Tratto da “Il rito del dono, lezione per il virus” di Massimo Fini,
pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri 28 di novembre: (…). Dunque
il dono. Per migliaia di anni, dall’8000 al 3000 avanti Cristo circa, nel
periodo paleolitico e poi neolitico, la sola forma accettabile di scambio è
stata quella del dono e del controdono. Lo scambio, che era fra tribù,
collettivo, non era quasi mai contestuale, avveniva in tempi diversi e non aveva
un contenuto economico, né necessariamente il controdono andava alla tribù che
l’aveva fatto. Forse nessuno meglio di Marcel Mauss ha spiegato il singolare
circuito del dono e del controdono, in Melanesia chiamato kula, che significa
circolo, ma abituale in quasi tutti i popoli che si affacciavano sul Pacifico:
“Un anno una tribù parte dalla sua isola a bordo di una nave vuota e fa il giro
dell’arcipelago tornando carica di doni. L’anno successivo un’altra tribù fa lo
stesso giro in senso inverso. E così via. Non necessariamente la tribù dà i
suoi doni a quella da cui li ha in precedenza ricevuti, capita che li dia a una
tribù terza, ciò che conta è che questa sia inserita nel giro del kula” (M.
Mauss, Teoria generale della magia). Lo scambio individuale, detto gimwali, è
proibito o comunque malvisto perché incrina l’unità e la solidarietà del gruppo
che in quelle società è il valore in assoluto primario. In tali società non
esiste nemmeno il concetto di economia, perché l’economia nella vita tribale si
diluisce, si confonde, si incorpora in una così fitta rete di rapporti sociali,
religiosi, magici, interpersonali, di amicizia, che è pressoché impossibile
isolarla ed enuclearla dal resto. Poiché il controdono è abitualmente superiore
al dono, alcuni economisti classici hanno affermato che in realtà si
tratterebbe di un prestito ad interesse. Ed in effetti i pellerossa dicono (o
dicevano) che “il dono è un peso che si mette sul gobbo di colui che lo
riceve”. Ma si tratta di una questione di onore e di prestigio che nulla ha a
che fare con l’economia. Nulla illustra meglio questa concezione di quello
straordinario istituto che è il potlach, dove un capo tribù distrugge quanto
più può della propria ricchezza proprio per dimostrare la sua potenza (oppure l’intera
tribù la sperpera – noi moderni che abbiamo il concetto di investimento diremmo
così – in banchetti, feste nunziali o altro genere di gozzoviglie). Bisogna
quindi rassegnarsi al fatto che il primitivo non è un homo oeconomicus e che la
storia non è una inevitabile ascesa verso il mercato e il denaro i cui
presupposti sarebbero stati presenti fin dalle età più antiche. Col progredire
dell’evoluzione, se vogliamo chiamarla così, le tribù e le stesse famiglie si
sparpagliano, per cui il circuito del dono e del controdono man mano si
disperde. Già Esiodo ne Le opere e i giorni (VIII-VII secolo a.C.), aveva
notato un cambiamento essenziale, alla tribù, al clan, dove la solidarietà è
implicita perché l’individuo progredisce o perisce con esso, si sostituisce il
vicino di cui il poeta ha un giustificato orrore. Perché il vicino lo si aiuta
pensando che a sua volta, quando saremo in una qualche difficoltà, aiuterà noi. C’è quindi un calcolo, che se non è ancora propriamente economico in qualche
modo gli assomiglia. Sorvolando poi questa storia a volo d’uccello, inizia
l’era dei grandi Imperi fluviali, mediorientali: Sumeri, Assiri, Babilonesi,
Ittiti, Harappa, Egizi. Qui la ricchezza è accumulata nelle mani di un re,
imperatore o faraone che sia, di origine divina o egli stesso un dio (sia detto
di passata, in Oriente non si è mai concepita la figura di un capo supremo che
non avesse origine divina, solo questa origine lo legittimava al comando, un
riflesso moderno di questa concezione si ha nel Giappone dove il Mikado è stato
un dio fino a quando gli Americani vincitori non lo costrinsero a
dedivinizzarsi) che, attraverso la sua burocrazia, distribuisce la ricchezza ai
sudditi. Entra in campo però anche lo scambio individuale che è basato sul
concetto di equivalenza. Poiché è diventato ormai in larga misura
indispensabile lo scambio individuale, una volta osteggiato, è consentito ed è
sottratto al regime faticoso e dispendioso del dono e controdono, ma deve
avvenire secondo certe equivalenze prefissate fra bene e bene in modo che non
ci sia profitto di una delle parti a scapito e con danno dell’altra. Oppure, se
vogliamo vederla da un’altra angolazione, il guadagno deve essere uguale per
entrambe. È insomma la condanna del mercante. IlA perché lo spiega bene Aristotele
nell’Etica Nicomachea: “L’esistenza stessa dello Stato dipende da questi atti
di reciprocità programmata… quando esse venga a mancare non è più possibile
alcuna forma di compartecipazione, mentre è proprio tale compartecipazione che
ci tiene uniti”. Come sottolinea il filosofo anche qui i valori primari restano
l’unità e la solidarietà del gruppo. Questo modo di pensare lo si riscontra
ancora in alcuni popoli che chiamiamo “tradizionali”, e che sono stati fra noi
fino a epoche recentissime. Per i Curdi, finché sono esistiti come tali, e gli
Hunza, popolo dell’Asia centrale, il furto è punito più dell’omicidio, perché
l’omicidio può avvenire in seguito a ira, onore, gelosia, cioè per i
tradizionali moti dell’animo che, checché se ne dica oggi, non sono
comprimibili, mentre il furto, a meno che non sia compiuto in stato di
necessità, allora viene perdonato, incrina la fiducia e la solidarietà del
gruppo. La solidarietà oggi, in epoca di Covid, viene richiamata un po’ da
tutte le Autorità proprio perché in epoche di calamità la solidarietà e l’unità
di un popolo è particolarmente necessaria. Ma di questa solidarietà in giro, a
dispetto di tutti gli altisonanti proclami, se n’è vista pochissima. Ha
prevalso la paura reciproca (“noli me tangere”). (…).
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