"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 30 aprile 2017

Scriptamanent. 93 “Il Paese dei penultimi”.



Da “Il Paese dei penultimi” di Ilvo Diamanti, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 30 di aprile dell’anno 2012: (…). La fine del berlusconismo ha, (…), decretato anche la fine della grande illusione. Che tutti gli italiani potessero diventare come Lui. Il Cavaliere. Con molta fortuna e altrettanta spregiudicatezza, un po' di senso cinico al posto di quello civico. Gli italiani: un popolo di partite Iva e di imprenditori. Di ceti medi pronti a salire ancora nella scala sociale. Il "sogno italiano", interpretato per quasi un ventennio da Berlusconi, sembra finito in modo brusco. Perfino violento. Gli italiani che si sentono "ceto medio" sono, infatti, calati dal 60%, nel 2006, al 44% di oggi. Mentre il "mito dell'imprenditore" appare in rapido e profondo declino. Solo 2 italiani su dieci, per sé e i propri figli, ambiscono a un lavoro in proprio. Nel 2004 erano il 31%. Ancor meno, il 16%, sperano in una carriera da liberi professionisti. Un anno fa erano quasi il 23%. Parallelamente, ha recuperato un grande appeal l'impiego pubblico. In testa alle aspirazioni del 34% degli italiani: 5 punti in più dell'anno scorso. È il mito del posto fisso che si fa largo e resiste. Nonostante che, nell'ultimo anno, solo il 30% delle persone dichiarino di aver lavorato "regolarmente tutti i mesi". O forse proprio per questo. Cioè: perché in un mondo instabile, la flessibilità, se è priva di prospettive e di tutela, sconfina nella precarietà. Alimenta incertezza. Per questo il 55% degli italiani si accontenterebbe di un lavoro di qualsiasi tipo, ma stabile. Non importa che piaccia, a condizione che sia sicuro. Insieme al berlusconismo pare svanito anche il suo complemento psicologico: l'ottimismo. Fino a un anno fa, era l'ideologia del tempo. Un obbligo e un imperativo "nazionale". Dirsi pessimisti significava dichiararsi anti-italiani. E, quindi, (almeno un po') comunisti. (…). Questo Paese, più che perduto, appare, dunque, popolato di "perdenti". Gli "ultimi", coloro che si sentono di posizione sociale bassa. I più colpiti dalla crisi. Insieme ai "penultimi", quelli che si dichiarano di classe medio-bassa. Il che significa, soprattutto, i lavoratori dipendenti privati, i pensionati, le casalinghe. La popolazione del Mezzogiorno. (…). Un Paese smarrito. Dove la maggioranza delle persone ritiene troppo rischioso investire nel futuro. Dove la fiducia negli altri è, ormai, una merce rara. Espressa da due persone su dieci. Dove, di conseguenza, ci si sente stranieri, perché il "prossimo" si è eclissato e gli "altri" ci appaiono minacciosi. Stranieri fra stranieri. Da ciò la differenza sostanziale dalle altre crisi che abbiamo affrontato, nel dopoguerra. Ieri - e ancor più ieri l'altro - credevamo in noi stessi e investivamo nelle virtù, ma anche nei vizi, del nostro carattere nazionale. Il lavoro, la famiglia, il risparmio. L'arte di arrangiarsi. Eravamo sicuri che ce l'avremmo fatta, comunque.

sabato 29 aprile 2017

Scriptamanent. 92 “La colpa del male”.


Da “La colpa del male” di Adriano Sofri, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 29 di aprile dell'anno 2013: Nell’incattivimento di una società, c’è almeno un concorso di colpa. Nella gara accanita all’irresponsabilità, siamo a questo punto: che ci si è rassegnati a non confidare più nella giustizia, e si ripiega sulla vendetta. “Un gesto eclatante”: non per trovare un lavoro migliore, o semplicemente un lavoro, non per far riconoscere le proprie ragioni, non per divincolarsi da debiti e umiliazioni. Per finirla col botto. Per vendicarsi. E chi agisce per vendicarsi, cerca negli altri almeno un posticino in cui farli sentire oscuramente vendicati. Arriva un giorno in cui la frase così affabilmente consueta a tante donne e uomini perbene, che a Montecitorio bisognerebbe metterci una bomba, ti fa mordere la lingua. “I politici” sono diventati la spiegazione della rovina e del malumore di un popolo e dei suoi membri solitari e perduti. La rovina succede, e può travolgere ogni riparo. Disgrazia si aggiunge a disgrazia, finché non si abbia più forze e speranze per provare a uscirne. (…). La rovina si compie prima di tutto nel linguaggio. La rete non lo suscita, lo rivela, e lo favoreggia. Nella guerra spietata che i ricchi conducono contro i poveri, gli impoveriti scelgono il bersaglio dei “politici”, cioè degli arricchiti. Ridistribuire la ricchezza sarebbe un atto di giustizia. Far fuori “i politici” è una vendetta. Non riduce lo stridor di denti, ma lo premia. Poi, come succede, si spara a due carabinieri da 1.400 euro al mese. (…). Compagni di scuola, avventori del grande magazzino, passeggeri del proprio treno: un gesto “eclatante”, attraverso cui lasciare un segno del proprio misconosciuto passaggio. (…).


venerdì 28 aprile 2017

Paginatre. 83 “80 anni da Antonio Gramsci”.



27 di aprile dell’anno 1937, ore 4,40: muore a Roma, nella clinica “Quisisana”, Antonio Gramsci. Da “La scoperta della libertà” di Maurizio Viroli, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di aprile 2017: (…). Nel 1975 esce (…) per Einaudi, sotto l’egida dell’Istituto Gramsci, la prima edizione critica dei Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana. Su quei quattro volumi furono promosse molte iniziative e si aprì un importante dibattito culturale e politico sul concetto di egemonia, sul rapporto fra democrazia e socialismo, sul ruolo e la natura del partito, sulla Rivoluzione d’Ottobre, sugli intellettuali, sulla storia d’Italia, sulla questione meridionale. A Gramsci va riconosciuto il merito storico di aver avviato nel mondo comunista la consapevolezza che non era possibile in Italia seguire la via della Rivoluzione d’Ottobre. Lo ha fatto con l’unico argomento che poteva essere efficacie, vale a dire la considerazione realistica delle condizioni storiche. Sarebbe sbagliato sostenere che Gramsci aveva capito che la trasformazione socialista della società deve avvenire soltanto nel pieno rispetto delle libertà civili e delle regole democratiche. Ma una volta dichiarato che la via sovietica non poteva essere percorsa, che il proletariato “può e deve essere dirigente [vale a dire ottenere il consenso degli altri gruppi sociali] già prima di conquistare il potere governativo”, e che deve continuare ad essere dirigente anche dopo la conquista del potere, restava aperta, di fatto, soltanto la via democratica. L’intuizione più felice di Gramsci è a mio giudizio l’idea della “riforma intellettuale e morale”. In un passo delle ‘Noterelle sul Machiavelli’, la descrive come “elevamento civile degli strati depressi della società”, simile, per la sua capacità di coinvolgere ampi strati delle classi subalterne, alla Riforma protestante e all’illuminismo, ma capace di conservare e rielaborare “i caratteri di classicità della cultura greca e del Rinascimento italiano”. E giustamente sottolinea che la riforma intellettuale e morale “non può non essere legata a un programma di riforma economica , anzi, il programma di riforma economica è appunto il modo concreto con cui si presenta ogni riforma intellettuale e morale”. “Banditore” della riforma intellettuale morale doveva essere per Gramsci, il “moderno Principe”, il partito comunista, che diventa, nella sua visione, non più un’avanguardia volta esclusivamente al lavoro di agitazione e organizzazione in vista della conquista del potere politico, ma un partito educatore e formatore di coscienze, una vera e propria scuola dove gli elementi migliori delle classi subalterne imparano a dirigere il complesso della vita sociale alla luce di ideali di emancipazione. Il limite dell’idea gramsciana della riforma intellettuale e morale non non risiede nella sua concezione del partito politico come educatore e formatore di coscienze, ma nella sua convinzione che il partito della classe operaia debba essere il punto di riferimento del giudizio morale e politico: “il moderno Principe sviluppandosi sconvolge tutto il sistema dei rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso e scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il moderno principe stesso e serve a incremenatre il suo potere o a contrastarlo”. Il Principe, conclude Gramsci, “prende il posto, nelle coscienze, della divinità o dell’imperativo categorico” (Quaderni del carcere, vol. III, p.1561). 

giovedì 27 aprile 2017

Sfogliature. 77 “La politica al tempo dell’estrema destra economica”.



Tendevo, molto interessato, l’orecchio. E porgevo ora l’uno ora l’altro al fine di cercare la condizione migliore per la captazione di quel loro parlare. E sì che l’età mi ha fatto perdere un buon fascio delle frequenze uditive ma lo sforzo, anzi il gioco innocente nell’occasione, ne valeva la candela, come suol dirsi. E così mi sono ritrovato ad ascoltare con indifferenza, senza darlo ad intendere. Veniva riferito, tra gli astanti, di un dibattito tra due figure storiche della politica e del sindacalismo del bel paese, della sinistra insomma. Non ho captato in quale trasmissione televisiva i due, l’uno e l’altro li chiamerò d’ora innanzi, si azzannassero senza pietà e senza risparmio alcuno. Accusava l’uno l’altro di non difendere più gli interessi dei lavoratori del bel paese. È che, l’uno, in verità, da ben troppo tempo aveva preferito frequentare i salotti buoni della capitale e le scene televisive sfoggiando sempre una “mise” non proprio da proletario arrabbiato. E poi, che dire di quel suo, all’apparenza innocente, far ciondolare con grande “nonchalance” gli astucci portaocchiali più eleganti, più pregiati ed in colore con la “mise” del momento? Che goduria alla vista! E l’uno a sostenere come l’altro fosse rimasto un vetero-sindacalista, un dinosauro della politica, pronto a difendere l’indifendibile ora che la prepotenza, a detta del nostro da assecondare,   dei mercati globalizzati s’avanza inarrestabile. Ha sostenuto Zygmunt Bauman in una Sua pubblica dichiarazione del 10 di agosto – che è stato il giorno del più massiccio crollo delle borse e delle aziende del bel paese: Milano – 6,6%; FIAT – 8%; Banca Intesa – 13,72%; Unicredit – 9,37%; MPS -7,8% - nel bel mezzo della canicola ferragostana: “Le disuguaglianze sociali, di qualunque genere siano, derivano dalla divisione tra coloro che hanno e coloro che non hanno”. L’uno avrà dimenticato questa semplicissima regola sociologica, frastornato com’è dalle frequentazioni dei salotti buoni della capitale e dalla occupazione costante della scena televisiva. Avrà dimenticato, l’uno, come la storia del mondo insegni che solo l’unione degli esseri umani più emarginati, in virtù sempre dei bisogni primari da soddisfare, o dei diritti da conquistare e/o delle ideologie d’uguaglianza da far trionfare, abbiano fatto camminare la storia stessa. Sarebbe stato interessante chiedere a quell’uno cosa rimarrà, nell’immediato futuro, da contrapporre validamente, come turrito bastione a tutela e difesa di tutti “coloro che non hanno”, nello scontro sociale e politico inevitabile, ora che le nebbie sembrano volersi sollevare e le brutture dei mercati tornano a mostrarsi con tutta la loro ingordigia, cosa rimarrà da contrapporre, dicevo, allo strapotere di quegli stessi mercati nel momento in cui si propugna da alcuni pulpiti, sfacciatamente, una frantumazione ed una arrendevolezza delle “classi” sociali meno abbienti sulle quali i mercati scaricano malvagiamente i loro errori e che sono chiamate a sanare i pubblici bilanci dissestati intaccando così le loro scarse risorse economiche e finanziarie e vedendosi decurtare i già falcidiati stati sociali. Eppure quell’uno si è sempre professato “uomo di sinistra”. Ma di quale sinistra? Forse ben si attaglia al personaggio nostro quanto ha scritto, alla pagina 83, il linguista Raffaele Simone nel Suo pregevolissimo lavoro “Il mostro mite” – Garzanti editore (2008) pagg. 170 € 12,00 -:

mercoledì 26 aprile 2017

Lalinguabatte. 32 “La fatica delle democrazie”.



Affermava Gustavo Zagrebelsky nel corso di un colloquio con Ezio Mauro: “Gli Inquisitori (figura sempiterna) direbbero che la libertà è infelicità e che proprio loro, essendosi assunti il compito di liberare l'umanità dalla libertà, sono i suoi veri benefattori…”. Il colloquio, che di seguito trascrivo in parte, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 5 di maggio dell’anno 2011, è parte del volume “La felicità della democrazia” edito da Laterza (2011) – pagg. 256, € 15 -. L’affermazione incontrovertibile del professor Zagrebelsky è l’intuizione profonda di uno straordinario intellettuale, uno dei pochi “maestri” viventi, punto di riferimento di ogni pensiero che si voglia definire “liberale” o meglio ancora “libero”, quest’ultimo nell’accezione più completa, quella che il pensiero illuminista ha saputo e potuto diramare in questo angolo di mondo che è la vecchia, cara Europa; intuizione profonda e straordinaria che conferma una convinzione mia personale seconda la quale siamo in un’epoca di potente e pericolosa rimonta di una “controriforma” non più strisciante ma incredibilmente palese, “controriforma” che non ha mia tralasciato d’influenzare il vivere politico e sociale del bel paese. Svuotare la democrazia del suo “senso” interno imprescindibile e connaturato ad essa di continua ricerca di nuovi e sempre più avanzati traguardi ed equilibri è stato da sempre l’obiettivo non confessato delle continue manovre “controriformistiche” rese sempre più chiare con l’indicazione chiara, venuta dall’alto,  del nuovo nemico del genere umano che sarebbe il cosiddetto “relativismo” storico. Le “cadute” ed il conseguente risorgere da esse, nel continuo giuoco democratico degli equilibri nuovi sempre ricercati, vengono subdolamente fatte intendere come “inutilità”, come spreco di energie, energie sociali e personali, che sarebbe opportuno invece convogliare verso altri traguardi di poco o nullo spessore, come il conseguimento dell’appagamento esclusivamente materiale delle proprie ambizioni personali o di gruppo. La proposta “controriformistica” odierna ha al suo interno la possibilità concreta di evitare le ricorrenti “cadute” che le democrazie tutte mettono in conto come connaturate ad esse, ricorrendo, nelle relazioni politiche e sociali di un mondo sempre più complesso, a figure ed entità egemoniche ed incontrollabili con gli strumenti consueti della democrazia, che libererebbero i singoli dal “disagio” delle opinioni, dal “disagio” delle scelte pur sempre difficili a farsi e da quant’altro abbia a che fare con la conduzione responsabile, collettivamente, di un assetto democraticamente compiuto delle società del secolo ventunesimo. Scriveva Gustavo Zagrebelsky nel Suo volume “Contro l’etica della verità” – Laterza editore (2008) pagg. 172 €15,00 – alla pagina 123:

martedì 25 aprile 2017

Paginatre. 82 “27 di agosto 1944: una Storia”.



Da “Settant'anni fa ci voleva un bel coraggio” di Vittorio Zucconi, pubblicato sul settimanale “D” del 7 di febbraio dell’anno 2015: Quando mi sembra che tutto vada per il peggio, tiro fuori un amuleto ingiallito. Che racconta una storia vera. Quando mi sembra, come sembra a tutti noi adesso, che il mondo stia andando all'inferno in carriola, quando ogni giorno l'informazione e Internet ci bombardano, ci sgozzano e ci mitragliano con annunci di Apocalisse prossima ventura, riprendo in mano un rettangolino di carta color avorio, poco poco ingiallito dal tempo, come un amuleto. È l'annuncio di una nascita e del battesimo di un bambino. I genitori, Anna e Mino, lo comunicano ai pochi parenti e amici interessati al trascurabile evento, traboccanti di orgoglio e di felicità nei caratteri ornati, dorati e molto kitsch. Non avrebbe davvero nulla di notevole, quel "santino" come si diceva in passato, se non fosse per la data: 27 agosto 1944. E il luogo: Bastiglia in provincia di Modena. Nell'agosto del 1944, per i pochissimi che non ricordassero o sapessero nulla della guerra in Italia finita 70 anni or sono (un po' di ironia, qui) la città nella quale Anna e Mino si erano sposati e avevano messo al mondo un figlio era il Fronte, la prima linea. Stormi di bombardieri americani scavalcavano indisturbati gli Appennini e martellavano i nodi ferroviari e stradali fra Bologna e Modena, l'ultima via di rifornirimento o di fuga verso il nord per i Tedeschi ancora aggrappati alle montagne. Quei due, mi raccontarono, erano andati a sposarsi di corsa in chiesa negli intervalli fra i bombardamenti, come si fa attraversando una strada da un portico all'altro, fra gli scrosci di pioggia. A pochi chilometri, nelle montagne che sovrastano e spalancano la Bassa emiliana, i tedeschi in ritirata compivano massacri da far vergognare le gang di terroristi in Siria o Iraq. Marzabotto, un mattatoio, è a un'ora di auto da dove quel santino fu stampato. Di futuro, di sicurezza, di lavoro, era meglio non occuparsi, anzi, meglio non pensarci proprio. Anna, maestra di pianoforte, non aveva lavoro essendo non molti gli interessati a studiare solfeggio nei rifugi antiaerei scossi dalle bombe. Il marito, Mino, insegnava come supplente di Greco e Latino in un liceo privato, senza alcun contratto né garanzie, coprendo in bici ogni giorno 32 chilometri fra la campagna e la città, lungo strade e sentieri pattugliati da caccia inglesi e americani, infestati da repubblichini e militi esasperati dall'odio che li circondava e da partigiani con il dito nervoso sul grilletto dei fucili. Qualche volta lui stesso, fresco sposo e padre, trasportava messaggi e armi per i partigiani, sicura promessa di una brutta fine se fermato. Il futuro era la speranza di non essere ammazzati, mitragliati, rastrellati, torturati, spediti in Germania. In questa Italia del 1944, non soltanto quei due incoscienti avevano messo al mondo un figlio senza alcuna assistenza sanitaria, ospedali, esami prenatali, ecografia, ostetriche. In più - e questo è l'oggetto del mio sbalordimento e della mia allegria - avevano sfidato i pericoli e le bombe per cercare una tipografia ancora in funzione tra le rovine, una che potesse stampare santini per annunciare la nascita e il battesimo di un figlio qualsiasi. Avevano scelto il cartoncino avorio, i caratteri leziosi, l'immaginetta religiosa sulla copertina, pedalando avanti e indietro per trovare qualcuno disposto a fare il lavoro, con il brontolio lontano dell'artiglieria sulle colline, sicuramente con i soldi di un nonno felice di spenderli. La loro unione, la nascita del primo figlio, erano state più importanti della paura, della miseria, dell'angoscia di un futuro che poteva essere lungo come la canna dei mitra Schmeisser che i soldati tedeschi impugnavano, accampati nella stessa casa dove Anna aveva partorito, oltre la porta della camera. Quel bambino, lo avrete capito, ero io, Anna e Mino i miei genitori che non avevano avuto paura del tempo, delle circostanze, dei tedeschi, dei repubblichini, delle bombe americane. Forti nella certezza che nella vita non ci sono altre certezze che quelle che si portano dentro di sè, soprattutto nelle ore più terribili, quando sembra che il mondo stia andando all'inferno in carriola.

lunedì 24 aprile 2017

Primapagina. 37 “25 aprile, senza PD: un vuoto a perdere”.

Da “25 aprile, senza PD è anche meglio” di Maurizio Viroli, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 22 di aprile 2017: (…). So bene che molte cerimonie ufficiali per il 25 aprile ispirano sentimenti di ribrezzo, soprattutto quando vediamo sul palco figuri che parlano di libertà e dignità civile e nella loro vita non hanno fatto altro che offendere l’una e l’altra. Ma questa non è ragione sufficiente per proporre di abolire le cerimonie. La via giusta è piuttosto impegnarci per fare sì che le celebrazioni siano dignitose, i simboli siano coerenti con i valori della libertà, gli oratori siano persone che hanno testimoniato con le azioni la sincerità del loro antifascismo. La regola aurea delle celebrazioni del 25 aprile deve essere l’unità, o meglio lo sforzo di tutti i partiti, i movimenti e le associazioni che si richiamano all’antifascismo per rinnovare l’impegno a difendere la Costituzione e le istituzioni repubblicane nonostante i contrasti di interessi, le ambizioni personali, le differenze culturali e religiose. Non bisogna mai dimenticare che nella Resistenza hanno militato comunisti e monarchici, liberali e socialisti, cattolici, protestanti, ebrei e atei: chi auspicava una repubblica dei Soviet e chi voleva salvare la monarchia; chi propugnava profonde riforme sociali e chi intendeva difendere privilegi e diseguaglianze antichi; chi sperava di veder nascere uno stato laico e chi preferiva rinsaldare il ruolo della Chiesa cattolica. Non bisogna neppure dimenticare che il fascismo salì al potere (chiamato da re Vittorio Emanuele III) grazie, in buona misura, alle divisioni degli antifascisti e che Repubblica democratica non sarebbe sopravvissuta all’attacco convergente del terrorismo rosso e nero, se non ci fosse stata l’unità antifascista attorno alla Costituzione Repubblicana. Ma, evidentemente, queste considerazioni che erano l’ABC dei vecchi partiti di sinistra, e di tutti i politici seri dei primi decenni di storia repubblicana, sfuggono ai moderni, spregiudicati e innovatori dirigenti del PD, a tal segno da non trattenerli dall’annunciare che non parteciperanno alla manifestazione romana promossa dall’ANPI perché la giudicano “divisiva”. Prendiamo atto, con profonda commozione, della sincera preoccupazione per le divisioni che i dirigenti del PD esprimono in occasione della manifestazione romana, quegli stessi dirigenti che non hanno avuto alcun ritegno ad approvare a colpi di maggioranza una riforma costituzionale che, se fosse passata, avrebbe creato una profonda lacerazione nel corpo politico e avrebbe alienato molti italiani dalla Costituzione e dalla Repubblica. Sia detto senza polemica, ma credete proprio di poterci sempre ingannare? Dovere principale di un partito che si chiama democratico sarebbe di agire in modo del tutto opposto, vale a dire gettare il proprio peso politico e la propria autorevolezza (ammesso che ne abbia) per attenuare i contrasti e per permettere a tutti gli antifascisti di sfilare con piena dignità e, se necessario, fare un bel servizio d’ordine attorno alla Brigata Ebraica. La scelta di non partecipare alla manifestazione romana nasce probabilmente dal calcolo politico di avvicinarsi ulteriormente a Forza Italia, e alla varie componenti del centro-destra, in vista di un’alleanza di governo. Sappiamo tutti che Forza Italia, a cominciare dal suo fondatore che in tempi poi non così lontani manifestò la sua ammirazione per Mussolini, è un partito che ha poche simpatie per l’antifascismo e dunque sarebbe ancora meglio disposto ad allearsi con un PD che non sfila con gli antifascisti. Renzi e i suoi potrebbero organizzare per il 25 aprile una manifestazione con Forza Italia, Alfano e Verdini, marciare compatti sotto uno striscione nuovo di zecca con la scritta ‘Partito della Nazione’ tenendo alti poster giganteschi con l’effige di Minzolini, simbolo dello strenuo impegno del PD e di Forza Italia a combattere la corruzione politica. Gli amici dell’ANPI rechino invece in bella evidenza la nostra Costituzione antifascista che abbiamo salvato dal PD, e forse arriveranno molti giovani che sarebbero rimasti a casa, se il corteo lo aprissero Renzi e Orfini.

domenica 23 aprile 2017

Primapagina. 36 “Ma Donald non lo sa”.



Dal nuovo “impero del bene” la corrispondenza “Scusi presidente, dov'è il dottore?” di Vittorio Zucconi, pubblicata sul settimanale “D” del 15 di aprile 2017: (…). Alaa al Nufa, così si chiama, uno sciamano lo è per davvero ma moderno, con una laurea in Medicina conseguita a Damasco e una specialità in endocrinologia pediatrica che era andato a prendere nella Università del Sud Dakota. Si era sposato, cinque anni or sono,con una ragazza del posto. Aveva avuto una bambina e aveva preso un impegno solenne al momento di partire dalla Siria: aveva promesso alla madre vedova e alla sorella più grande, che avevano dedicato la vita a lui per permettergli di studiare, di andarle a prendere e portarle a vivere in America,magari in una zona un po' meno gelida della Grande Prateria dei Sioux. Invece oggi Alaa il Siriano ad appena 32 anni è in trappola. Le speranze di procurare un visto alla madre e alla sorella sono pari alla temperatura media di gennaio a Sioux Falls, meno di zero. L'ipotesi di andare lui a Damasco per far conoscere la moglie e la nipotina alla sua famiglia è da scartare, perché il pericolo di restare bloccato è troppo alto per un musulmano di ritorno da un viaggio in Siria. Il rischio più grave non è neppure al rientro, ma all'uscita, perché lui è l'unico endocrinologo per centinaia di chilometri di prateria specializzato nel trattamento di un male che affligge sproporzionatamente i bambini e soprattutto i bambini delle riserve indiane: il diabete. Attorno al suo studio, madri di varia carnagione formano circoli di preghiera, ciascuna a divinità con nomi diversi, portano coperte e amuleti, firmano petizioni per trattenerlo. Se lui se ne andasse o non potesse tornare, migliaia di pazienti resterebbero privi di assistenza, perché i medici specialisti disposti a vivere e ad esercitare la professione in uno Stato dove il reddito medio è di un quinto inferiore alla media americana, e la pratica della medicina ancora una vocazione missionaria, sono pochi. Come quei bambini diabetici del South Dakota, così milioni di altri americani, grandi o piccini, dipendono ormai per la loro salute da medici, infermieri, personale tecnico venuto da lontano. Un medico generalista su tre non è nato in Usa e senza quei dottori asiatici, africani, indiani, cinesi, europei, la prima linea di difesa della salute, quella che accoglie l'80 per cento dei pazienti prima di smistarli a specialisti o di mandarli a casa rassicurati con una pacca sulla spalla e una ricetta, sarebbe sguarnita. Il 90 per cento dei piccoli ospedali di campagna, quelli che offrono assistenza primaria, dai parti ai piccoli interventi chirurghici, sparpargliati nell'immensità del grande ventre americano, non potrebbe funzionare senza immigrati. E chi ha un bambino con le coliche o un anziano caduto dalle scale non chiede a quale religione appartenga il medico del pronto soccorso. Alaa al Nufa lo sa, come sa che probabilmente non rivedrà mai più la madre, che ha 82 anni e, ironia crudele, soffre di diabete, visto che difficilmente lei sopravviverà ai quattro o otto anni dell'amministrazione in carica a Washington. Un medico islamico siriano resterà per curare i bambini Sioux. Perché questa è la realtà del mondo di oggi.

sabato 22 aprile 2017

Paginatre. 81 “Lettera aperta ai padri tromboni”.



Paolo di Paolo, giovane scrittore (1983), si è fatto conoscere su larga scala per il Suo volume “Dove eravate tutti” – Feltrinelli editore (2013) - con il quale ha chiamato alla resa dei conti i tanti, tantissimi “padri tromboni” che nell’era dell’egoarca di Arcore hanno fatto finta di non vedere, di non sentire e di conseguenza non han parlato e così tacendo si sono resi corresponsabili dello scempio compiuto da quell’uomo della vita politica e pubblica e della salute morale del bel paese. Da “Padri tromboni maestri d’ipocrisia” di Paolo di Paolo, pubblicato sul settimanale l’Espresso del 16 di aprile 2017: Cari Papà Tromboni, tutto bene? Vi trovate in quella strana fase della vita - fra i cinquanta e i sessanta, o poco più - che pare dia un po’ alla testa. A distanza di sicurezza della terza età, se non cadete nella classica regressione (Peter Pan-insegue-Lolita), il potere è la vostra droga. Piccolo o grande che sia, vi tiene comunque su di giri: dal lunedì al venerdì siete nella bolla dei workaholic, non fate che bearvi della vostra agenda stracarica. Sabato e domenica siete come palloni sgonfi. Per il resto, nient’altro che cravatte, smartphone, pance che crescono: non è un bello spettacolo! Ma non è per questo che vi giunge la nostra lettera. Non siamo preoccupati per il vostro stress, e nemmeno per il fatto che il cosiddetto senso della realtà vi sta abbandonando. A preoccuparci è la vostra inarginabile inclinazione alla retorica. Chi fra voi è sulla scena politica non può farne a meno: è così da sempre, fa parte del gioco e del mestiere. Il “conservatore” moralista François Fillon, classe 1954, in corsa per l’Eliseo, preferendo - così diceva - “le parole che salvano a quelle che seducono”, assegnava intanto falsi impieghi ai parenti per oltre un milione di euro. Il cinquantaduenne premier russo Dmitrij Medvedev, uso a richiamare “con pieno senso di responsabilità il nostro bene e il bene generale della società”, è ambiguo titolare di conti offshore, piste da sci private, ville con piscina ed eliporti, aziende vinicole in Toscana. Niente di nuovo, per carità. Nessuno è nato ieri. Ma il punto è che questi babbi non si limitano a razzolare male, si impegnano con eccessivo (e sospetto) slancio a predicare benissimo. Anche dalle nostre parti, la sera a tavola - così come nei corsivi di prima pagina - fanno un uso smodato di retorica, oltre il livello di guardia. Come il sale per gli ipertesi, non è buona norma. Guardate cosa è successo all’ex direttore del “Sole 24 Ore”: tutte le domeniche pronto a infliggerci la sua omelia laica, è finito indagato per falso in bilancio. Fosse pure innocente su un piano giuridico, non lo sarebbe comunque al tribunale delle false coscienze. Dante gli farebbe indossare - come minimo! - il mantello degli ipocriti: dorato fuori, di piombo dentro. In uno dei suoi ultimi editoriali, Roberto Napoletano puntava il dito, nell’ordine, contro «furbetti del cartellino», «corruttele varie e sistemiche», «distribuzione di seggiole e poltrone», «vecchie e nuove clientele». Cito alla lettera: «Tornano le ombre dei soliti maestri dell’eterno galleggiamento italiano in un Paese sospeso che fugge dalle sue responsabilità. Promana da tutto ciò una sensazione mista di nausea e di disorientamento» (“Il Sole 24 Ore”, 26 febbraio 2017, a undici giorni dall’avviso di garanzia). Impressionante: come il protagonista di un racconto di Savinio che sentiva odore di morte dappertutto, senza capire che a emanarlo era lui. La chiusa dell’articolo? Canonica: sull’Italia che «brucia il futuro dei nostri giovani». Non che il faraonico stipendio di Napoletano - 93mila euro lordi mensili, pare - contribuisse a spegnere le fiamme, ma l’ipocrisia è perfino più colpevole. L’aspetto psicologico della questione è avventuroso: che cosa spinge stimati e solitamente spietati professionisti (del giornalismo, della politica, della finanza, dell’industria) ad ammannirci quintali di retorica moraleggiante? Qual è il vantaggio interiore del trombonismo, per chi lo pratica?

venerdì 21 aprile 2017

Scriptamanent. 91 “Un sapere pret-à-porter”.



Da “Un sapere pret-à-porter” di Maurizio Ferraris,  pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 21 di aprile dell’anno 2013: Lo scrittore inglese Sebastian Faulks ha recentemente sostenuto che le nuove generazioni saranno le prime in cui i figli saranno meno colti dei loro genitori: «I ragazzi che oggi hanno vent’anni e più costituiranno la prima generazione in Europa occidentale a soffrire di una perdita di sapere e conoscenza a causa della tecnologia. I nostri figli, difatti, sanno meno cose rispetto ai loro genitori». Uno potrebbe obiettare, come il presidente Clinton a proposito del sesso: «Dipende da cosa si intende con “sapere”». C’è un senso, tutt’altro che trascurabile, in cui l’asserzione di Faulks è letteralmente falsa. (…). Nel mondo di Internet assistiamo a un fenomeno che, nel suo complesso, può essere considerato un frutto dell’illuminismo, della capacità delle persone di pensare con la loro testa: la gente cerca, si documenta, discute. Che poi il frutto di questi pensieri autonomi possa non piacere, magari risultando arrogante come talora sono le idee degli autodidatti, è un fatto. Ma questa è un’altra storia, e comunque non è vero che “Internet rende stupidi”, come ha sostenuto Nicholas Carr con un pessimismo non meno eccessivo dell’ottimismo con cui Pierre Lévy parlò, negli anni Novanta, di “intelligenza collettiva” del web. Presuntuosi magari sì, ma non stupidi. Quello che avverrà, quello che sta avvenendo e viene stigmatizzato da Faulks, riguarda piuttosto una trasformazione della cultura (…). L’idea di fondo è questa: le due pagine, quella di carta e quella su web, non si equivalgono per molti e ovvi motivi, uno dei quali è particolarmente cruciale. La pagina di carta invita al silenzio e alla concentrazione, la pagina web (posto che questa espressione abbia un senso) invita alla connessione e alla deconcentrazione. Se la pagina web dovesse scacciare definitivamente la pagina di carta non sarebbe la fine dell’intelligenza né dell’istruzione, ma di quel campo di concentrazione che è stata l’alta cultura nella tradizione occidentale. È proprio in questa direzione che vanno le considerazioni di Faulks, che sostiene di non essere un bigotto pessimista, e di apprezzare i vantaggi delle nuove tecnologie, ma ritiene che «questi giovani hanno accesso al sapere semplicemente premendo un pulsante, ma, allo stesso tempo, oggi non hanno più bisogno di “catturarlo”». In che cosa consiste la “cattura” tradizionale del sapere? (…). …il web esercita una funzione superficialmente democratizzante, ma nel fondo risulta sottilmente classista, perché di fatto accresce il divario tra chi è cresciuto in una casa con libri e chi è cresciuto in una casa senza libri, visto che la scuola e l’università (le vere responsabili, torno a dirlo) sembrano avere abdicato alla difesa della cultura cartacea. (…).