A lato. Veduta settecentesca di Catanzaro in una incisione di Claude-Louis Chatelet.
Questo è un “post” che dedico alla mia “piccola città”, per dirla con Francesco Guccini.
Me ne ha dato lo spunto, o
meglio l’ardire, la quindicinale rubrica “Ora d’aria” - del 24 di dicembre
2020 - che Daria Galateria cura con ammirevole passione e competenza sul
settimanale “il Venerdì di Repubblica”, rubrica che per l’occasione aveva per
titolo “La scoperta di Catanzaro”,
la mia “piccola città” per l’appunto. Ha scritto Daria Galateria: Catanzaro
piaceva moltissimo ad Alberto Savinio, il grande pittore e scrittore. «È città
rupestre e a pan di zucchero, come Orvieto in Umbria e Avranches in
Normandia...» ne scrive, nonostante abbia da anni ritrosia a parlare di città,
dopo un articolo su Napoli che gli è costato – causa incauto riferimento a
moglie di prefetto, correndo l’anno XVII dell’Era Fascista – l’interdizione dal
giornalismo, e, per la rivista, la chiusura (era Omnibus di Leo Longanesi,
genio anticonformista ma peraltro abbastanza schierato; si vantava per esempio
di aver dato lui a Arturo Toscanini – che si era rifiutato, in un concerto a
Bologna, di suonare Giovinezza – un famoso schiaffo; il maestro se ne andò in
America). Ma è ormai il 1948 quando, in compagnia di un politico in viaggio
elettorale (prenderà il 2 per cento), Savinio approda a Catanzaro; il suo
Diario calabrese (ricostruito dallo storico Vittorio Cappelli per Rubbettino) è
pieno di amenità. Racconta di Alarico, che era venuto a morire nel 410 in
Calabria, bramando l’Italia prima ancora di conoscerla, «come Giaufredo Rudel
amò prima di vederla Melisanda di Tripoli». Calabresi zoomorfi a testa di
pecora (come ama disegnare gli umani Savinio) sanno che l’ultimo dei briganti
calabresi (“patrioti”) si chiamava Svampa; i nonni hanno assistito alla sua
impiccagione. Campanella, il filosofo calabro che raggirò nel 1601 i
torturatori del Sant’Uffizio fingendosi pazzo in 40 ore di corda e cavalletto,
è infatti definito «robusto», e se ne cita il verso: «Quanto ho mangiato! E del
digiun pur moro» – «questo nome mi giunge nuovo», confessa l’autista a testa di
montone. E se Savinio accenna a «denonzie secrete in materia di sanità», si
riferisce a Vicenza (per «mia moglie non vuole trasferirsi a Catanzaro», la
recente frase virale con cui è stata rifiutata una nomina a commissario della
sanità calabra, si veda il programma di Crozza del 16 novembre scorso).
Catanzaro all’inizio non piacque a Vivant Denon, il creatore del Louvre: ma c’è
un motivo, ci arrivò, nel 1778, dal lato del mare. La veduta «gradevolissima»,
si corresse, è quella dalla Porta di terra, ed è da quello scorcio che è
ritratta nel più fastosamente illustrato dei viaggi d’autore del Settecento, il
Voyage pittoresque nell’Italia del Sud. Squisito incisore, Denon era abituato a
disegnare in qualunque condizione; sotto l’artiglieria della battaglia di
Eylau, Napoleone stesso era accorso a trascinarlo via. Nel sud Italia, Denon si
era portato una schiera di pittori, ed è un’incisione di Louis Châtelet che
mostra il mare sullo sfondo e Catanzaro «in cima a una montagna, circondata
d’altre» – oggi collegate dall’ardita campata di un ponte Morandi. Al
ricordo della mia “piccola città” è dedicato il brano di Luigi Settembrini (nato
a Napoli il 17 di aprile dell’anno 1813 e morto in Napoli 4 di
novembre dell’anno 1876) tratto dalle Sue “Ricordanze di una vita” - che di seguito trascrivo -. Luigi Settembrini
è stato un insigne patriota risorgimentale che nella mia “piccola città” ha
insegnato presso il Liceo classico ospitato in un monumentale stabile che sarebbe
stato in seguito intitolato come “Convitto
Nazionale” al filosofo mio conterraneo Pasquale Galluppi (nato a Tropea 2 di
aprile dell’anno 1770 e morto a Napoli il 13 di dicembre dell’anno 1846). In quel
“Convitto Nazionale” ho trascorso parte
della mia giovanissima età frequentandovi i cicli delle Scuole “elementari”
e “medie”.
Ha scritto Luigi Settembrini: (…). Io volevo ottenere la cattedra di
rettorica e lingua greca vacante nel liceo di Catanzaro, perché in quella città
era mio fratello Peppino, e ci era andato anche Giovanni, e con me erano
rimasti gli altri due fratelli minori e la sorella, essendo già morti i nostri
nonni e l'ottimo zio Filippo Giuliani nostro tutore: e così io volevo riunire
colà la sparsa famigliuola. Però mi preparavo al concorso, e studiavo chi vi può
dire come e quanto? Avevo dinanzi a me due premi bellissimi, una cattedra, e la
mia Gigia. Talvolta mi veniva uno sgomento, e dicevo a lei: - Ma sarò io
professore? - E di che temi? tu studii tanto! - E se mi faranno un torto? e se
nell'esame io mi confondo? - Non te lo faranno, ne ti confonderai se tu mi ami
davvero.- Se ti amo?- Ebbene, raccomandati ad Amore: esso è un santo che sa
fare di grandi miracoli.- Così ella mi rianimava e mi accendeva. Io non perdevo
briciola di tempo, ed anche camminando per le vie leggevo Omero, e ne andavo
ripetendo i versi: e poi a un tratto correvo col pensiero a lei, e mi scordavo
d'Omero. Oh, chi mi ridona quegli anni, quegli studi, quei giorni d'amore e di
speranza? Una sola volta in vita si studia bene, come una volta sola veramente
si ama. Venne il 18 agosto 1835, ed io mi presentai nell'università innanzi
otto professori componenti la facoltà di letteratura e filosofia. Dei molti
iscritti al concorso non ci venne che un solo, il quale ne aveva fatto un altro
e ottenuto il secondo luogo, e veniva a questo con una certa confidenza di
ottenere la cattedra. Lo temevo perché mi sentivo a un gran punto. Si aprirono
i libri, e ci diedero le tesi: si aprì Omero, e avemmo a voltare in latino i
primi dieci versi della seconda Iliade, e farvi su un comento filologico: si
aprì Cicerone de Oratore, e avemmo a scrivere una dissertazione latina su
l'azione oratoria; si aprì Orazio e avemmo a scrivere le lodi di Augusto in
esametri latini ed in un'ode saffica italiana. Come udii le tesi respirai, e
non tremai più, anzi con una certa baldanza mi apparecchiai al duello col mio
avversario. E l'arena di quel duello fu la sala del museo mineralogico, dove
tredici anni dopo, nel 1848, fu la Camera dei deputati. Scrissi di forza, e
scrissi il comento filologico tutto in greco, e questo fece un gran colpo: i
professori mi credettero un ellenista valente, poco meno che un Errico Stefano,
ed io non era altro che un pappagalletto ardito che ricordavo sino i punti e le
virgole: ora tutto quel greco se n'è ito. Otto giorni dopo recitammo un
discorso italiano per dar pruova come s'ha a parlare da la cattedra. La facoltà
diede il suo giudizio, e lodato il mio avversario nominò me professore. E così
per quattro scarabocchi latini e quattro greci mi diedero una cattedra di
eloquenza, mentre avevo ventidue anni, sapevo tanto poco, e avevo bisogno di
andare a scuola. Ci voleva la laurea, e senz'altro esame me la diedero, ma
dovetti pagare, perché quando si tratta di quattrini non c'è greco né latino
che tenga, la facoltà di letteratura non intende di finanze, e bisogna pagare.
(…). Un mese dopo, nel novembre del 1835, mi messi in viaggio con la mia Gigia,
coi miei fratelli e la sorella. Avendo già pronta la prolusione da recitare; e
dopo nove giorni che ci vollero a percorrere in un carrozzone dugento cinquanta
miglia, finalmente giungemmo a Catanzaro. (…). Il liceo di Catanzaro era uno
dei quattro del regno, nei quali oltre l'insegnamento letterario si dava il
primo grado d'insegnamento professionale, c'erano cattedre di diritto, di
medicina, di chimica, d'agricoltura, e di matematiche sublimi, e ci si aveva la
licenza: per la laurea poi si doveva venire all'Università. Dopo il 1848 il
Governo per non far raccogliere in Napoli molti giovani provinciali, messe in
tutti i collegi l'insegnamento professionale, e li trasformò in licei, e li
diede a governare ai padri gesuiti o agli scolopi, che mirabilmente
impecorirono i giovani. Io mi messi ad insegnare con ardore e con amore a quei
cari giovanetti, che essendo poco minori di me per l'età m'intendevano e mi
amavano tanto. Poveri giovani! Ne ho riveduti parecchi nelle carceri e nelle
galere con la catena al piede; e sono venuti a visitarmi nell'ergastolo. I
frati non li fanno questi allievi. Il rettore mi disse che gli alunni del liceo
du’ volte l'anno solevano far un'accademia nel giorno del nome e nel giorno
della nascita del Re, cioè recitare versi italiani, latini, e greci in lode di
Sua maestà; e che tutti quei versi doveva farli io professore di retorica, perché
gli alunni non sapevano, e gli altri professori non avevano questo debito. Mi
sentii rovesciato addosso una pentola d'acqua bollente; non sapevo di aver quel
dovere, e da adempierlo subito, che tra pochi giorni sarebbe venuto il 12
gennaio 1836, in cui re Ferdinando compiva il suo ventesimo sesto anno. Mi
dibattei come un cavallo selvaggio preso al laccio, e mi sentiva avvilito
innanzi la mia coscienza. Non c'era che fare. Si pensò che la regina era per
partorire, e che sarebbe stato meglio fare l'accademia in occasione del parto.
Ella partorì il 16 gennaio, ed io mi messi a cantare; ma dopo quindici giorni
venne la nuova che ella era morta, ed io dovetti cangiar tuono! (…). Ringrazio
ancora Daria Galateria per le emozioni e per i ricordi che la Sua
pregevolissima rubrica mi hanno sollecitato e restituito.
Alberto Savinio durante il viaggio elettorale. "Nella mia visita a Catanzaro,mi sono guida due agnelli. Cortesissimi,entrambi, e premurosi. L'uno, bruno e l'altro biondo".Affacciato al parapetto di Via Bellavista, ammira"una mostra maravigliosa di digradanti piani verdi e di emergenti verdi colli,di bianchi fiumi che ai lati della città serpeggiano separati e oltre la stazione ferroviaria di Sala serpeggiano uniti, di strade a nastro su cui camion lillipuziani e lillipuziane automobili si affrettano lenti, di borghi e borgatelle dai quali sale o un fumo o un fischio,e del mare, laggiù, luminoso e tranquillo, azzurra pista da ballo per l'invisibile, danza Anfitrite ".(Giovanni Turra " Uomo e natura qui sono vicini " I viaggi in Calabria di Alberto Savinio. Carissimo Aldo, meraviglioso questo tuo post che anche in me suscita emozioni dolci e profonde, emozioni impresse, a tratti indelebili, nell'anima. Grazie e buona continuazione.
RispondiEliminaAmica carissima, grazie per il Tuo contributo che arricchisce la "memoria" di quel viaggio di Savinio.
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