(…). Lei mi chiede (…) come capire l'originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull'incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio. L'originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell'amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell'unico Padre e fratelli tra di noi. La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l'esclusione. Certo, da ciò consegue anche - e non è una piccola cosa - quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel "dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare", affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell'Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l'amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana. Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all'uomo, a tutto l'uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là. Lei mi chiede anche, (…), che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo - mi creda - un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l'aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch'io, nell'amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l'apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all'alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell'alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto. (Tratto da “La verità non è mai assoluta” di Jorge Mario Bergoglio, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’11 di settembre dell’anno 2013 in risposta ad un editoriale di Eugenio Scalfari del 7 di luglio).
“Nella terra nuda come il santo di Assisi”, testo di Corrado Augias pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 26 di aprile 2025: (…). I modi spicci, le frasi irrituali, la disinvoltura dei gesti, la povertà dell’abbigliamento, hanno qualche volta fatto scambiare l’opera, la personalità di papa Bergoglio per quella di un parroco di paese. Anche Francesco d’Assisi aveva scelto come abito un saccone e come cintura una corda. In realtà l’umiltà e il sorriso di Bergoglio, il suo scendere tra la gente fino all’ultimo respiro, lavare i piedi ai derelitti, indossare un paio di scarpe nere scalcagnate, una veste con i polsini sfilacciati, erano potenti segnali della sfida che stava portando agli agi e ai lussi, agli attici, alle catene dorate di tanti eminenti porporati e uomini di curia. Si è detto che papa Bergoglio è piaciuto più ai laici e ai non credenti che a gran parte dei cattolici, è vero, anche se solo parzialmente. Francesco è piaciuto molto anche a buona parte del mondo cattolico anche se è sicuramente piaciuto a molti laici, tra i quali mi colloco. Basta pensare al suo intenso dialogo con atei dichiarati come Eugenio Scalfari o come lo scrittore spagnolo Javier Cercas. È piaciuto lo sguardo limpido con cui si è rivolto ai suoi interlocutori, certe sue iniziative “scandalose”, perfino eccessive. Ma c’è mai stato qualcosa di più eccessivo del gesto dell’altro Francesco che si spoglia nudo sulla piazza di Assisi per dire: non sono più il figlio del mercante, oggi per la seconda volta sono venuto al mondo, nudo come alla nascita. È piaciuto papa Francesco quando ha rivalutato l’aspetto spirituale e misericordioso della funzione pontificia astenendosi da ogni ingerenza direttamente politica di cui alcuni suoi predecessori avevano invece abusato. Francesco d’Assisi, guardato con sospetto dalle gerarchie del tempo proprio come Bergoglio, non era tuttavia un isolato. In quel giro di anni s’erano diffuse all’interno del cattolicesimo alcune correnti monastiche i cui membri si obbligavano, tra le altre costrizioni, a un voto di assoluta povertà sia individuale sia delle comunità. Catari e valdesi, per esempio, scandalizzati dal lusso ostentato delle alte gerarchie e del papato, rifiutavano di possedere alcunché; le loro minime necessità dovevano essere soddisfatte dall’elemosina e dal lavoro manuale. Nel cenobio tutto era in comune, cibo, servizi, mensa, ore della preghiera, del lavoro, del riposo. Un comunismo totale dettato non da un’ideologia politica ma dalla fede. Un comunismo non imposto ma scelto, dal quale era possibile recedere in ogni momento. Esortazioni all’austerità ufficialmente giudicate ereticali, che nello stesso tempo però preoccupavano la Chiesa data la loro diffusione e l’ampio favore popolare di cui godevano. Questo spiega anche perché Francesco d’Assisi, la cui predicazione non era certo meno inquietante, non sia stato punito. Il calcolo delle convenienze consigliava prudenza nei suoi confronti, lui stesso era attento a non superare la soglia critica d’una possibile rottura dimostrandosi tutt’altro che “pazzo”, bensì un tattico sagace. Anche papa Bergoglio ha dovuto seguire una tattica accorta; tante sue affermazioni della prima ora sono state abbandonate silenziosamente, a tanti passi in avanti sono seguiti lunghi silenzi o un tacito abbandono. Riformare una struttura gigantesca come la chiesa è un’impresa immane, ancora più lo è quando la regalità pontificia è ormai messa in discussione dal dissenso di tante diocesi che non è più possibile reprimere come una volta con la sola autorità di un messaggio lanciato dal soglio di Pietro. Bernardo, primo discepolo dell’altro Francesco, dette un giorno una risposta illuminante a un uomo generoso che voleva offrigli delle monete. «È vero che siamo poveri, disse, ma per noi la povertà non è un peso come per altri indigenti, ci siamo fatti poveri per nostra libera scelta». È il centro della visione francescana: la volontarietà del sacrificio, una vita solo esteriormente misera, ricca però in termini di meditazione, preghiera, azione concreta verso gli esclusi, verso gli ultimi della terra. Questa dedizione totale nel mondo occidentale è scomparsa o diventata invisibile; dove e quando esista è relegata in piccoli cenacoli socialmente poco influenti. S’è attenuata in altre parole la forza esemplare di certe vite. In quale misura ciò sia avvenuto, quali possibilità di sopravvivenza rimanga, lo capiremo meglio tra qualche giorno con gli esiti di un conclave mai come questa volta decisivo per il futuro non solo della Chiesa.