Tratto da “Sì,
compagni il comunismo si è realizzato” di Maurizio Ferraris, pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 28 di dicembre dell’anno 2018: (…). Malgrado
quello che si dice e si pensa, siamo la società più vicina al comunismo che la
storia abbia mai conosciuto. Sicuramente, più vicina di quanto lo fossero le
esperienze storiche di comunismo realizzato, e senza dimenticare che la più
grande esperienza di comunismo realizzato è tutt’ora in corso e tutt’altro che
in crisi, visto che la Cina si sta avviando a diventare il potere egemone del
XXI secolo. Conviene dunque smettere il gioco futile del condannare il
capitalismo e rimpiangere il comunismo. Il comunismo è già qua, nella
rivoluzione in corso. Si tratta di comprenderlo e di concettualizzarlo.
Controllo dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori, fine della
alienazione e della divisione del lavoro, società senza classi e senza stato,
nuova internazionale, dittatura del proletariato, ossia tutte le
caratteristiche che Marx attribuiva al comunismo sono una moneta corrente in
moltissime società contemporanee che si credono capitaliste. Il telefonino con
cui creiamo dati, cioè ricchezza, ci appartiene (ma ce lo danno praticamente
gratis, se ci impegniamo a usarlo) così come la casa che diamo in affitto con
Airbnb o l’auto di cui ci serviamo per lavorare con Uber. Finisce così
l’alienazione, perché vien meno la differenza tra tempo del lavoro e tempo
della vita (siamo perennemente mobilitati sul web); si assottiglia la
differenza tra lavoro intellettuale e lavoro manuale (una parte sempre
crescente dell’umanità delle società occidentali usa le braccia e le gambe per
tenersi in forma, e per lavorare usa le dita che si muovono sulla tastiera); ci
si avvia verso una società senza classi, sebbene permangano e si accentuino le
differenze di reddito; verso una società senza Stato (le prerogative statali
della conoscenza analitica della popolazione, del batter moneta, della posta e
dell’esercizio della forza passano progressivamente ad agenzie extra-statali);
inoltre — malgrado i sussulti sovranisti, non meno inattuali della
Restaurazione del 1814 — si è affermata una società globalizzata, ossia una
nuova internazionale, questa volta effettiva: per questo fa paura, essendo una
realtà e non un vago ideale romantico. Per finire, i populismi costituiscono la
prima realizzazione storica di quella dittatura del proletariato che Marx
vedeva come un momento di transizione tra la società borghese e la società
comunista. Questa realtà è il frutto di una rivoluzione, non meno grande della
rivoluzione industriale di due secoli fa. Dalla fine del Settecento conosciamo
il mondo del capitale industriale: produceva merci, generava alienazione,
faceva rumore, quello delle fabbriche. Poi è stata la volta del capitale
finanziario: produceva ricchezza, generava adrenalina e faceva ancora un po’ di
rumore, quello delle sedute di borsa. Oggi si sta facendo avanti un nuovo
capitale, il "capitale documediale": produce documenti, genera
mobilitazione e non fa rumore. Il suo ambiente, e la sua condizione di
possibilità, è il web, che ha prodotto quella che chiamo rivoluzione
documediale, innescata dall’incontro fra una sempre più potente documentalità
(la sfera di documenti da cui dipende l’esistenza della realtà sociale) e una
medialità diffusa e pervasiva, sia quantitativamente (i cellulari sono due
miliardi) sia qualitativamente (grazie ai social media, ogni ricettore è anche
un broadcaster). Quanto sappiamo di questa rivoluzione? Abbiamo davvero capito
di che cosa si tratta? Dopo un momento di euforia, in cui il web è stato
interpretato anzitutto in modo estetico, come portatore di nuova bellezza e
delle esperienze di un mondo virtuale, è venuta l’ora della morale. Inteso ai
suoi esordi come una prateria dove scorrazza la libertà, il web si è
trasformato oggi nel Grande Fratello che spia i nostri comportamenti e prepara
dossier sulle nostre vite. Per quanto importante, questa lettura non è meno settoriale
di quella che si manifestava nell’incanto estetico per la rete e sembra di
essere ritornati ai tempi della Società delle Nazioni e alla sua astratta
illusione di governare il mondo in base alla pura produzione di norme. In
taluni casi si potrebbero trasferire al web (augurando loro maggiore fortuna) i
14 punti del Presidente Wilson aggiungendo un po’ di dichiarazioni del 1789, e
qualcosa delle dichiarazioni delle Nazioni Unite del 1948, compreso l’articolo
19: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione»,
senz’altra precisazione (ad esempio, che l’opinione sia vera, che non inciti
all’odio ecc.). Il ciberspazio è pieno di etica, di buone intenzioni, cioè
della materia di cui, come sappiamo, sono lastricate le vie che portano all’inferno:
perché — mentre si dibatte sui principi e sulle norme — un sisma politico ed
economico porta al potere, oggi come negli anni Trenta, i populisti spaventati
da una trasformazione che non comprendono. Che cosa si può fare per
comprendere? L’etica è una parte importante della filosofia, come l’estetica,
ma pretendere di capire davvero la rivoluzione documediale con il solo ricorso
a queste due nobili branche del sapere è come mandare una carica di cavalleria
contro i carri armati. È necessaria una analisi che non si limiti a sviluppare
le implicazioni etiche ma affronti la trasformazione con tutti gli strumenti
fornitici dalla filosofia: la metafisica, che ci aiuti a dire che cos’è il
mondo della rivoluzione documediale; l’ontologia, che ci dica che cosa c’è,
quali sono le componenti di questo nuovo universo in cui ci siamo trovati a
vivere, e nel quale le merci sono diventate documenti; la tecnologia, che ci
spieghi che cosa è diventato il lavoro, trasformatosi in una mobilitazione
senza confini di spazio e di tempo, e che spessissimo produce valore senza
essere retribuito; l’epistemologia, che ci aiuti a capire che cosa non va nella
rivoluzione, e in particolare l’enorme asimmetria (che chiamo "plusvalore
documediale") che, in quella che a torto è definita una economia della
conoscenza, contrappone le informazioni ottenute da chi si mobilita e quelle
che cede gratuitamente alle piattaforme; e infine la teleologia, la risposta
alla domanda "che fare?", una domanda che la politica, ridotta ad
analisi dei sondaggi e a una campagna elettorale senza fine, è incapace di
soddisfare.
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