Tratto da “Tutte le insidie dell'ora di religione” di Claudia de Lillo – in arte
Elasti – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 17 di
dicembre dell’anno 2011: Sono nata in una famiglia di atei. Per metà,
per giunta, ebrei. E anche un po' comunisti. Sono cresciuta con due genitori
separati e poi divorziati, negli anni '70, quando ancora, quelli come me, erano
considerati bambini molto sfortunati. Lo so, ci sono infanzie peggiori e della
mia non mi lamento. Tuttavia quando, a sei anni, approdai in prima elementare e
conobbi la mia maestra, che sarebbe stata il mio faro educativo e affettivo,
capii che, prima o poi, avrei dovuto schierarmi ed ebbi paura di non esserne
capace. Il mio faro era una fervente cattolica. La mattina, durante la prima
mezz'ora di lezione, nonostante i ripetuti reclami dei miei genitori,
recitavamo, più che preghiere, un'intera messa cantata. La mia vita scolastica
era intrisa di religiosità, quella domestica, ai miei occhi infantili e
conformisti, di dissolutezza. Arrivarono la terza elementare e l'ambita età
della Prima Comunione, sommo traguardo, ci diceva la maestra in visibilio.
"Voglio iscrivermi a catechismo", annunciai a casa. Fu un brutto
colpo per mia madre che si autodenunciò durante una riunione della sezione
Antonio Gramsci del Pci e si domandò dove aveva sbagliato. Per qualche mese
frequentai catechismo e parrocchia e affrontai a testa alta lo sguardo contrito
e l'autocoscienza di mia madre con i compagni di sezione. A pochi giorni dalla
Comunione, mi guardai dentro. Decisi che la mia non era vera fede, anche se il
vestito bianco e la canzone "Abramo non partire, non lasciare la tua
terra" non erano niente male. "Con il catechismo ho chiuso. La
Comunione non la farò", comunicai lapidaria. Alla Gramsci diedero in mio
onore una festa danzante, la maestra non si capacitò della mia defezione e io
sentii sulle mie spalle il peso di una scelta e il sollievo della
consapevolezza. Oggi la scuola pubblica gioca d'anticipo e, alla materna,
dall'età di tre anni, ai bambini viene impartito l'insegnamento della religione
cattolica. All'iscrizione del primogenito alla classe verde dell'asilo, chiedemmo
l'esonero, perché tre anni sono un'età acerba per molte cose, inclusa l'ora di
religione. Scoprimmo con sgomento di essere delle mosche bianche. "Mamma,
io, quando gli altri fanno religione, sono da solo, mi annoio e mi viene
tristezza. Voglio farla pure io", disse lui l'anno successivo. Poiché le
battaglie ideologiche dei genitori non si possono condurre a spese della
serenità dei figli, a malincuore, lo accontentammo. Da allora lui segue, con
entusiasmo e passione, le lezioni di religione a scuola. Ora che è in terza
elementare, però, al catechismo non si è voluto iscrivere. Mio figlio di mezzo,
dopo l'esperienza del maggiore, non è mai stato esonerato. Adesso ha cinque
anni e l'altro giorno, in bagno, luogo in cui apre il suo cuore, ha detto che
lui era stufo di frequentare le lezioni di religione. "Come mai?".
"Perché a me le storie che racconta quella maestra non mi piacciono e non
mi interessano. E poi mi avevate detto che, se volevo, potevo esonerarmi".
"Sei sicuro? Ci hai pensato bene?". "Sì". "Lo sai che,
una volta che hai deciso, non puoi cambiare di nuovo idea?". "Lo
so". "Allora, se sei convinto, chiederemo l'esonero".
"...". "Non vuoi pensarci ancora qualche giorno?".
"No. E poi...". "Poi?". "Poi perché mi fai tutte
queste domande? Non sono nemmeno battezzato. Lo so che non ci credete neppure
voi. Non c'è bisogno di parlarne tanto". Forse ha ragione lui, non c'è
bisogno di parlarne tanto, perché le cose si aggiustano da sole, perché i
bambini hanno più risorse di una scuola senza carta igienica ma con il maestro
di religione. Eppure io mi ricordo quel senso triste di non appartenenza, di
forzata estraneità al branco. Ne ho avuto terrore quando l'ho intravisto nello
sguardo del mio primo figlio e invidio l'infantile, implacabile sicumera del mio
secondo. E mi chiedo se tutto questo sia proprio necessario.
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