"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 30 dicembre 2020

Strettamentepersonale. 31 Catanzaro: «È città rupestre e a pan di zucchero, come Orvieto in Umbria e Avranches in Normandia...»

 

A lato. Veduta settecentesca di Catanzaro in una incisione di Claude-Louis Chatelet.

Questo è un “post” che dedico alla mia “piccola città”, per dirla con Francesco Guccini.

Me ne ha dato lo spunto, o meglio l’ardire, la quindicinale rubrica “Ora d’aria” - del 24 di dicembre 2020 - che Daria Galateria cura con ammirevole passione e competenza sul settimanale “il Venerdì di Repubblica”, rubrica che per l’occasione aveva per titolo “La scoperta di Catanzaro”, la mia “piccola città” per l’appunto. Ha scritto Daria Galateria: Catanzaro piaceva moltissimo ad Alberto Savinio, il grande pittore e scrittore. «È città rupestre e a pan di zucchero, come Orvieto in Umbria e Avranches in Normandia...» ne scrive, nonostante abbia da anni ritrosia a parlare di città, dopo un articolo su Napoli che gli è costato – causa incauto riferimento a moglie di prefetto, correndo l’anno XVII dell’Era Fascista – l’interdizione dal giornalismo, e, per la rivista, la chiusura (era Omnibus di Leo Longanesi, genio anticonformista ma peraltro abbastanza schierato; si vantava per esempio di aver dato lui a Arturo Toscanini – che si era rifiutato, in un concerto a Bologna, di suonare Giovinezza – un famoso schiaffo; il maestro se ne andò in America). Ma è ormai il 1948 quando, in compagnia di un politico in viaggio elettorale (prenderà il 2 per cento), Savinio approda a Catanzaro; il suo Diario calabrese (ricostruito dallo storico Vittorio Cappelli per Rubbettino) è pieno di amenità. Racconta di Alarico, che era venuto a morire nel 410 in Calabria, bramando l’Italia prima ancora di conoscerla, «come Giaufredo Rudel amò prima di vederla Melisanda di Tripoli». Calabresi zoomorfi a testa di pecora (come ama disegnare gli umani Savinio) sanno che l’ultimo dei briganti calabresi (“patrioti”) si chiamava Svampa; i nonni hanno assistito alla sua impiccagione. Campanella, il filosofo calabro che raggirò nel 1601 i torturatori del Sant’Uffizio fingendosi pazzo in 40 ore di corda e cavalletto, è infatti definito «robusto», e se ne cita il verso: «Quanto ho mangiato! E del digiun pur moro» – «questo nome mi giunge nuovo», confessa l’autista a testa di montone. E se Savinio accenna a «denonzie secrete in materia di sanità», si riferisce a Vicenza (per «mia moglie non vuole trasferirsi a Catanzaro», la recente frase virale con cui è stata rifiutata una nomina a commissario della sanità calabra, si veda il programma di Crozza del 16 novembre scorso). Catanzaro all’inizio non piacque a Vivant Denon, il creatore del Louvre: ma c’è un motivo, ci arrivò, nel 1778, dal lato del mare. La veduta «gradevolissima», si corresse, è quella dalla Porta di terra, ed è da quello scorcio che è ritratta nel più fastosamente illustrato dei viaggi d’autore del Settecento, il Voyage pittoresque nell’Italia del Sud. Squisito incisore, Denon era abituato a disegnare in qualunque condizione; sotto l’artiglieria della battaglia di Eylau, Napoleone stesso era accorso a trascinarlo via. Nel sud Italia, Denon si era portato una schiera di pittori, ed è un’incisione di Louis Châtelet che mostra il mare sullo sfondo e Catanzaro «in cima a una montagna, circondata d’altre» – oggi collegate dall’ardita campata di un ponte Morandi. Al ricordo della mia “piccola città” è dedicato il brano di Luigi Settembrini (nato a Napoli il 17 di aprile dell’anno 1813 e morto in Napoli 4 di novembre dell’anno 1876) tratto dalle Sue “Ricordanze di una vita” - che di seguito trascrivo -. Luigi Settembrini è stato un insigne patriota risorgimentale che nella mia “piccola città” ha insegnato presso il Liceo classico ospitato in un monumentale stabile che sarebbe stato in seguito intitolato come “Convitto Nazionale” al filosofo mio conterraneo Pasquale Galluppi (nato a Tropea 2 di aprile dell’anno 1770 e morto a Napoli il 13 di dicembre dell’anno 1846). In quel “Convitto Nazionale” ho trascorso parte della mia giovanissima età frequentandovi i cicli delle Scuole “elementari” e “medie”. Ha scritto Luigi Settembrini: (…). Io volevo ottenere la cattedra di rettorica e lingua greca vacante nel liceo di Catanzaro, perché in quella città era mio fratello Peppino, e ci era andato anche Giovanni, e con me erano rimasti gli altri due fratelli minori e la sorella, essendo già morti i nostri nonni e l'ottimo zio Filippo Giuliani nostro tutore: e così io volevo riunire colà la sparsa famigliuola. Però mi preparavo al concorso, e studiavo chi vi può dire come e quanto? Avevo dinanzi a me due premi bellissimi, una cattedra, e la mia Gigia. Talvolta mi veniva uno sgomento, e dicevo a lei: - Ma sarò io professore? - E di che temi? tu studii tanto! - E se mi faranno un torto? e se nell'esame io mi confondo? - Non te lo faranno, ne ti confonderai se tu mi ami davvero.- Se ti amo?- Ebbene, raccomandati ad Amore: esso è un santo che sa fare di grandi miracoli.- Così ella mi rianimava e mi accendeva. Io non perdevo briciola di tempo, ed anche camminando per le vie leggevo Omero, e ne andavo ripetendo i versi: e poi a un tratto correvo col pensiero a lei, e mi scordavo d'Omero. Oh, chi mi ridona quegli anni, quegli studi, quei giorni d'amore e di speranza? Una sola volta in vita si studia bene, come una volta sola veramente si ama. Venne il 18 agosto 1835, ed io mi presentai nell'università innanzi otto professori componenti la facoltà di letteratura e filosofia. Dei molti iscritti al concorso non ci venne che un solo, il quale ne aveva fatto un altro e ottenuto il secondo luogo, e veniva a questo con una certa confidenza di ottenere la cattedra. Lo temevo perché mi sentivo a un gran punto. Si aprirono i libri, e ci diedero le tesi: si aprì Omero, e avemmo a voltare in latino i primi dieci versi della seconda Iliade, e farvi su un comento filologico: si aprì Cicerone de Oratore, e avemmo a scrivere una dissertazione latina su l'azione oratoria; si aprì Orazio e avemmo a scrivere le lodi di Augusto in esametri latini ed in un'ode saffica italiana. Come udii le tesi respirai, e non tremai più, anzi con una certa baldanza mi apparecchiai al duello col mio avversario. E l'arena di quel duello fu la sala del museo mineralogico, dove tredici anni dopo, nel 1848, fu la Camera dei deputati. Scrissi di forza, e scrissi il comento filologico tutto in greco, e questo fece un gran colpo: i professori mi credettero un ellenista valente, poco meno che un Errico Stefano, ed io non era altro che un pappagalletto ardito che ricordavo sino i punti e le virgole: ora tutto quel greco se n'è ito. Otto giorni dopo recitammo un discorso italiano per dar pruova come s'ha a parlare da la cattedra. La facoltà diede il suo giudizio, e lodato il mio avversario nominò me professore. E così per quattro scarabocchi latini e quattro greci mi diedero una cattedra di eloquenza, mentre avevo ventidue anni, sapevo tanto poco, e avevo bisogno di andare a scuola. Ci voleva la laurea, e senz'altro esame me la diedero, ma dovetti pagare, perché quando si tratta di quattrini non c'è greco né latino che tenga, la facoltà di letteratura non intende di finanze, e bisogna pagare. (…). Un mese dopo, nel novembre del 1835, mi messi in viaggio con la mia Gigia, coi miei fratelli e la sorella. Avendo già pronta la prolusione da recitare; e dopo nove giorni che ci vollero a percorrere in un carrozzone dugento cinquanta miglia, finalmente giungemmo a Catanzaro. (…). Il liceo di Catanzaro era uno dei quattro del regno, nei quali oltre l'insegnamento letterario si dava il primo grado d'insegnamento professionale, c'erano cattedre di diritto, di medicina, di chimica, d'agricoltura, e di matematiche sublimi, e ci si aveva la licenza: per la laurea poi si doveva venire all'Università. Dopo il 1848 il Governo per non far raccogliere in Napoli molti giovani provinciali, messe in tutti i collegi l'insegnamento professionale, e li trasformò in licei, e li diede a governare ai padri gesuiti o agli scolopi, che mirabilmente impecorirono i giovani. Io mi messi ad insegnare con ardore e con amore a quei cari giovanetti, che essendo poco minori di me per l'età m'intendevano e mi amavano tanto. Poveri giovani! Ne ho riveduti parecchi nelle carceri e nelle galere con la catena al piede; e sono venuti a visitarmi nell'ergastolo. I frati non li fanno questi allievi. Il rettore mi disse che gli alunni del liceo du’ volte l'anno solevano far un'accademia nel giorno del nome e nel giorno della nascita del Re, cioè recitare versi italiani, latini, e greci in lode di Sua maestà; e che tutti quei versi doveva farli io professore di retorica, perché gli alunni non sapevano, e gli altri professori non avevano questo debito. Mi sentii rovesciato addosso una pentola d'acqua bollente; non sapevo di aver quel dovere, e da adempierlo subito, che tra pochi giorni sarebbe venuto il 12 gennaio 1836, in cui re Ferdinando compiva il suo ventesimo sesto anno. Mi dibattei come un cavallo selvaggio preso al laccio, e mi sentiva avvilito innanzi la mia coscienza. Non c'era che fare. Si pensò che la regina era per partorire, e che sarebbe stato meglio fare l'accademia in occasione del parto. Ella partorì il 16 gennaio, ed io mi messi a cantare; ma dopo quindici giorni venne la nuova che ella era morta, ed io dovetti cangiar tuono! (…). Ringrazio ancora Daria Galateria per le emozioni e per i ricordi che la Sua pregevolissima rubrica mi hanno sollecitato e restituito.

2 commenti:

  1. Alberto Savinio durante il viaggio elettorale. "Nella mia visita a Catanzaro,mi sono guida due agnelli. Cortesissimi,entrambi, e premurosi. L'uno, bruno e l'altro biondo".Affacciato al parapetto di Via Bellavista, ammira"una mostra maravigliosa di digradanti piani verdi e di emergenti verdi colli,di bianchi fiumi che ai lati della città serpeggiano separati e oltre la stazione ferroviaria di Sala serpeggiano uniti, di strade a nastro su cui camion lillipuziani e lillipuziane automobili si affrettano lenti, di borghi e borgatelle dai quali sale o un fumo o un fischio,e del mare, laggiù, luminoso e tranquillo, azzurra pista da ballo per l'invisibile, danza Anfitrite ".(Giovanni Turra " Uomo e natura qui sono vicini " I viaggi in Calabria di Alberto Savinio. Carissimo Aldo, meraviglioso questo tuo post che anche in me suscita emozioni dolci e profonde, emozioni impresse, a tratti indelebili, nell'anima. Grazie e buona continuazione.

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  2. Amica carissima, grazie per il Tuo contributo che arricchisce la "memoria" di quel viaggio di Savinio.

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