dei bombardamenti in Ciociaria. Un quartiere degli ultimi, che era mal tollerato dal regime e che sotto l’occupazione nazista avrebbe manifestato ancora di più il suo carattere ribelle. Qui, al sanatorio Ramazzini, aveva il suo quartier generale il Movimento Comunista d’Italia, noto come Bandiera Rossa, formazione partigiana trotskista i cui militanti erano perlopiù operai e artigiani e non studenti intellettuali come invece i comunisti dei Gap. Una targa nel quartiere ricorda ancora i caduti nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943. Tra loro c’è anche il partigiano sedicenne Anselmo Fadda, detto Er fantino perché lavorava nella vicina Capannelle. In quei mesi soldati italiani, partigiani e semplici cittadini combattono e sfidano i nazifascisti in questo quadrante, sfruttando le grotte e la “casba” dei vicoli: rubano armi all’aeroporto militare di Centocelle, lasciano sull’Appia chiodi a quattro punte che mettono ko i camion tedeschi, uccidono soldati e spie fasciste, scrivono sui muri «Istruzione ai patrioti: chi dorme non piglia nazi», nascondono renitenti alla leva ed ebrei, sabotano le linee telefoniche, assaltano i forni – e spesso gli stessi poliziotti chiudono un occhio – per redistribuire il pane a un quartiere alla fame. Tutte attività per cui era prevista la pena di morte. È la “Borgata ribelle”, come da titolo del libro di Walter De Cesaris (Edizioni Odradek) che nel 2004 ha avuto il merito di riscoprire questa storia. Giovanni Castelli, 92 anni, è anch’egli, come Domenico Carbutti, uno degli ultimi testimoni. È figlio di Guido, un altro dei rastrellati, e nella sua casa di Roma Nord ricorda: «All’Arco di Travertino, dove ora passa la metro, c’erano le grotte dei partigiani. I fascisti erano malvisti al Quadraro. Anche mio padre, che al ritorno avrebbe frequentato la sezione del Pci, prima della guerra aveva smesso di fare il netturbino dopo aver litigato con un federale che l’aveva rimproverato per la troppa polvere. Aveva gettato a terra la scopa e aveva detto “Ah sì? E allora mo’ la strada te la scopi da solo”». «Il regime però controllava comunque il quartiere – aggiunge Carbutti – A via dei Ciceri c’erano questi sei fascistoni della Guardia regia, una formazione di polizia che spadroneggiava e ci teneva d’occhio, perché papà era socialista». Via Rasella e il colpo del Gobbo. Da marzo in poi, nel quartiere e in Roma tutta, si assiste a un’escalation. Gli americani sono sbarcati ad Anzio già da un mese e mezzo, ma tardano ad entrare in città e bombardano facendo vittime civili anche al Quadraro. Il 4 marzo il locale neocommissario di polizia Armando Stampacchia, un duro mandato dal questore Pietro Caruso a raddrizzare la zona Sud-Est della capitale, viene ucciso in casa sua dal gappista Clemente Scifoni. L’attentato di via Rasella, in cui il 23 marzo i Gap uccidono 33 soldati tedeschi in pieno centro, cambia tutto. Albert Kesselring, massima autorità militare tedesca in Italia, raccontò di aver temuto che fosse «il preludio all’insurrezione generale stabilita in concomitanza all’offensiva alleata». Hitler è più che mai nero d’odio e di rabbia e scatta così la vendetta disumana delle Fosse Ardeatine: 335 italiani uccisi, tra cui tantissimi civili e persone prese a caso per strada. Il rastrellamento del Quadraro è come una “prova generale”, perché i nazisti vorrebbero deportare tutti gli uomini di Roma: «Ci sono le memorie di Moellhausen, dell’attaché diplomatico Eugen Dollmann e le dichiarazioni processuali di Herbert Kappler che convergono sul punto e che pur essendo disponibili sin dagli anni ’50 non sono state incredibilmente quasi mai prese in considerazione», dice Amen. I tedeschi hanno bisogno urgente di schiavi per fortificare le difese in Europa, perché gli Alleati avanzano. Ma tutti gli appelli alla popolazione rimangono inascoltati: c’è fame e disperazione, eppure non ci si fida di quel “lavoro” offerto dagli odiati occupanti. Così si procede con i rastrellamenti. Tanto alla cieca che a inizio febbraio lo stesso neoquestore Caruso, non riconosciuto, viene fermato per strada e portato in caserma per errore. Questo è il contesto in cui, il 10 aprile, un lunedì di Pasqua, si assiste a un episodio chiave, anch’esso purtroppo avvolto nella nebbia della storia. All’osteria La Campestre, più nota come Da Giggetto, in quella che oggi si chiama via Calpurnio Fiamma, dove il Quadraro si allungava tra campi desolati verso Cinecittà e l’Istituto Luce, entra in scena Giuseppe Albano, il Gobbo del Quarticciolo, allora sedicenne, personaggio a metà tra il partigiano e il bandito. Per lui il Quadraro è una «foresta urbana di Sherwood», scrive Robert Katz. È con due compagni e, sarà stato un commento di troppo o un’azione premeditata, fatto sta che uccidono tre soldati tedeschi. I nazisti non aspettano altro. È il pretesto per punire la borgata ribelle, ripulire un quartiere che ostacola i rifornimenti verso il fronte Sud e pure caricare finalmente verso la Germania, come da ordini di Berlino, gli uomini di quella popolazione riottosa. Il rastrellamento. All’alba del 17 aprile 1944, in gran segreto, ha dunque inizio la Unternehmen Walfisch, l’Operazione Balena: il rastrellamento del Quadraro. Alle 3 gli autocarri hanno già sigillato le vie d’uscita. A guidare le operazioni, preparate nei minimi particolari, è il tenente colonnello Herbert Kappler in persona: il comandante delle SS a Roma. Dei tremila uomini fanno parte appunto le SS di stanza nella capitale e i reparti del Panzergrenadier-Regiment 71, fatti affluire appositamente dalla riserva del fronte sul litorale laziale.Dalle 5, casa per casa, i nazisti cercano uomini tra i 16 e i 55 anni. Grida, ordini, botte. C’è chi prova a nascondersi o a fuggire, e qualcuno ci riesce, come il partigiano Adriano Ossicini (poi senatore e ministro) – che è ospite di un dirigente di Bandiera Rossa e viene avvertito all’alba da una donna inviata dal parroco Don Gioacchino Rey – o i ragazzi nascosti presso le suore belghe. Le mogli e i bambini intanto piangono, implorano: quegli uomini sono l’unico sostentamento della famiglia. I tedeschi non hanno pietà e con il gesso segnano le abitazioni in cui sono entrati. Salvatore Carbutti era nato ad Andria e aveva trent’anni nel 1944. Faceva il barbiere a via dei Quintili, il cuore del Quadraro, dove avevano casa («Una baracchetta») e bottega. Domenico, suo figlio, oggi vive all’Appio Claudio e ricorda: «Dalla finestra vidi la nostra strada con questa fila infinita di camion militari verdi, con i teloni e le panche. Mi misi a piangere quando un nazista colpì con il calcio del fucile un anziano che non riusciva a salire sulle scalette del camion». «Presero anche l’assistente di mio padre, Angelo, un ragazzo che dormiva nella nostra cucina e di cui da allora non abbiamo saputo più nulla – lo interrompe la sorella Maria Pia, di due anni più giovane – Vidi il nostro vicino che invece aveva avvertito il pericolo ed era riuscito a nascondersi in alto, nel cassettone del water. Quel disgraziato. Non poteva farci entrare anche mio padre?». «In quei mesi non sapemmo più niente di papà – continua Domenico – All’inizio mamma mi portò a via Tasso, dove c’era il Comando nazista, ci avevano detto che forse lo tenevano lì e invece non era vero. Mia madre aveva portato un po’ di pastasciutta e della carne rimediata, i nazisti le urlarono in tedesco e ci cacciarono, scappammo per strada buttando tutto per terra». Il rastrellamento di Guido Castelli avviene invece per caso, per sfortuna. «Fu tutta colpa delle arance di Fondi – spiega il figlio Giovanni – Noi abitavamo a vicolo di Porta Furba, quindi poco fuori dal Quadraro. Mio padre, che allora aveva 45 anni, quella mattina uscì presto per andare a comprare le arance di Fondi, che poi avrebbe rivenduto a Piazza Vittorio. Oggi si direbbe che faceva la borsa nera, ma era un commercio di sussistenza, c’era la fame e ognuno si arrangiava come poteva per aiutare la propria famiglia. Insomma mio padre era uscito presto per andare in bici a incrociare sui binari, tra la stazione Casilina e quella Tuscolana, il treno che sarebbe arrivato da Fondi. Quand’ecco che addentrandosi nel Quadraro verso via Casilina a Vicolo degli Angeli si imbatté nel rastrellamento dei tedeschi, che lo portarono via. Io avevo 13 anni, lo aspettavo a casa ma non tornava. Mi venne uno sfogo sulla bocca per la paura che fosse morto». Un prete a Cinecittà. I camion conducono tutti al cinema Quadraro, dove i rastrellati, alcuni ancora in pigiama, vengono discriminati (gli inabili, i malati, i troppo giovani e i troppi vecchi tornano a casa), poi identificati e spediti in tram agli stabilimenti di Cinecittà, che in quel periodo ospitava il quartier generale tedesco del comando delle Armate Sud in Italia. Sono tutti lavoratori e padri di famiglia, non c’è nessuna caccia al partigiano o ai responsabili della morte dei tre tedeschi. Anche perché i veri partigiani sono appunto nascosti al sanatorio Ramazzini, dove i nazisti, temendo la tubercolosi, nemmeno si avvicinano. All’operazione prendono parte anche gli italiani? «Al processo contro i fascisti del Quadraro gli stessi rastrellati affermano di non averne visti, mentre da più parti ci sono riscontri su italiani che indossavano la divisa tedesca. I nazisti non si fidavano degli italiani e tendevano a coinvolgerli il meno possibile – risponde Amen – Tuttavia le giovani dattilografe italiane che si trovavano al cinema Quadraro per raccogliere le generalità dei rastrellati erano con tutta probabilità delle ausiliarie della Rsi. Purtroppo, gli elenchi da loro redatti non sono stati ritrovati». A Cinecittà entra in scena Don Gioacchino Rey, il parroco di Santa Maria del Buon Consiglio, la chiesa del Quadraro, che aiutava i partigiani. Ha saputo dove sono stati condotti i prigionieri e cerca di intercedere presso i nazisti. Viene strattonato e colpito con il calcio di un fucile, ma ottiene la liberazione del farmacista e dell’unico medico del quartiere, due figure chiave della comunità. Poi raccoglie i bigliettini con cui i rastrellati provano a rassicurare le loro famiglie. Rey la lista provvisoria di 678 rastrellati che praticamente fino ad ora, fino all’arrivo di Amen, ha rappresentato il punto di riferimento ufficiale degli storici: da Abratis Alberto e suo figlio Gianbattista di via dei Ciceri 8 a Zucchi Giovanni di via Cuppari 48 (Nel 2017, grazie al lavoro di Amen, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha conferito la Medaglia d’oro al merito civile alla memoria di Don Rey, che divenne il terzo sacerdote romano a ottenere questo riconoscimento per le sue azioni durante la Resistenza, dopo don Giuseppe Morosini e don Pietro Pappagallo, ma ebbe una sorte sfortunata: morì in un incidente stradale il 13 dicembre 1944). Mentre tutti sono a Cinecittà, il comando tedesco pubblica sui giornali un comunicato in cui spiega i motivi dell’operazione: «La dura risposta germanica che, purtroppo, ha dovuto far seguito al delitto consumato in via Rasella, ha trovato evidentemente in alcuni ambienti poca comprensione. Nel lunedì di Pasqua, nuovamente, parecchi soldati germanici sono caduti alla periferia di Roma, vittime di assassini politici. Gli attentatori riuscivano a rifugiarsi, senza essere riconosciuti, nei loro nascondigli in un certo quartiere di Roma dove essi trovano protezione presso i loro compagni comunisti. Il Comando superiore germanico è stato perciò costretto ad arrestare oggi nel detto quartiere tutti i comunisti e quegli uomini abili al lavoro che collaborano con i comunisti o li appoggiano. Gli arrestati verranno assegnati ad una occupazione produttiva nel quadro dello sforzo bellico germanico diretto contro il bolscevismo. La popolazione di Roma comprenderà queste misure». Anche questo ordine è stato dunque eseguito. La borgata ribelle è stata punita. Nel campo di Primo Levi. Il 18 e 19 aprile per i rastrellati comincia l’odissea. Da Cinecittà vengono condotti su dei camion – diretti chissà dove – che a Prima Porta però improvvisamente si fermano. I rastrellati vedono una grande buca e li assale il terrore: saranno le loro cave ardeatine? Invece c’è un cambio di camion che ripartono e arrivano a Terni, dove rimangono dieci giorni nella zona industriale Polymer. In due però sembra che vengano rilasciati: un sedicenne figlio di una vedova e, grazie a una raccomandazione, un usciere del Ministero degli Esteri. Si riparte per Firenze. Qui i deportati restano chiusi una giornata in un treno in sosta alla stazione Campo di Marte. Il primo maggio raggiungono Fossoli, vicino Carpi. È un campo di transito in cui fino al 22 febbraio è stato Primo Levi e sono rinchiusi ebrei (con il triangolo giallo al petto), prigionieri politici (triangolo rosso) e civili. Da metà marzo è gestito dalle SS e l’impatto è orrendo. Nel loro primo giorno un ebreo già nel campo, Pacifico Di Castro, riceve l’ordine di mettersi in fila, ma non sente bene e si attarda, così un ufficiale nazista gli spara e lo uccide, davanti a tutti. Fossoli vuol dire lavoro, pidocchi, brodaglie, umiliazioni. Ricevono tutti un numero, la loro nuova identità ufficiale al posto del nome, e inizialmente vengono catalogati come “politici” e dunque ricevono il triangolo rosso, ma presto ci si accorge che tali non sono: nel campo i politici sono gli intellettuali, i “milanesi”, partigiani e perlopiù benestanti, un mondo a parte rispetto ai “quadraroli” del Sud di Roma. Dopo più di 50 giorni nel limbo, ai rastrellati del Quadraro viene “chiesto” di firmare una dichiarazione per andare a lavorare “volontariamente” in Germania. L’alternativa è ignota e la sensazione è che è meglio non provarla. Così quasi tutti firmano e il 24 giugno 1944 alla stazione di Carpi vengono caricati, stretti come bestie, sui vagoni-merce per il Nord.Alcuni, pochissimi, riescono a fuggire gettandosi rocambolescamente dal treno. Uno scappa a una stazione prima del confine, passando inosservato tra la folla a una fontanella grazie al suo berretto da tramviere. I fuggiaschi si rifugiano per mesi nelle campagne e qualcuno combatte insieme ai partigiani: come il socialista Adolfo Bonfanti, che trova la morte sugli Appennini con la Brigata Garibaldi. Tutti gli altri finiscono invece in Germania, al termine di un viaggio in cui c’è chi racconta di aver mangiato lumache e lucertole crude. Schiavi di Hitler. Il 29 giugno i rastrellati sono a Ratibor, oggi Racibórz nella Slesia polacca. Qui vengono selezionati come al mercato degli schiavi, a seconda delle loro abilità e dei loro mestieri, e le loro strade si dividono. C’è chi va a scavare trincee e chi a lavorare nelle fabbriche, tra Germania, Austria e Polonia. Le località si chiamano Bad Lauterberg im Harz, Hannover, Wiesbaden-Biebrich, Darmstadt (alla multinazionale farmaceutica Merck KGaA). Ovunque le condizioni sono proibitive: 12 ore al giorno a spaccarsi la schiena, in condizioni disperate, per tornare poi a dormire in baracche infestate di parassiti e sotto lo sguardo di guardie senza pietà. Qualche volta viene concessa la libertà di un giro in paese, ma con quegli stracci e quelle facce smunte finiscono per essere derisi dalle donne e a volte malmenati dalla gioventù nazista locale. A Roma intanto la vita delle famiglie va avanti. Ricorda Castelli: «Con mio padre fuori gioco e perso chissà dove, il capofamiglia divenne mio fratello 15enne. Non aveva paura di niente, andavamo a cogliere la cicoria davanti all’Istituto Luce e lui continuava anche sotto i bombardamenti americani. Noi non avevamo più notizie di papà, che intanto a Ratibor era stato scelto per lavorare alla IG Farben ditta Dyckerch, dal 3 luglio del 1944. In questo stabilimento, in cui facevano la benzina dal carbone, si occupava di costruire i rifugi. Era stato anche carpentiere e una notte le sue conoscenze gli salvarono la vita: durante un bombardamento alleato capì che il piano superiore non avrebbe resistito e scese in quello di sotto, mentre quelli rimasti sopra morirono. Poi lo fecero lavorare in una fabbrica dello zucchero, ma a causa dell’ernia non poteva “incollarsi” i sacchi. Cambiò più volte stabilimento e finì a scavare nei campi di patate». Molti in Germania si ammalano, e in tanti muoiono. Quanti? «Allo stato attuale delle verifiche compiute presso l’anagrafe capitolina, i deceduti in prigionia o all’immediato ritorno a Roma per cause belliche, malattie o in diretta conseguenza di maltrattamenti subiti risultano essere 31. La cifra di circa 300 o “la metà” che è circolata sino ad oggi fu fornita da Italia Poeta in una intervista a Cesare De Simone, non si sa in base a quale ragionamento o conteggio, evidentemente errato – racconta Amen – Fra i morti in prigionia voglio ricordare il più giovane, Eldio Del Vecchio, 17 anni e mezzo, deceduto a Buchenwald quindici giorni prima che venisse liberato il campo, dove era stato condotto per punizione. Anche il maresciallo di aviazione Menotti Martini, motorista che era in servizio presso l’aeroporto di Centocelle, morì all’inizio del 1945 per un incidente sul lavoro avvenuto in una fabbrica di Magdeburgo, così come Santolo Di Palma morì in un ospedaletto da campo presso St. Valentin in Austria al ritorno dalla prigionia nell’ottobre 1945 e, per quante ricerche furono compiute dalla Croce Rossa, il suo corpo non venne mai ritrovato». Il ritorno a casa. Chi non muore ha la fortuna di vedere arrivare, a partire dal gennaio 1945, gli Alleati. Che liberano i campi, forniscono cibo e li aiutano a riprendere la strada di casa. Per alcuni dei deportati, grazie agli americani, iniziano straordinarie avventure, come quelle raccontate da Sisto Quaranta nel libro «Operazione Balena» di Carla Guidi. Comunque sia tra il giugno e l’agosto del 1945, 14-16 mesi dopo quell’alba del 17 aprile 1944, i sopravvissuti del rastrellamento del Quadraro tornano a casa. Racconta Castelli: «Poi un giorno arrivarono i russi e lo salvarono. Mio padre tornò a casa il 4 giugno del 1945. Roma era stata liberata già da un anno, mi ricordo gli americani e quell’ultimo tedesco che stava su un pino a Porta Furba, gli spararono e cadde giù come un piccione. In quell’anno e mezzo avevamo avuto notizie di mio padre solo tramite una cartolina che era riuscito a spedirci grazie alla Croce Rossa. Tornò tutto secco: quando è partito era un po’ grosso e lì è dimagrito senza pagare... È morto a 89 anni». Carbutti fu invece tra quelli che tornarono prima: «A Fossoli i nazisti obbligarono papà a far loro da barbiere. Rimase nel campo dal primo maggio al 24 giugno 1944. Poi, nel trasferimento dopo Fossoli, scappò dal treno-merci su cui viaggiavano. Fu grazie a un ferroviere italiano, che gli consigliò di gettarsi dalla finestrella in alto quando in curva avrebbe rallentato. Tornò a casa il 27 agosto del ’44. Quando bussò aprii io. “Chi è?”, chiese mia madre. “Non lo so, ma’, non lo conosco”. Aveva perso trenta chili, si presentò con uno zaino tutto strappato. Non ci ha mai raccontato come sopravvisse in quei due mesi, nascondendosi in zone pericolosissime in cui passava il fronte, sappiamo solo che lo segnarono profondamente. È morto a 62 anni di cirrosi, anche se non aveva mai bevuto. Per anni era entrato e uscito dagli ospedali, si era preso qualcosa. Aveva poi trovato lavoro alla Tecnostampa, sviluppava le pellicole dei film e le portava nei cinema». La memoria oggi. Questa storia è un puzzle e vi si sta dedicando come detto, tra ostacoli e frustrazioni, lo storico Amen, quasi come in una complicata indagine di polizia. Quando intervistiamo Carbutti, questi parla di uno zio deportato di cui non ha mai saputo niente, e allora Amen lo incalza, e stavolta riesce a fargli ricordare la parrocchia in cui lo zio si sposò: una nuova traccia da cui ora “il commissario Amen” ripartirà per provare a ricostruirne la vicenda. «La storiografia ha sempre trascurato il rastrellamento del Quadraro, è una vicenda che è stata trattata per sentito dire», racconta Amen, che oltre a intervistare testimoni è sempre alla ricerca di nuovi documenti (chiunque abbia informazioni sui rastrellati può contattarlo alla email rastrellamentodelquadraro@gmail.com). Un altro ostacolo è stato il pudore dei sopravvissuti: «Tanti si vergognavano di raccontare la loro storia. Specie i più anziani che avevano fatto la Prima guerra mondiale e ritenevano un disonore quanto loro accaduto. Avevano in media la terza elementare e non ne parlavano neanche con i figli, anche per proteggerli». «Gli ex deportati non avevano molta voglia di raccontare – conferma Castelli – Non c’era neanche tempo, perché dovevano lavorare. Quando mio padre tornò io mi ero fidanzato, stavo fuori fino a tardi, e così ne abbiamo sempre parlato poco purtroppo. A quei tempi d’altronde era così, con i genitori non c’era un gran dialogo. Ma è un grande rimorso della mia vita». Da una scatola di latta Castelli estrae cimeli e fotografie. Sopra ha scritto “Archivio storico” e la custodisce con cura: «Metti che muoio all’improvviso, i miei figli sanno dove trovare tutto, così non fanno la str***ata che ho fatto io con mio padre». Nel 1944, tra una baracca e un’altra, al Quadraro sorgevano già alcune delle casette a due piani che ne facevano una specie di paese in cui tutti si conoscevano: un’impressione che sopravvive tuttora, con il quartiere che prova a resistere alla gentrificazione, alla trasformazione in un nuovo Pigneto. Che cosa ne è oggi di quella storia, adesso che tutti i sopravvissuti sono morti? Dimenticata per decenni, è riemersa davvero solo con il nuovo secolo. Nel 2004 il Quadraro ha ricevuto la Medaglia d’oro al valor civile, come «fulgida testimonianza di resistenza all’oppressore e ammirevole esempio di coraggio, di solidarietà e di amor patrio». Nel 2018 il presidente Sergio Mattarella ha nominato gli ultimi 7 sopravvissuti Commendatori al merito della Repubblica italiana. Il prossimo 17 aprile, in Campidoglio, ci sarà infine una cerimonia per gli 80 anni. «Negli anni la consapevolezza e la sensibilità del territorio sono aumentati», ci dice Francesco Laddaga, il presidente del VII Municipio, del Pd, che dall’anno scorso ha ripristinato il corteo e il concerto per le commemorazioni: «Quest’anno scopriremo anche la targa per intitolare loro la via che oggi porta il nome di Arrigo Solmi, ministro fascista. Ho creato una delega alla memoria e sono molto legato al rastrellamento, di cui sentii parlare per la prima volta a 17 anni, nella mia parrocchia, la stessa di Don Gioacchino Rey. Da allora ne abbiamo fatta di strada, anche grazie al lavoro delle scuole». A conservare la memoria del rastrellamento ci sono anche un recente monumento nel Parco 17 aprile 1944, lo spettacolo teatrale “Nido di vespe” che Simona Orlando porta avanti dal 2010 insieme alla Compagnia Q44, e infine il progetto M.U.Ro, lanciato dall’artista David Vecchiato, in arte Diavù, che dal 2012 ha arricchito il Quadraro, anche su commissione del Municipio, con alcuni murales ispirati a quella tragedia. Tra questi, un’opera dell’americano Gary Baseman, il “Nido di vespe” di Lucamaleonte e, nel 2018, un ritratto del deportato Sisto Quaranta: «Era appena morto e volli farlo io. Lo avevo conosciuto, gli volevo bene, era una forza della natura. Conosco la storia del rastrellamento sin da piccolo. Me ne parlavano i miei nonni, che erano di Cinecittà e alternavano i racconti sul nazismo a quelli sulle loro comparsate in Ben Hur». I murales sono oggi tappe di passeggiate organizzate e stimolano la curiosità. Possono aiutare a salvare la memoria? «Sì, ma sono comunque fatti di quarzo acrilico, la stessa vernice dei palazzi, e quindi sono destinati a scomparire, se non si restaurano. Sono una memoria fragile, così come i video di YouTube con le interviste ai sopravvissuti. Ciò di cui abbiamo veramente bisogno sono i libri. Che i libri di storia raccontino che cosa successe alla borgata ribelle».

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