Storie dalla pandemia. Storia tratta da «Ho vissuto tanto, ho vissuto bene. Ma questa non è vita» di Concita De Gregorio, pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 28 di novembre 2020: Fiora B**** ha 45 anni, sua nonna Edda 101. Fiora è un’artista. Ha recitato per molti anni, adesso insegna: con un’associazione, Muse, che porta il teatro nelle scuole di periferia, e in una comunità di persone disabili. «Insegnavo, perché ora è tutto fermo». Edda, ligure di origine, è stata maestra. «Ha iniziato a 19 anni e non ha mai smesso di lavorare nonostante tre figli, due maschi e una femmina - mia madre. Ha amato il suo lavoro moltissimo. È stata, è, una donna forte, ostinata, ottimista. Quando i figli sono stati grandi ha lasciato mio nonno ed è andata a vivere con l’uomo che amava. A quel tempo, negli anni Sessanta, non era cosa da poco. Ora vive in una residenza. Sta bene, è lucidissima, ma non è del tutto autonoma e molto fragile». Fiora e Edda non possono più vedersi: in questo regime sanitario nella casa di riposo non può entrare nessuno. «Nonna è un po’ sorda: io vado sotto le sue finestre, lei si affaccia, come Romeo e Giulietta, ma siccome non mi sente la chiamo anche al telefonino. Così mentre le parlo mi vede. L’altro giorno mi ha detto: Fiora, ho vissuto tanto, ho vissuto bene. Vivere così non ha senso. Mi manca tutto, mi mancate voi. Mi manca la musica. Ha detto: mi butto dalla finestra, ma io lo so che diceva per dire. Non lo farebbe mai. Però capisco cosa intende quando dice “vivere così”, è un’esasperazione reale. In questa clausura le persone fragili, quelle che hanno poca autonomia (gli anziani, i disabili, i bambini e gli adolescenti) sono quelli che soffrono di più. Certo che la prima cosa è vivere, la salute, ma esistono anche la salute psichica, affettiva. Mi colpisce che ci si pensi così poco». Fiora ha organizzato per la nonna e per gli altri ospiti della casa di riposo un concerto sotto le loro finestre. «La direttrice ha messo a disposizione uno spazio aperto ma interno, una corte. Così le persone si sono potute affacciare alle finestre. Un clarinetto, una batteria, un violoncello. Mezz’ora, non di più. Un gesto, una cosa semplice. Non posso descrivere la loro felicità». Perché, dice Fiora, c’è bisogno di bellezza per affrontare tutta questa solitudine. «È chiaro che è un momento in cui non si può fare niente, questo senso di impotenza vale per tutti. Restare in vita è una priorità ma poi bisogna vedere che vita. È come se le persone che hanno più bisogno non fossero intercettate dai radar. Come se non esistessero. Non ho certezze, sono piena di dubbi. Capisco l’emergenza, anche la seconda - per quanto suoni strano, no?, “seconda emergenza”. È possibile che la soluzione sia questa per un mese o due, ma iniziamo a reinventare qualcosa per la ripresa. La bimba che a Torino si è messa fuori dalla scuola ci dice questo. Pensiamo qualcosa per il futuro». Edda è una donna alta, ha le mani grandi, lo sguardo diritto. Ha vissuto come voleva lei. «Con compromessi, certo, ma come voleva. Gli altri anziani giocano a carte ma a lei non piace. Vorrebbe leggere, ma i romanzi la stancano. La poesia invece le arriva tanto: ha le poesie di Antonia Pozzi, le legge tutti i giorni. Le ho regalato un peluche: il mio gattino di quando ero piccola. Mi dice che ci dorme, come i bimbi, se lo mette sul petto. Quando mi ha detto: mi manca tanto la musica ho pensato. Dai, però: andare a suonare sotto le finestre si potrà. Si poteva», sorride.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
martedì 8 dicembre 2020
Virusememorie. 50 «Fiora, ho vissuto tanto, ho vissuto bene. Vivere così non ha senso. Mi manca tutto, mi mancate voi. Mi manca la musica».
Ha scritto Michele Serra in “Frottole di Natale” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del
6 di dicembre 2020: (…). Non c’è niente da fare, l’idea che la pandemia sia solo un subdolo
pretesto per rovinare l’esistenza alle brave persone, e adesso per guastare le
feste, non riesce a uscire dalla testa della nostra destra e di quelle del
mondo intero, che da quando è arrivato il Covid non sanno dire altro, non
arrivano a formulare un pensiero appena più articolato e soprattutto meno
monotono. Esiste una vera e propria internazionale dell’alito libero che
protesta per qualunque forma di restrizione e di prudenza, sia lo skilift
inerte o lo stadio chiuso, la movida interrotta o la serranda abbassata. È
legittimo pensarla così, ma a un patto: dire a chiare lettere, sillabando le
parole, “sappiamo benissimo che senza distanziamento, mascherina, chiusure, il
numero dei morti sale di molte migliaia, ma è un prezzo da pagare alla
sacrosanta voglia di fare finta di niente. A esequie avvenute la vita continua,
lo dice anche il proverbio: chi muore giace, chi vive si dà pace”. Ma non lo
dicono, perché è un pensiero rude, ma schietto e rivelatore. Troppo difficile
da sostenere. Più comodo nascondersi dietro una fanfaluca come il “diritto al
Natale”. Non c’è un “diritto al Natale” che possa cozzare
o andare a discapito di un “diritto alla salute” costituzionalmente
protetto. Quel “diritto al Natale” – o alla discoteca, o all’apericena, o alla
folle estate - è la cartina di tornasole di quel travisamento grottesco e
grossolano che, con la copertura della storia di una nascita “divina”, ha
trasformato la ricorrenza di quella natività – quanto mai incerta, se non pura
invenzione letteraria - in una occasione di godimenti a supporto del più becero
consumismo. Il resto è il vuoto assoluto.
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