"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 29 gennaio 2014

Cosecosì. 67 “La lotta di classe asimmetrica”.



Cosa è andato scrivendo mai Alessandro Robecchi su “il Fatto Quotidiano” di oggi col titolo “Correre dietro ai polacchi non ci rende meno italiani”? Anche a costo – e corro coscientemente il rischio - d’essere accusato della pratica alquanto odiosa del “citarsi addosso” – formuletta inventata da quel grande spiritosone che è Woody Allen – e di essere additato del narcisismo più sfrenato, anche a costo di tutto ciò ho il dovere di segnalarvi il mio post del 20 di dicembre dell’anno appena trapassato che ha per titolo “Nell’epoca della nuova povertà”. E cosa ho scritto in quel post che pochi, pochissimi, sparuti avventurieri della rete avranno letto? Scrivevo, per l’appunto, che… Oggigiorno nuovi scenari ha aperto la globalizzazione, ché solamente la cecità della politica non ha consentito di vedere al tempo dovuto. Essa, la globalizzazione, ha agito ed agisce così come aveva intuito quel grande che è stato il Liebig. Poiché le cose intuite dall’illustre scienziato per i fenomeni della Natura valgono per l’appunto anche nelle vicende degli umani. Come non vedere al giusto tempo che la globalizzazione avrebbe introdotto nelle società dell’Occidente quel “fattore limitante” per il quale, come in un mastello la doga più corta determina il livello al quale il liquido può in esso essere raccolto, così il “fattore limitante” – conseguenza di una sfrenata, incontrollata globalizzazione - dei bassi o bassissimi salari dei paesi poveri divenuti emergenti, l’assenza di ogni forma di tutela sociale e del lavoro, avrebbe, quel “fattore limitante”, investito e colpito anche le cosiddette società del capitalismo avanzato? Con la sua logica sfrenata, con il falso assunto che i mercati sarebbero stati capaci di autoregolamentarsi, la globalizzazione e la finanziarizzazione del capitalismo ha provveduto a spolpare le ricchezze e le risorse delle società occidentali per le quali si aprono scenari chiari di un ritorno ad un’epoca nuova di povertà. Ma se c’è stata una cecità della politica come non vedere di pari passo anche una cecità nel mondo della finanza e dell’economia? Avere impoverito grandi masse nel mondo dell’Occidente capitalistico, avere di fatto spinto all’indietro una spessa fetta di quello che è stato il “ceto medio” delle società avanzate ha di conseguenza tolto dalla scena quei nevrotici “consumatori” che oggigiorno si invocano inutilmente affinché riprendano a sostenere i consumi per consentire il riavvio della cosiddetta “ripresa”. Questo venivo scrivendo nel mio inutile scribacchiare. E questo prima del “blocco” dello scrivano. E così oggi mi sono trovato a leggere il bello scrivere di Alessandro Robecchi ed a ritrovare in esso quelle elementari intuizioni che forse maldestramente avevo messo nero su bianco, tanto per dir, come si diceva al tempo del calamaio, della penna e della carta. Ha scritto dunque Alesasndro Robecchi che… È vero che se corri dietro al tram risparmi un euro e mezzo, ma se corri dietro a un taxi riesci a risparmiare molto di più. Che questa scemenza sia applicabile all’economia, e quindi alla vita delle persone, non fa ridere per niente. Eppure è quello che ci sentiremmo di suggerire alla Electrolux, la multinazionale degli elettrodomestici che ha proposto ai suoi lavoratori un accordo che suona più o meno così: noi vi molliamo qui e andiamo a fare le nostre lavatrici in Polonia, a meno che voi non accettiate di prendere salari polacchi. In pratica si tratta di una riduzione di stipendio di quasi il cinquanta per cento: quello che prima facevi per 1.400 euro, domani potresti farlo per 700. Se no a casa. Prendere o lasciare che si direbbe, dall’economia, alla politica, alle riforme, pare la moda del momento. Vedete anche voi che la formuletta del tram e del taxi è una metafora perfetta: perché diavolo inseguire stipendi polacchi quando si potrebbero rincorrere addirittura quelli cinesi? E perché limitarsi agli stipendi cinesi quando si potrebbero pagare stipendi cambogiani? Il fatto è che c’è sempre qualcuno che è il polacco di qualcun altro (o il cinese, o il cambogiano…) e quindi non si finisce più: la corsa al ribasso è una specie di toboga insaponato dove si prende velocità e non si riesce a frenare. Ma certo, certo, non c’è dubbio che la faccenda non sia così semplice. (…). E in più, della proposta Electrolux non si calcola un piccolo dettaglio. Che i lavoratori prenderebbero stipendi polacchi, ma non abiterebbero in Polonia. Continuerebbero a pagare affitti o mutui italiani, a comprare cibo nel supermercati italiani e a far benzina in Italia, che Varsavia gli viene un po’ scomoda. Dunque, non per tirare in ballo il vecchio maestro Keynes (…), se ne deduce che oggi, con il suo stipendio, un lavoratore dell’Elecrolux potrebbe forse permettersi di comprare una lavatrice Electrolux, ma domani, con il suo stipendio polacco, non potrà più. Meno soldi in tasca a chi lavora, quindi meno consumi interni, quindi nuovi lavoratori in esubero, quindi nuove riduzioni di salario. È la famosa manina magica del mercato che sistema tutto, a favore del mercato, naturalmente. (…). Nel frattempo, sarebbe bello non diventare troppo polacchi, troppo cinesi o troppo cambogiani, continuando a fare la spesa qui. (…). E così pure il mio narcisistico “io” – che sembra sia essere, il “narcisismo” intendo dire, sempre secondo i maligni, una caratteristica propria di tutti quelli che trovano necessario lo scrivere - si è ancor di più gonfiato, sino a scoppiarne come fu per la rana di Fedro, alla lettura del magistrale pezzo di Gad Lerner sul quotidiano la Repubblica di oggi che ha per titolo “La lotta di classe asimmetrica”. È da tempo assai che vado parlando di “lotta di classe”. Per quei pochi, pochissimi, sparuti navigatori della rete incagliatisi su questo blog sarà parso essere questa mia una fissazione fuori dal tempo e dalla Storia. Solo che da un bel po’ di tempo vado parlando di una “lotta di classe all’incontrario”. Non più i meno abbienti ed i bisognosi ad essere protagonisti di essa, la “lotta di classe” intendo dire, ma essa è condotta “all’incontrario” ovvero dalle categorie sociali più ricche e fortunate. Gad Lerner da più erudito parla di “lotta di classe asimmetrica”. Ma per il resto non cambia nulla. Scrive Gad Lerner che… Nella lotta di classe asimmetrica (…) i lavoratori sono ridotti a variabile marginale. Stoccolma ha il potere di giocarsi gli operai polacchi contro gli operai italiani, e inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio chiusura in competizione con l’altro; azionando così una corsa al ribasso no limits del costo della manodopera. Il sacro principio della libera concorrenza, dispiegato senza regole su un orizzonte mondiale, anela a svincolarsi dai contratti localmente stipulati con la parte più debole. In materia di retribuzioni prevalgono le tariffe di volta in volta indicate come riferimento là dove conviene; e pazienza se ciò comporta una vera e propria retrocessione di civiltà. Prendere o lasciare. Il governo, i sindacati e la politica sono chiamati solo a una presa d’atto subalterna. A disarmarli è la nuova centralità finanziaria del rapporto creditore/debitore che prosciuga le risorse pubbliche necessarie all’esercizio della mediazione nel più antico conflitto capitale/lavoro. È così che la lotta di classe diviene asimmetrica e il lavoro, reso precario, tende a precipitare sempre più spesso nella povertà (…). Le statistiche sulla ricchezza nazionale divulgate dalla Banca d’Italia ci confermano che stiamo vivendo una metamorfosi sociale, con l’acuirsi delle disuguaglianze e la diffusione della povertà. Ma ancora non fotografano a sufficienza il dato nuovo rappresentato dall’estendersi dell’area che i sociologi definiscono labouring poors: ovvero i titolari di un posto di lavoro fisso la cui busta paga però non li sottrae all’indigenza. Tale condizione verrebbe generalizzata da eventuali accordi consensuali di taglio dei salari. Essi giungerebbero a suggellare una gigantesca opera di espropriazione di ricchezza ai danni del lavoro dipendente già in atto da anni in tutto l’occidente. Ne sono talmente consapevoli il presidente Obama negli Usa e i partner della “grosse koalition” in Germania, da avere scelto di innalzare per legge il salario minimo orario nei loro paesi. Un parziale antidoto alla diffusione della povertà fra i lavoratori dipendenti. (…). Come è stato possibile dimenticare il “fattore limitante” del grande Liebig? Cecità della politica! Oggi il Leporello del “Don Giovanni” potrebbe ben cantare “Madamina! il catalogo è questo”

lunedì 27 gennaio 2014

Eventi. 15 “4517” ovvero Primo Levi.



Dall’intervista di Enzo Biagi a Primo Levi trasmessa l’8 di giugno dell’anno 1982 su Rai1 e riportata da “il Fatto Quotidiano” del 26 di gennaio 2014.

Levi come ricorda la promulgazione delle leggi razziali? - Non è stata una sorpresa quello che è avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza, dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali. Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare il pericolo -.
(…). Come ha vissuto quel tempo fino alla caduta del fascismo? - Abbastanza tranquillo, studiando, andando in montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo -.
E quando è arrivato l’8 settembre? - Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera, ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere il da farsi -.
La situazione con l’avvento della Repubblica sociale peggiorò? - Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre ’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento -.
Cosa fece? - Nel dicembre ’43 ero già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato nel marzo del ’44 e poi deportato -.
(…). Lei ricorda il viaggio verso Auschwitz? - Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il più possibile -.
Come ricorda la vita ad Auschwitz? - L’ho descritta in “Se questo è un uomo”. La notte, sotto i fari, era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli prima, degli abiti poi, delle famiglie subito -.
(…). Che cosa l’ha aiutata a resistere nel campo di concentramento? - Principalmente la fortuna. Non c’era una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza. Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire rassegnarsi alla morte -.
Come ha vissuto ad Auschwitz? - Ero nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi, quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena, dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su -.
(…). È vero che cadevano più facilmente i più robusti? È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche, un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo 49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni -.
Che cosa mancava di più: la facoltà di decidere? - In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da casa…-.
La nostalgia, pesava di più? - Pesava soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa, siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di minestra” -.
Lei ha raccontato che nei lager si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla autodistruzione. - Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata -.
Quando ha saputo dell’esistenza dei forni? - Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza. Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non occuparsene -.
Poi arrivarono i russi e fu la libertà. Come ricorda quel giorno? - Il giorno della liberazione non è stato un giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager. I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo, abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti -.
Questa esperienza ha cambiato la sua visione del mondo? - Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre bisogna trovare la forza per pensare -.
Grazie, Levi. - Biagi, grazie a lei -.

domenica 26 gennaio 2014

Uominiedio. 12 Internet ed i doni di Dio.



“La fede risponde a esigenze che non sono razionali, e tuttavia sono vissute come irrinunciabili dall'uomo: le spinte alla continua ricerca di qualcosa oltre l'esistente”. Lo ha scritto il professor Umberto Galimberti sul settimanale “D” del 21 di settembre dell’anno 2013 – “Tra religione e scienza non serve scegliere” -. La questione quindi è ostica assai, controversa, sfuggente. Dio. La faccenda vissuta ha dell’inverosimile, dell’incredibile, ed è tutta da dimostrare. Ma come dimostrarla? La storiella mi è stata raccontata. Ha a che fare con un “dono di Dio”, Internet. Wow! (al tempo prima di Internet si sarebbe forse detto “urca”!). Una scena consueta di commensali che distrattamente orecchiano ciò che il piccolo mostro casalingo va rimettendo a getto continuo. La notizia per l’appunto: “Il vescovo di Roma sostiene che anche internet è un dono di Dio”. Sfugge prontamente ad uno dei commensali: - Ci ha messo del tempo a fare il dono! -. Una battuta o una solenne, pensata riflessione dal sen sfuggita? Piccata la risposta di una dei commensali: – Certo, ha voluto che gli uomini arrivassero da se a quel dono -. Il primo commensale di rimando: – Ma che diavolo di dono è allora! -. Non mi è stato raccontato il prosieguo della conversazione. Mi è venuto da pensare al dio del vecchio testamento, signore degli eserciti, diffusore di cataclismi, pestilenze, piogge di sale e quant’altro atti a seminare morte e distruzione di massa, istigatore di sacrifici umani – uno, per fortuna non andato a buon fine -. E che dire poi della sventura toccata ai progenitori di tutto il genere umano, quell’Adamo e quella Eva puniti, con le conseguenze che sono tuttora sotto gli occhi del mondo, solo per aver voluto assaggiare il frutto di un certo albero spinti com’erano dal desiderio della “conoscenza”? Ripeto, della “conoscenza”. Dubito che quel vecchio, burbero dio avesse a cuore la “conoscenza”. È pur vero che quel dio ha lasciato il campo, almeno nel nuovo testamento, ad una figura più umana e più caritatevole, quell’uomo di Nazareth, ma tant’è che mi è parso esagerato quanto il vescovo di Roma vada incautamente sostenendo. Continua a scrivere il professor Galimberti: Siamo d'accordo nel dire che la scienza non dice cose "vere", ma solo cose "esatte", cioè ottenute dalle premesse (…) che ha anticipato. Su questo convengono anche gli scienziati, così come sono d'accordo nel negare alle loro conclusioni il carattere di verità assolute, perché altrimenti non ci sarebbe progresso scientifico, che si realizza ogni volta che al posto delle premesse precedentemente assunte se ne assumono altre più esplicative. (…)…nella storia la scienza ha smantellato tante credenze religiose, senza che questo abbia in alcun modo modificato il sistema di credenze a cui aderiscono le persone di fede. Dobbiamo allora concludere che la fede religiosa risponde a esigenze che non sono razionali, e tuttavia vengono vissute come irrinunciabili, perché l'uomo è abitato anche da una dimensione irrazionale che può esprimersi solo uscendo dal recinto stretto della razionalità. Che risposte razionali possiamo dare all'esperienza del dolore, che non di rado affligge la nostra esistenza? Oppure all'esperienza dell'amore che si nutre di ogni cosa all'infuori che della razionalità? O alla domanda sul senso della nostra esistenza, che non di rado vaga e tracolla nell'insignificanza? Tutte le religioni raccolgono queste istanze e le proiettano nella trascendenza, che sarà pure un mondo inventato, ma che risponde comunque a quell'esigenza incondizionata propria della natura umana che non si accontenta dell'esistente, ma è in ricerca continua del suo oltrepassamento. E questo vale non solo in ambito religioso, ma anche in ambito scientifico (altrimenti non avremmo progresso), in ambito sociale (per un miglioramento delle condizioni di vita) e in ambito personale (nella ricerca mai interrotta di una migliore realizzazione di sé). E allora i conti li dobbiamo fare non contrapponendo le risposte della scienza e quelle della religione, ma con quell'esigenza incondizionata di trascendenza, (…) …di oltrepassamento della situazione esistente, che è tipica dell'uomo, che proprio per questo si distingue dall'animale. Che poi a questa esigenza non si diano risposte sicure, questo fa parte della condizione tragica dell'uomo, a cui la religione a suo modo cerca di porre rimedio. Ritengo che sarebbe oggigiorno molto più accettabile un messaggio (religioso) diverso che non cercasse commistioni improprie e non realizzasse inaccettabili forzature per il buon senso comune degli uomini d’oggi, che è divenuto tale, buon senso intendo dire, solamente grazie al progresso compiuto dal genere umano, progresso realizzato anche a dispetto o addirittura contro il pensiero ostativo di quella che passa per la ispirata chiesa universale di Roma. E per tornare allo scritto del professor Galimberti: Siamo inoltre d'accordo che non si danno "verità di fede" perché la fede crede proprio perché non sa, mentre la dove si sa, non si crede. Io non credo che due più due faccia quattro perché lo so, mentre, se ho fede, credo che Cristo sia risorto perché non ho nessuna evidenza né dimostrazione, ma solo la fede di coloro che ne hanno dato testimonianza.

mercoledì 22 gennaio 2014

Storiedallitalia. 36 “Il diritto di evadere a prezzo di favore”.



“C’era una volta…”.  È che quell’incipit, che tanto ci ha fatto sognare, non vale nella storia di oggi. La storia non è mia ma l’ha raccontata, come sempre magistralmente, Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” di oggi col titolo “Il diritto di evadere a prezzo di favore”. Poiché quel “c’era una volta” non vale proprio per il bel paese dell’oggi, che continua ad essere il paese di sempre. Ma quel “c’era una volta” confesso che mi piace tanto ed allora, tanto per dare uno smacco al mio “blocco” dello scrivano, mi sono premurato di andare a cercare una lettura di tanto tempo fa che aveva per inizio quel magico “c’era una volta”. E così la magia può, per incantamento, riprodursi anche se il risveglio da essa, dalla magia intendo dire, è dei più amari che si possano immaginare. E così…: C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema, articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori, in genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo di una sua autonomia. Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna, ciò che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità formale, quindi, non escludeva una superiore legalità sostanziale.(…). Il paese aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale, alimentato dalle imposte su ogni attività lecita e finanziava lecitamente tutti coloro che lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Poiché  in quel paese nessuno era disposto non diciamo a fare bancarotta, ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse), la finanza pubblica serviva ad integrare lecitamente in nome del bene comune i disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune si erano distinte per via illecita. La riscossione delle tasse, che in altre epoche e civiltà poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta sostanza di atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte dello Stato si aggiungeva quella di organizzazioni gangsteristiche o mafiose), atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori, pur provando anziché  il sollievo del dovere compiuto, la sensazione sgradevole di una complicità passiva con la cattiva amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività illecite, normalmente esentate da ogni imposta. Di tanto in tanto, quando meno ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In quei casi il sentimento dominante, anziché  di soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che si trattasse di un regolamento di conti di un centro di potere contro un altro centro di potere.(…). E qui mi fermo in quella storia di un certo tempo andato che è iniziata con l’immancabile, magico “c’era una volta”. Avrete certamente riconosciuto la penna arguta di Italo Calvino in quel Suo “Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 15 di marzo 1980. 1980! Un altro mondo. Un altro tempo. Ma la storia dell’oggi non abbisogna, dicevo, del magico “c’era una volta”, poiché quel “paese dei corrotti” sta sempre lì, a farsi rimirare nella sua sempiterna bruttura. E Bruno Tinti ce la racconta poiché è una storia che ha vissuto in prima persona. Quindi… Conducevo un’indagine nei confronti di un medico: il dottor Bisturi, uno importante, molto noto, ottima clientela. Dai primi sommari accertamenti contabili e bancari sembrava che rubasse al Fisco 300.000 euro all’anno: un “nero” da 600.000 euro, niente male. Cominciai la solita routine: estratti conto bancari, sequestro contabilità, fatture, ricevute… E poi tutto ai due marescialli della Gdf che lavoravano in ufficio con me: studiate, incrociate i dati, trovate altri conti bancari se ce ne sono, cercate cassette di sicurezza, insomma guadagnatevi lo stipendio. Il medico aveva nominato un avvocato molto bravo che gli aveva subito spiegato l’abc dell’evasore sottoposto a indagine: stai tranquillo, non fare niente, penso a tutto io. “Quello che dobbiamo fare – gli aveva detto – è ridurre al massimo l’ammontare dell’evasione. Qualcosa resterà, è inevitabile; ti costringeranno a pagarla e dovrai anche pagare le sanzioni ma qui c’è poco da fare. Sul piano penale, niente di che: la tariffa per questo genere di cose varia tra 8 mesi e 5 mesi e 10 giorni; con la condizionale, niente prigione. Quindi stai sereno e lavora molto perché dovrai pagarmi una sontuosa parcella e questa sì che sarà una pena concreta”. L’avvocato aveva, naturalmente, ragione. Questi processi sono come una messa: un rito che gli iniziati conoscono benissimo e che non cambia mai; indagini, processo, condanna a pena modestissima e condizionale. Ma il dottor Bisturi non gli credette. Così un bel giorno i miei due giannizzeri, i marescialli che stavano studiando le carte, arrivarono nel mio ufficio: “Ma lo sai che Bisturi ha tentato di corromperci?”. “Ma che dici?”. “Sì, sì; è arrivato il capitano Paghetta (era quello addetto all’ufficio stipendi, ovviamente amico di tutti i finanzieri) e ci ha detto che, se davamo una mano al dottor Bisturi, questi ce ne sarebbe stato eternamente grato, pensa un po’”. “Ma siete sicuri?”. “Certo, come no”. Richiesta al Gip di custodia cautelare per tentata corruzione e capitano Paghetta arrestato. Luogo di detenzione: una stanza sita tra l’ufficio del Colonnello comandante il Nucleo di Polizia Tributaria e quello del suo aiutante; di fronte, nel corridoio, il bagno: una pensioncina a una stella. Dopo un rapido tira e molla, il capitano confessa: “Un mio amico, il signor Ortofrutta, mi ha chiesto un favore…”. Stessa procedura con Ortofrutta: “Va bene, è vero. Il dottor Bisturi è un mio carissimo amico. Lo vedevo così abbattuto, poverino. Gli ho detto che conoscevo il capitano Paghetta, forse potevo aiutarlo. Mi faceva pena, è tanto una brava persona…”. Così anche il dottor Bisturi finisce nella pensioncina a una stella. E lì confessa anche lui. Il suo avvocato è furibondo: “Ti avevo detto di stare tranquillo. Che ti è venuto in mente!”. E anche a me è venuta questa curiosità. Perché tutto questo casino per 5 mesi e 10 giorni con la condizionale? E gliel’ho chiesto. La risposta è stata istruttiva. “Vede – mi disse il dottor Bisturi – io lo sapevo che rischiavo poco o nulla: un po’ di soldi e una piccola pena. Ma ero angosciato, non capivo più niente. Il fatto è che ho lavorato per 15 anni negli Stati Uniti. E lì l’evasione fiscale è una cosa seria. Intanto ti sbattono in galera per 5, anche 10 anni. Ma l’avvocato me lo aveva detto che questo non sarebbe successo. Però lì c’è la perdita di status sociale. Se ti succede una cosa del genere, per prima cosa ti cacciano dal country club; e poi non vengono più a casa tua per i barbecue di fine settimana. Tua moglie non è più invitata alle gare di torta alla frutta tra le mamme del complesso residenziale dove abiti. E, dopo un po’, anche la clientela ti abbandona. Ecco, io ero terrorizzato per tutto questo”. Capito perché in Italia la lotta all’evasione fiscale è impossibile? Negli Stati Uniti i cittadini e lo Stato sono uniti contro gli evasori: la società li emargina e lo Stato li sanziona. Nel nostro Paese, i cittadini e i delinquenti sono uniti contro lo Stato: si proteggono l’un l’altro e contrastano la repressione e la sanzione. E i rappresentanti dello Stato che li aiutano si guadagnano consenso.

martedì 21 gennaio 2014

Capitalismoedemocrazia. 44 “Nel mondo ci sono 85 uomini d’oro”.



Il cosiddetto “blocco” dello scrivano non si allenta. È come essere stretti in una morsa che impedisca la formulazione di pensieri compiuti. E senza pensieri compiuti resta ben poco da scrivere. Mi sorprendo d’essere sempre di più incline ai discorsi convenzionali, banali, tipo del “che tempo che fa”. È la menomazione propria dovuta al cosiddetto “blocco”. Dello scrivano per l’appunto. È per sfuggire alla menomazione propria del cosiddetto “blocco” che mi premuro di scrivere della diseguaglianza. Ancora della diseguaglianza, direte! Ebbene, è un tema che anche nel recente passato mi ha portato a scribacchiare per lungo e per largo. Ma è un tentativo, questo, per sfuggire alla menomazione del “blocco”. Anche perché, della diseguaglianza tra gli esseri umani come corruttrice e distruttrice della democrazia, ne sono stato sempre convinto. Ho sempre sostenuto che la “crisi” dovrà in qualche modo farci uscire “diversi” dal lungo ed oscuro tunnel nel quale ci ha sprofondati. “Diversi” ed anche un tantino più eguali, nel senso che vengano ad essere restituite le possibilità di ascesa che sono state sottratte a larghissime fasce sociali. La “nuova povertà”, che imprigiona masse sempre più numerose, è la conseguenza diretta della diseguaglianza imposta da quello che è il capitalismo finanziario dominante e disumanizzante. Non mi riesce di attribuire – a causa  di uno sciopero delle firme indetto dal Cdr – a quale giornalista del quotidiano la Repubblica spetti la paternità del dossier che ha per titolo “Nel mondo ci sono 85 uomini d’oro in tasca la ricchezza di metà popolazione”. In esso sta scritto: «Le pari opportunità stanno diventando un miraggio a livello globale», afferma l’Oxfam (che è un’agenzia internazionale per lo sviluppo, l’emergenza e le campagne di opinione contro l’ingiustizia della povertà nel mondo n.d.r.), accusando le élite economiche mondiali di agire sulle classi dirigenti politiche per truccare le regole del gioco economico, erodendo il funzionamento delle istituzioni democratiche. È a tutto ciò che bisogna reagire; ché anche per le diseguaglianze planetarie il discorso non diventi del tipo del “che tempo che fa”. Poiché il rischio grosso è l’assuefazione. È che a questo punto mi va di proporre un pensiero compiuto che ho letto in quello stupendo libro che è “Bartleby, lo scrivano”  di Herman Melville: È così vero, e così terribile, che, sino a un certo punto, il pensiero e lo spettacolo della miseria suscitano le nostre più nobili emozioni, ma in certi casi, oltre un certo punto, non più. Errano coloro che asseriscono che, invariabilmente, questo mutamento è dovuto all’inerente egoismo del cuore umano. Deriva piuttosto da un certo senso di impotenza di fronte a un male eccessivo e radicale. Per un essere sensibile la pietà non di rado è sofferenza. Quando si scopre infine che questa pietà non può risolversi in aiuto efficace, il buon senso impone all’anima di liberarsene. Continua l’anonimo giornalista del quotidiano la Repubblica di oggi, riportando una riflessione di Winnie Byanyima che è la direttrice di Oxfam International: «Viviamo in un mondo in cui chi detiene il potere economico ha ampie opportunità di influenzare i processi politici, rinforzando così un sistema nel quale la ricchezza e il potere sono sempre più concentrati nelle mani di pochi, mentre il resto dei cittadini del mondo si spartisce le briciole», (…). «Un sistema che si perpetua, perché gli individui più ricchi hanno accesso a migliori opportunità educative, sanitarie e lavorative, regole fiscali più vantaggiose, e possono influenzare le decisioni politiche in modo che questi vantaggi siano trasmessi ai loro figli. Se non combattiamo la disuguaglianza, non solo non potremo sperare di vincere la lotta contro la povertà estrema, ma neanche di costruire società basate sul concetto di pari opportunità, in favore di un mondo dove vige la regola dell’asso pigliatutto». (…). Una denuncia spaventosa che non mi era ancora capitato di leggere con tanta chiarezza e che avvalora la mia convinzione che la “crisi” non sarà mai superata se non saranno rimosse le storture introdotte da un capitalismo senza sensibilità e “doveri sociali”. A questo punto ritengo necessario che leggiate il resto del dossier dell’anonimo giornalista: Immaginate una bilancia: su un piatto ci sono ottantacinque persone, sull’altro ce ne sono tre miliardi e mezzo, ma l’ago è in perfetto equilibrio. È la metafora con cui l’Oxfam, una della più importanti associazioni di beneficenza internazionali, misura il gap ricchi-poveri sul nostro pianeta: 85 miliardari possiedono 1.200 miliardi di euro, l’equivalente di quanto detenuto da metà della popolazione terrestre. (…). Non è la prima volta che circolano cifre simili: la ragione fondatrice del cosiddetto movimento 99 per cento, quello di “Occupy Wall Street”, era appunto l’idea che l’1 per cento della popolazione mondiale fosse più ricco di tutti gli altri. “Plutocrats”, un libro- inchiesta della giornalista Cinthya Freeland uscito lo scorso anno, andava oltre, sostenendo che il vero oltraggio non è la ricchezza dell’1 per cento contro il 99 per cento, bensì quella dello 0,1 per cento, la crema della crema, il club dei miliardari. Proprio su questi si concentra lo studio di Oxfam: gente come il messicano Carlos Slim, il fondatore della Microsoft Bill Gates, Larry Page di Google e Warren Buffett. O come Michele Ferrero, Leonardo Del Vecchio e Miuccia Prada, i tre italiani presenti tra gli 85. In Africa, nota il rapporto, le grandi multinazionali sfruttano la propria influenza per ridurre la pressione fiscale, riducendo le risorse che i governi locali potrebbero usare per combattere la povertà. Lo stesso viene fatto dai giganti della rivoluzione digitale, che sfruttano scappatoie e sotterfugi per pagare zero o quasi tasse sui loro immensi profitti. In 29 su 30 paesi sviluppati o in via di sviluppo esaminati dall’indagine la tassazione per i ricchi non fa che diminuire. E l’1 per cento dei più ricchi delle terra detiene complessivamente un patrimonio di 180 trilioni di dollari. (…).

domenica 5 gennaio 2014

Cosecosì. 66 Evasione e pioggia a catinelle.



Oggi “non mi cale” di scrivere. “Cale” che è voce del verbo “calere”. Ché, nelle sue forme più contorte, del verbo “calere” intendo dire, fece scrivere in una antica novella “Madonna, siccome poco v'è caluto di costui, che tanto mostravate d'amare, così vi carrebbe vie meno di me”. Magistrali coniugazioni del verbo “calere”. È che oggi “piove a catinelle”. Che è cosa ben diversa da quel “sole a catinelle” di quel guitto che è tanto di moda. E che ha fatto godere platee numerosissime. Beate loro, le platee intendo dire. Anzi “beote”, che non è per nulla un refuso del mio inesperto digitare, ma che intendo dire “beote” per l’appunto, che per il dizionario Sabatini Coletti “beota” sta per “1 Della Beozia, in Grecia 2 Da stupido; imbambolato: faccia b. • s.m. e f. 1 Nativo, abitante della Beozia 2 fig. Persona tarda d'ingegno, idiota SIN scemo: sorriso da b. • sec. XVII”. Risale per l’appunto al secolo diciassettesimo. È che il cielo sembra essersi appesantito nel grigiore di questa giornata di “pioggia a catinelle”. L’aria è ferma. Non un refolo di essa. Ed il cielo plumbeo sembra quasi volersi schiacciare, precipitare, sul mare immoto. È che oggi è il 5 di gennaio appena, ed avremo ancora ben 360 giorni da scorrere e da contare. Con tutto quel che ne segue. Ma il mio “non mi cale” è peraltro legato alla opprimente quotidianità che nelle sue cronache non concede uno spiraglio che sia di cambiamento. Si dirà, è “lo spirito del tempo” – nel senso storico e non atmosferico – quello che i germanici amano definire “zeitgeist”. Ma questo stramaledetto “spirito del tempo” è sì da lungo tempo oramai che ingombra ed affligge i giorni che ci sono dati da vivere. Poiché lo scrivere trova incoraggiamenti e spunti dalla vita che pulsa – quando pulsa – attorno. E se essa, la vita intendo dire, è come questa giornata grigia, immota, il cielo basso e pesante, il mare che sembra d’avere scordato i suoi moti naturali di flusso e di riflusso, eterni, e tutto sembra in uno stato d’attesa che fa pure paura, come in una sospensione che non ha nulla di naturale, ben pochi stimoli ne vengono affinché si possa vergare il foglio bianco – in verità si vergava in un tempo andato – per parlare della vita e dei suoi accidenti. Ed in una giornata di “pioggia a catinelle” nulla rimane se non l’amata lettura. Ché con essa, la lettura intendo dire, non hai da inventarti di storie, non hai da farti venire idee di quelle che gli altri – ma speri invano – possano trovare intelligenti e stimolanti. – Quant’è stato stimolante quel tuo post! – per scoprire che con quel post stramaledetto non eri riuscito a rendere palese quel che ti eri ficcato in mente di dire, di trasmettere l’ideuzza che tanto ti era piaciuta, e scopri invece che con quello stramaledetto post avevi fatto intendere tutto il contrario dell’ideuzza tua. Ma così va il mondo. E se oggi “non mi cale” di scrivere leggo, anzi ri-leggo il ritaglio dell’altro ieri da “il Fatto Quotidiano” – “Evasioni, storie di ladri: dall’idraulico ai politici” - di Bruno Tinti. Del quale, Bruno Tinti intendo dire, per non cadere in ulteriori equivoci, la redazione del quotidiano di cui sopra ha offerto questa breve nota biografica: “Bruno Tinti, l’autore dell’articolo, è stato magistrato dal 1967 al 2008. Tra il 1992 e il 2000 è stato presidente di tre commissioni ministeriali per l’elaborazione di una nuova legge penale tributaria per sostituire la 516/82; il Parlamento italiano approverà la nuova legge con modifiche tali da snaturarne completamente l’impianto, sì da renderla del tutto inefficiente”. E così, pur non avendo oggi voglia di scrivere alcunché, per via della cosiddetta giornata di “pioggia a catinelle”, qualche cosina sono riuscito a scriverla. Ma urge che io mi fermi, altrimenti il cosiddetto “blocco” di un inesperto scrivano andrebbe a farsi benedire. Non mi resta che consigliarvi la lettura del pezzo di Bruno Tinti che di seguito trascrivo in parte. Allora scrive Bruno tinti… A un certo punto ho capito che l’evasione fiscale era un crimine grave: 150 miliardi di euro in media all’anno non li rubano nemmeno tutte le rapine, i furti e le truffe messi insieme; quanto alle corruzioni, senza evasione fiscale non si potrebbero fare perché non ci sarebbero i tesoretti riservati. Però quasi nessuno dei pm miei colleghi aveva una gran voglia di occuparsene. Così ne radunai due o tre che erano interessati e cominciammo a studiare; e poi a lavorare. Eravamo a metà degli anni 80. Nel mondo dei ciechi… sapete come si dice. Finì che, a furia di scrivere articoli e libri sul fatto che la legge penale-tributaria era tutta sbagliata, mi nominarono presidente di una commissione tecnica incaricata di scriverne una nuova. Io non ero più tanto giovane nemmeno allora; ma stupido e ingenuo sì. Così ci credetti e cominciai a lavorare. Ci impiegammo sei o sette anni (i governi cadevano e risorgevano come funghi e ogni volta si doveva ricominciare da capo) ma, alla fine, venne alla luce una legge coi fiocchi. Era anche ovvio: in commissione eravamo magistrati, funzionari delle imposte, Gdf, avvocati, tutti del mestiere; se non lo sapevamo noi quello che si doveva fare per contrastare l’evasione… Come metodo di lavoro adottammo le storie di vita vissuta; ce ne erano a migliaia ma, stringi stringi, appartenevano tutte a tre categorie: il “nero”, le fatture false e l’abuso del diritto (o elusione fiscale). Poi gli avvocati insistettero per considerarne un’altra: la bugia pura e semplice. E da lì cominciarono i guai. (…). Io raccontai la storia dell’idraulico. Allora, c’è un idraulico che viene incaricato di rifare un bagno nella casa di un pensionato. Presenta un preventivo, lo discute con il suo cliente e alla fine si accordano: 3.000 euro. A lavoro fatto arriva il momento di pagare. “Con fattura o senza?”, dice l’idraulico. “Che differenza fa – dice il pensionato – abbiamo stabilito 3.000 euro”. “Sì, ma con fattura c’è l’Iva, 600 euro. Capisci, debbo annotare la fattura in contabilità e a questo punto l’Iva va versata”. “Ma così io debbo pagare 3.600 euro!”. “Eh, che ci posso fare. Certo, se mi dai contanti, io non ti faccio la fattura, non devo versare l’Iva, 3.000 euro avevamo detto e 3.000 sono”. Non gli dice che non pagherà nemmeno l’Irpef, hai visto mai che il pensionato gli chieda uno sconto. “Niente fattura – dice il pensionato – Passa domani per i primi mille euro in contanti”. Rapido calcolo sull’ammontare globale dell’evasione: 600 euro di Iva e 900 di Irpef (ipotizzando un’aliquota del 30%). L’idraulico ha fregato allo Stato 1.500 euro. Come lui, milioni di artigiani, commercianti, professionisti, piccoli e medi imprenditori, ogni giorno evadono con lo stesso elementare sistema; alla fine dell’anno questo popolo dell’Iva sottrae allo Stato (secondo Corte dei Conti, Eurispes, Agenzia delle Entrate) dai 100 ai 120 miliardi di euro. In effetti è un fenomeno preoccupante. (…). Insomma, non basta creare una contabilità falsa omettendo fatture, ricevute, parcelle e dunque omettendo l’annotazione di quanto percepito: occorre qualcosa in più. Cosa, non si sa. Che resta da fare al professionista che, dopo il quinto cliente, comincia a farsi pagare in contanti e non emette fattura? Mah. Da allora gli idraulici evadono in pace. E anche il resto del popolo dell’Iva. Se li beccano, solo “dichiarazione infedele” è. Niente custodia cautelare, niente intercettazioni, pena piccolina (la tariffa è 5 mesi e 10 giorni con la condizionale). Pensate che un ladruncolo che si frega un navigatore da una macchina si prende come minimo un anno. Naturalmente ci restammo tutti un po’ male (ma non gli avvocati). Quello che mi dette da pensare per molti mesi fu che questo bel regalo agli evasori non lo avevano fatto Berlusconi&Co. Il decreto legislativo 74/2000 venne emanato da un governo presieduto da Massimo D’Alema, con ministro delle Finanze Vincenzo Visco e ministro della Giustizia Oliviero Diliberto. Da allora cominciai a essere meno stupido.

giovedì 2 gennaio 2014

Storiedallitalia. 35 Severi moniti.



“Anch’io ho commesso un errore” avrebbe detto l’indimenticato Cesare Polacco in uno dei tanti spot del “Carosello” d’un tempo. In un’Italia forse un tantino più ingenua ma mai e poi mai innocente del tutto. Rubo a quel mitico “ispettore Rock” la battuta. È che lui avrebbe poi aggiunto: “Non ho mai usato la brillantina Linetti”, mostrando, con una lieve flessione del capo, il suo cranio glabro, nel senso che più liscio e levigato non si può. Il mio errore è stato di ben altra natura, però. È stato compiuto, l’errore intendo dire, nel post del 13 di dicembre che ha per titolo “Quelli che non se ne può più”, della serie “Storiedallitalia”. È che avevo chiuso quel post con un “Presto che arriva il natale!” all’indirizzo del movimento pseudo-rivoluzionario dei cosiddetti “forconi” che di lì a poco si sarebbe spento in vista della rinnovata santa natalità. Mi sbagliavo. E di grosso. È che ho sperato sino in fondo che il carattere proprio degli abitatori del bel paese, di non avere memoria alcuna, non mi costringesse ad ammettere pur anco io di avere “commesso un errore”. È che, trapassato senza rimpianti il vecchio anno ed accolto con ingiustificati entusiasmi il novello virgulto, mi è giunta la eco di una cronaca a firma del noto Michele Serra – “Arrivano i Cobas dei tatuatori” – pubblicata sull’ultimo numero del settimanale l’Espresso. La cronaca che ne fa l’illustre opinionista mi ha colto di sorpresa avendo considerato, erroneamente, quel moto pseudo-rivoluzionario come estinto, o meglio, ancora alle prese con i festeggiamenti inneggianti al “sole invitto” che torna prepotente a risplendere nel cielo terso dopo l’ansioso superamento del recente “solstizio d’inverno”. Donde “anch’io ho commesso un errore”. I fatti narrati nella cronaca sembrano come provenire da enormi distanze astrali. Scrive il nostro: Giorgio Napolitano, con un gesto irrituale, riceve al Quirinale una delegazione del movimento dei Forconi, formata da un camionista con sei figli rimasto senza lavoro e dal padroncino che lo ha appena licenziato. I due, nel corso dell’animata discussione nel Salottino Beige,  vengono alle mani e si rotolano avvinghiati sul pavimento, tra insulti atroci e urla di dolore. In attesa che i corazzieri riescano a separarli, Napolitano rivolge alla delegazione «il più sentito ma anche vigile sollecito affinché le ragioni del dialogo prevalgano, mettendo da parte le inaccettabili inimicizie che tanto danno arrecano al corretto dipanarsi della dialettica tra le parti sociali». E sì che l’inclinazione del buon, arzillo vegliardo dall’alto dell’irto colle ad ammannire moniti ad ogni pie’ sospinto penso non sorprenda più nessuno nell’intera galassia e pur oltre, ma da che mondo è mondo ci vuole sempre un po’ di misura. Niente. E così vengo ad apprendere da quella cronaca quasi marziana che Un ramo oltranzista dei Forconi genera le Roncole, che in una manifestazione di protesta disboscano Villa Borghese e con la legna ricavata formano una gigantesca pira attorno alle mura del Quirinale appiccando il fuoco. In un comunicato ufficiale, ancora leggibile nonostante sia parzialmente annerito dalle fiamme, Napolitano «con pacatezza ma anche con fermezza invita le parti sociali a non cedere a facili scorciatoie e a perseguire con determinazione quella ricerca del dialogo che, unita alla necessaria analisi delle concrete possibilità di intervento economico e legislativo da parte del governo e delle sue diverse componenti, è in grado di individuare quelle soluzioni che possono avviare un processo di distensione». Avevo a bella posta rinunziato all’ultimo messaggio di capodanno del vegliardo dell’irto colle. È che, nell’occasione ultima, mi era tornato alla mente l’alto monito suo al momento del trapasso del precedente vegliardo anno – il 2012, in attesa del pargolo “tredicino” -, monito che, con inusitata veemenza e convinzione, rivelava al popolo trepidante l’esistenza di “una crisi sociale” insospettata e della quale sino ad allora sembrava non fosse giunta notizia sull’irto colle. Donde, nell’ultima occasione, dicevo, mi è sembrato sensato, per la mia personale salute mentale, sfuggire al monito al momento del trapasso del 2013. E così, sempre dalla cronaca che ne ha fatto Michele Serra della permanente esistenza di quel movimento pseudo-rivoluzionario detto dei “forconi” apprendo: Il movimento compie il suo definitivo salto di qualità. Tra le sue componenti prendono il sopravvento i costumisti, i coristi e le comparse degli enti lirici (circa 300 mila, tutti in attesa del rinnovo del contratto) che saccheggiano i magazzini dei loro teatri e allestiscono un’imponente armata in costume. Una moltitudine impressionante di armigeri egizi (Aida), guardie pontificie (Tosca), sentinelle cinesi (Turandot), banditi messicani (Fanciulla del West) e lombardi alla prima crociata marciano su Roma e stringono d’assedio il Quirinale. Incurante del nugolo di frecce che tempesta i suoi appartamenti e dei tremendi colpi d’ariete che scuotono le mura, il Capo dello Stato si affaccia alla finestra e rivolge agli assedianti «un severo monito affinché la legislatura possa seguire il suo percorso naturale, senza quelle deplorevoli forzature che impedirebbero ai diversi attori politici e alle parti sociali di stabilire i provvedimenti necessari e le tempistiche opportune, per affrontare con la dovuta serenità le difficili prove che attendono la nostra comunità nazionale». Stremati dal discorso, i manifestanti tolgono l‘assedio e fanno ritorno alle loro case. È la fine del movimento. E “stremato” e basito resto anch’io che pur ho disertato d’ascoltare il messaggio di fine anno tenendo molto alla mia incolumità mentale. Mi domando: quando ritorneranno “quelli che non se ne può più”? Buon Anno ancora.

mercoledì 1 gennaio 2014

Cosecosì. 65 Almanacco del 2014*.



Gennaio. I mendicanti vendono rose rosse. Frettolosi viandanti li schivano. Se fosse una scena già scritta sarebbe Brecht, Testori. C'è un senso di sconfitta negli uomini e nei fiori. Non so come si annoveri (forse tra i nuovi poveri?) quello che twitta "Ciao, sono in coda alla Caritas". Nella stagione arida (come spiega la Fao) quando gira la ruota rischi la pancia vuota.
Febbraio. Fuori nevica. Sciatori di Pechino salgono in teleferica sul dorso del Cervino. Dicendo cin ciun cen acquistano in contanti tutti e quattro i versanti. Non sono molto zen. Guardano indecifrabili quel diedro bellissimo ma raggiungibilissimo da strade carrozzabili. Tutto sarà asfaltato. Cominciano domani. Nemmeno i valdostani ci avevano pensato.
Marzo. La crisi offende anche i ceti protetti. Manager con le agende vuote, come le aziende che hanno appena svuotato: logica di mercato. Compro-oro costretti a comprare l'argento e giù, per slittamento, ecco che i comprargento vanno a rubare il rame. Moda quasi alla fame. Gli stilisti rammendano gli scampoli, purtroppo. Sperando che si vendano firmano ogni rattoppo.
Aprile. Dopo Stàmina nuove cure salvifiche! Senza alcuna disamina e inutili notifiche degli scienziati (casta!) per promuoverle basta che piacciano alla gente. C'è l'oncorepellente estratto dalle vongole i fanghi di Plutone l'ipnosi con le bombole le flebo di carbone la gomma di cammella che cancella ogni male e il metodo Di Bella rifatto in digitale.
Maggio. È maggio e Casaleggio aggiorna i suoi pronostici. Il web, sotto il maneggio dei regimi più ostici sarà perseguitato fino al duemilaeventi. Ma poi, transustanziato in divine sementi feconderà il pianeta: non questo, quello nuovo che predisse il profeta fatto a forma di uovo. Dai siti neosinfonici vulcani col pennacchio eruttano sintonici il suono del pernacchio.
Giugno. Napolitano sgrida chi alza la voce chi alle riforme nuoce chi veste in modo strano chi beve il cappuccino facendo vrush. Chi tiene i piedi sul cuscino chi non saluta bene chi gioca coi fiammiferi chi mangia troppo agliato chi accende i caloriferi nei giorni che è vietato chi si presenta senza i pantaloni in piega e questa sua indecenza nemmeno te la spiega.
Luglio. Di nuovo in piazza protestano i forconi. Ma quante le scissioni! Se ne va la ramazza. Si sfilano i picconi. I rocchetti e i ditali fanno i blocchi stradali ma i camion con rimorchio li spianano. Spettrali la trebbiatrice e il torchio sfilano nella notte. La ruspa e l'autobotte chiedono meste l'obolo. Sfilano per le vie mille consorterie. Però non fanno un popolo.
Agosto. Ferie liquide: lo spiegano i sociologi. Due giorni tra le rapide pagaiando fortissimo o un week-end con gli enologi nel maso isolatissimo. Una nottata a Rimini ballando al Carmencita o anche una bella gita sulle strade del vimini. A Ibiza o Formentera per una sola sera c'è una mono-movida per chi tira la cinghia. Mai uno che decida di non fare una minchia.
Settembre. I democratici che han fatto punto e a capo danno consigli pratici a Renzi, il loro capo. Le tappe: il segretario diventa commissario dell'Unione Mondiale. Poi presidente aggiunto dell'Internazionale (nuova sede a Sagunto). Margravio. Gran Visir. Sire dei Turcomanni. Principe del Pamir. Sindaco di Parigi. Infine, a ottantun anni andrà a Palazzo Chigi.
Ottobre. Grillo calcola il costo di ogni briciola che cade dalla tavola. Son quindici centesimi al dì, ma se non lesini è un attimo che salgono a sedici. Che valgono almeno ventisette delle vecchie lirette. La colpa è di Bruxél (salgono i decibél) insieme al pidiél e al pidimenoél troia di tua sorél! Ridurrebbe gli sprechi calcolarli in copechi.
Novembre. Che sorpresa! la legge elettorale! Si raggiunge un'intesa sull'urna romboidale. Il resto è a discrezione del singolo elettore: data dell'elezione scheda di che colore in quale seggio, al mare con l'uninominale o ai monti, dove pare valga il proporzionale. Puoi votare col vecchio sistema manuale o dirlo in un orecchio al presidente. Vale.
Dicembre. C'è un segnale di ripresa industriale. Si vendono più corde per impiccarsi. Sorde alle voci malevole le volontà politiche rendono più scorrevole il nodo della crisi. Poche coscienze eretiche affiggono gli avvisi "chiuso per sempre". Vanno dove nemmeno sanno come Cristo sull'asino prima che glieli brasino con la storiella greve della ripresa a breve.

*L’almanacco è tratto, integralmente, da “Duemilaquattordici” di Michele Serra, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 31 di dicembre 2013.

Lascio alla Vostra pazienza, alla Vostra comprensione ed alla Vostra riflessione di navigatori della rete, nel primo giorno di gennaio dell’anno 2014, un pensiero di Barbara Spinelli tratto da “I sonnambuli dell’Europa” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 31 di dicembre 2013: (…). L’accenno ai baratri, sempre miracolosamente sventati, è divenuto un trucco di governanti impotenti, inetti, che usano il linguaggio apocalittico e le paure dei popoli immiseriti «al solo scopo di restare titolari della gestione della crisi». Lo dice l’ultimo rapporto del Censis: non è «con continue chiamate all’affanno», né con la «coazione alla stabilità», che si ricostruirà una classe dirigente. Impossibile ridivenire padroni del proprio destino se gli Stati fingono sovranità già perdute e si consolano facilmente, come in Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». (…). Ora siamo (…) in piena discrepanza tra parole e azioni, e tutti partecipano alla regressione: compresi gli sfiduciati, i delusi pronti a disfarsi di un’Europa che non è all’altezza della crisi. È diffuso l’anelito a sovranità comunque inesistenti, e il sonnambulismo riappare con il suo corteo di irresponsabilità, ignoranza, patriottismi chiamati difensivi. (…). Ecco la modernità brutale del 1914, scrive Clark. Anche i popoli — spogliati di diritti, disinformati — barcollano sperduti fantasticando recinti nazionali eretti contro l’economia-mondo. Credono di contestare i governi. Sono in realtà complici, quando non esigono un’altra Europa: forte e solidale anziché serva dei mercati. Il pericolo, tutti lo sentono per finta. Dice (…) Broch: «Solo chi ha uno scopo teme il pericolo, perché teme per lo scopo». Da anni siamo abituati a dire che l’Europa federale ha perso senso, col finire delle guerre tra europei. Ne siamo sicuri? La povertà patita da tanti paesi dell’Unione sveglia risentimenti bellicosi. E la mondializzazione non garantisce pace, come ammoniva già nel 1910 Norman Angell, nel libro La grande illusione. L’internazionalizzazione dell’economia rendeva «futili le guerre territoriali», questo sì. Ma intanto ciascuno correva al riarmo. (…). La forza fisica che Angell giudicava futile, e però letale, è quella dello Stato-nazione che s’illude di fare da sé, piccolo o grande che sia. La lezione del ‘14 non è stata ancora imparata.