Tratto da “Mercati,
anatomia da colpo di stato” di Massimo Fini, pubblicato su “il Fatto
Quotidiano” del 6 di dicembre 2020: (…). C’è un’ovvia differenza fra l’industria
e la finanza. L’industria produce cose, oggetti, vestiti e, in campo
alimentare, il più essenziale di tutti i beni, il cibo. La finanza non produce
nulla, partorisce semplicemente altra finanza, è denaro che partorisce altro
denaro, cosa che scandalizzava Aristotele per il quale il denaro essendo
inanimato non poteva essere fertile (Politica). La finanza è una semplice
“partita di giro” a somma zero. “Nulla si crea e nulla si distrugge”, diceva
Democrito. Si può star certi che se c’è un rialzo alla Borsa di New York altri,
in diverse aree del mondo, stanno perdendo qualcosa, non necessariamente denaro
ma per esempio posti di lavoro. Le Borse vanno in visibilio quando una grande
azienda licenzia un migliaio di dipendenti. La finanza, a differenza
dell’industria che ha bisogno di operai, di tecnici, di impiegati, di portieri,
non dà nemmeno lavoro. Basta un individuo particolarmente abile con computer
veloce e costui schiaccia un pulsante e mette in ginocchio un intero Paese.
Intendiamoci, questi trucchetti sul denaro ci sono praticamente da quando
esiste il denaro, anche se nel corso dell’evoluzione, chiamiamola così, hanno
preso dimensioni un tempo sconosciute. Nel Medioevo il grande mercante pagava
le maestranze in moneta povera, sostanzialmente rame, che i poveracci usavano
fra di loro (sarebbe stato inutile e assurdo tesaurizzarla) mentre il mercante
realizzava sui mercati internazionali in oro e argento. È quanto succede anche
oggi nei Paesi sottosviluppati, detti pudicamente “in via di sviluppo”, dove i
locali spendono moneta locale, che non val nulla, mentre i loro datori di
lavoro realizzano in dollari, euro, sterline. Il mercato è onnipresente. Esiste
una vera e propria “dittatura dei mercati” di cui si preferisce non parlare o
solo bisbigliare, anche se di recente due film, non a caso americani, The Wolf
of Wall Street di Scorsese e Panama Papers di Soderbergh hanno affrontato in
modo serio la questione. Questa dittatura però è sfuggente perché anonima. Sono
finiti i bei tempi in cui il dittatore era un soggetto in carne e ossa e quindi
potevi sempre sperare di sparargli col tuo fucilino a tappo e farlo fuori.
Sparare contro “i mercati” è come cercare di colpire un fantasma. Il mercato è
quindi invincibile? Teoricamente no. Al mercato si oppone l’economia di Stato
quale è esistita, per fare l’esempio più noto, in Unione Sovietica. Ma
l’economia di Stato è infinitamente meno efficiente di quella a libero mercato.
Se l’Urss ha perso la Guerra fredda con l’Occidente non è perché aveva meno
atomiche, meno bombardieri, meno carri armati, insomma meno armi, meno popoli
arbitrariamente soggiogati, l’ha persa sul piano dell’economia. Un Paese a
economia di Stato circondato da Paesi “liberisti” è spacciato. Dovrebbe essere
talmente forte da occupare una buona parte del globo, per questo Trotzkij
affermava “la Rivoluzione o è permanente o non è”. E infatti non è stata. Gli
antichi Imperi fluviali, sostanzialmente collettivisti, comunisti, dov’era
prevalente il concetto di “equivalenza” e di una ragionevole redistribuzione
della ricchezza fra i sudditi, hanno potuto resistere tremila anni perché così
immensi da non temere una concorrenza esterna. Allora siamo costretti a morire
“democratici” (la democrazia è l’involucro legittimante del modello di sviluppo
di libero mercato, la colorata carta che ricopre la caramella, cioè la polpa
avvelenata del sistema) e “liberisti”? In teoria esiste una terza via, la
famosa “terza via”, fra capitalismo e comunismo e si chiama socialismo. Il
socialismo non rinnega l’economia di mercato, ma gli taglia parecchio le unghie
con un forte intervento, in senso equitativo, dello Stato, inoltre coniuga il
sistema con le libertà civili che è quanto è estraneo al comunismo ovunque si
sia affermato. L’etica di Stato di hegeliana memoria nel socialismo non ha
parte. Ma quel poco di socialismo che rimane nel mondo è attaccato da tutte le
parti. L’esempio è Nicolás Maduro, definito regolarmente dai media occidentali
come “dittatore”. Ora io vorrei sapere in quale dittatura un soggetto che ha
tentato un colpo di Stato armato, con l’aiuto degli americani, come “il giovane
e bell’ingegnere” Juan Guaidó, sarebbe a piede libero. Nella democratica Spagna
sette indipendentisti catalani, che non hanno usato la violenza e che avevano
qualche buona ragione in più del “bell’ingegnere”, sono in galera da quasi tre
anni, il loro leader Carles Puigdemont in esilio. Non importa, Maduro è un “dittatore”,
il generale Abdel Fattah al-Sisi che con un colpo di Stato ha decapitato
l’intera dirigenza dei Fratelli Musulmani che avevano vinto le prime elezioni
libere in Egitto, e assassinato circa 2.500 oppositori e altrettanti
disperdendone nei “desaparecidos” è, come si espresse Matteo Renzi quando era
premier, “un grande uomo di Stato” (io direi: di colpi di Stato). Allora siamo
davvero destinati a morire “liberisti”? No, sarà il sistema stesso a suicidarsi
in grande stile. Un sistema che si basa sulle crescite esponenziali, che
esistono in matematica ma non in natura, quando non potrà più crescere
collasserà su se stesso. In modo molto rapido. Avete presente le vecchie
cassette con le quali fino a qualche anno fa guardavamo i film? Durante il film
andavano a ritmo regolare, ma volendo tornare indietro si avvolgevano a
velocità supersonica. E questo, prima o poi, più prima che poi, accadrà. E
allora non saremo più “liberisti”, ma finalmente liberi.
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