"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 22 ottobre 2025

CosedalMondo. 71 Elina Yazji: «La casa dove la mia famiglia festeggiava i compleanni, rideva, piangeva e sognava non c'era più. Era un cumulo di macerie, polvere e ricordi infranti. I muri che un tempo custodivano il calore della vita familiare erano stati rasi al suolo. Il giardino dove giocavano i miei fratelli era sepolto sotto le macerie».


Immaginate di portare tutta la vostra vita sulle spalle - non in una valigia, ma in ricordi e speranze - di scappare dalla vostra casa per sfuggire alla distruzione. Per un mese, io e la mia famiglia abbiamo vissuto in una instabile tenda nel sud di Gaza, privati di ogni comfort. La cosa più vicina al cibo era spesso pane secco e qualche conserva alimentare condivisa tra le famiglie del campo. Mio padre, già indebolito da una malattia cronica, ha iniziato a soffrire molto in queste condizioni. L'assistenza medica era un sogno lontano, poiché nelle cliniche rimaste c'era carenza di medicinali e rifornimenti durante l'assedio. Questi giorni sono stati tra i più bui della mia vita. Quando è stato dichiarato il cessate il fuoco e le strade sono state riaperte, la speranza ci ha riportato a Gaza City. Eppure, ciò che ci attendeva non era un ritorno, ma un confronto con la perdita. Le esplosioni echeggiavano a chilo-metri di distanza, un promemoria costante di quanto la sicurezza fosse fragile. Il peso psicologico dell'incertezza, dell'attesa infinita e dell'isolamento pesava su di noi. Il viaggio di ritorno è stato un misto di sollievo e ansia. Sognavamo di riunirci, non solo alla nostra casa, ma a un senso di normalità. Quello che ci ha accolto è stato il dolore. La casa dove la mia famiglia festeggiava i compleanni, rideva, piangeva e sognava non c'era più. Era un cumulo di macerie, polvere e ricordi infranti. I muri che un tempo custodivano il calore della vita familiare erano stati rasi al suolo. Il giardino dove giocavano i miei fratelli era sepolto sotto le macerie. Il quartiere di SheikhRadwan, un tempo vivace e brulicante di vita, era ridotto a un silenzio spettrale. Intere strade erano scomparse sotto strati di distruzione. Camminando tra le rovine, mi sentivo come se stessi camminando in un cimitero del mio passato. Provavo un vuoto lancinante, un senso di lutto per un luogo e una vita che non esistevano più. La perdita non è solo fisica; è un furto di identità e appartenenza. Amal, madre di tre figli di Sheikh Radwan, ricorda la notte in cui la sua casa è stata distrutta: "Sento ancora l'esplosione. Un attimo prima era tutto lì - i nostri mobili, le foto, i giocattoli dei miei figli – e un attimo dopo, solo polvere e macerie. Perdere la nostra casa è stato come perdere una parte della mia anima". Fatima, un'anziana vedova, parla di isolamento e dolore: "Ho passato notti a piangere, sentendo i muri intorno a me svanire. La casa custodiva i miei ricordi, la voce del mio defunto marito, le nostre risate. Ora sono una straniera nella mia città". Con la nostra casa distrutta, la sfida immediata era trovare un riparo. Il mercato immobiliare di Gaza, già messo a dura prova da anni di blocco e guerra, è crollato sotto il peso della domanda. Gli appartamenti scarsi e gli affitti sono schizzati alle stelle, a volte raddoppiando o triplicando da un giorno all'altro. Abbiamo setacciato la città, visitando appartamenti angusti e costosi in quartieri sconosciuti. Molti non avevano elettricità o acqua corrente, erano privi di misure di sicurezza basilari o erano stati danneggiati da precedenti conflitti. La pressione era immensa: la salute cagionevole di mio padre non ha permesso indugi, ma le nostre risorse finanziarie sono esaurite. Alla fine, ci siamo sistemati in un piccolo appartamento lontano da Sheikh Radwan. Lo spazio angusto non offre alcun comfort, ma è un rifugio. L'affitto assorbe una parte significativa del nostro reddito già limitato. I prezzi del cibo, già alti, sono saliti alle stelle per via dell'interruzione della catena di approvvigionamento e dell'inflazione. L'elettricità è disponibile solo poche ore e la carenza d'acqua è all'ordine del giorno. Una lotta quotidiana per soddisfare i bisogni primari, affrontando il trauma della perdita. Vivere lo sfollamento e il ritorno alle rovine ha trasformato la mia concezione di casa e sicurezza. La semplice presenza di mura, un tetto, cibo sicuro in tavola, acqua corrente e luce di notte sono benedizioni che non avevo mai apprezzato appieno prima. Ora, ogni pasto consumato senza preoccupazioni, ogni letto asciutto e ogni momento di pace sono un dono. Quest'esperienza ha anche rafforzato la mia determinazione a raccontare la nostra storia, non solo per documentare la perdita, ma per evidenziare la resilienza e l'urgente necessità di supporto umanitario. (Tratto da “In piedi sulle macerie del passato. Costretti ad affittare case in rovina” di Elina Yazji pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 17 di ottobre 2025).

“Non c’è alternativa impariamo a convivere o si ripeterà il 7 ottobre”, testo della intervista di Francesca Caferri al regista israeliano Amos Gitai pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di ottobre 2025: (…). Signor Gitai, neanche il tempo di arrivare e la Storia bussa alla sua porta. Non è la prima volta che accade e le facciamo una domanda riservata a chi ne ha viste già passare tante: è una pace questa? O una pacificazione temporanea? “A volte paragono la situazione qui in Israele alla violenza domestica. Se i tuoi vicini di casa si picchiano a vicenda, devi bussare alla porta e dire: "Ehi ragazzi, è ora di smetterla". Ora sta succedendo questo. Quando Emmanuel Macron ha annunciato che la Francia avrebbe riconosciuto la Palestina, ho pensato che fosse una cosa positiva. Ma chi si sarebbe poi aspettato - qualunque cosa pensiamo di lui - che sarebbe arrivato Trump e sarebbe stato così efficace: lo è stato, ha fermato la guerra, liberato gli ostaggi e fermato la distruzione di Gaza, i bombardamenti, la carestia. Le cose cambiano e non sempre non nel modo previsto. Aveva ragione mia madre quando diceva che è bene rimanere vivi per farsi sorprendere”.

Lei si è occupato in passato dei segni che la guerra dello Yom Kippur aveva lasciato su Israele. Il 7 ottobre e ciò che ne è seguito, che segni lasciano? “Non c'è vittoria qui. L’unico segno positivo che vedo è che nessuno penserà più in futuro che sia possibile fare accordi in Medio Oriente senza cercare di risolvere il conflitto israelo-palestinese. Era l’idea di Yitzhak Rabin: nessun altro, né di sinistra né di destra, ha osato dire come ha fatto lui che gli accordi con l'Egitto, con Giordania, forse con i sauditi, sono positivi. Ma che prima dobbiamo affrontare il conflitto fondante tra Israele e Palestina. Lui lo ha fatto. Trent’anni dopo la sua morte stiamo ancora cercando qualcuno che prenda in mano la sua fiaccola e continui da dove la strada era stata interrotta. Se non vogliamo un altro 7 ottobre, dobbiamo affrontare questa questione e cercare di trovare una soluzione”.

Dell’approccio di Trump, del suo discorso qui lunedì, che ne pensa? “Quando Macron ha fatto il suo annuncio, Netanyahu ha risposto che era un premio per Hamas. Non ero d’accordo allora, e non lo sono oggi: per me Trump ha preso la proposta di Macron e l'ha riformulata al contrario. Invece di riconoscere dall'inizio lo Stato palestinese, ha detto: "Prima gli ostaggi e la fine della guerra, poi la smilitarizzazione, poi un'Autorità nazionale palestinese più trasparente, meno nepotismo, meno corruzione...". Tutti gli ingredienti della proposta di Macron sono stati capovolti, ma sono ancora lì. Macron ha messo lo Stato palestinese al primo posto, Trump ha cambiato l'ordine delle sequenze necessarie: ma la strada è quella. E capisco anche perché lo ha fatto: il conflitto fra Israele e Palestina è un campo minato, a nessuno piace camminare sulle bombe”.

Quindi è d’accordo? “Guardi, per me la cosa davvero importante è rendere questa bellissima terra un luogo di pace, un luogo creativo per entrambi i gruppi, in modo che non ci siano minacce, uccisioni, morti...”.

La sua visione è piuttosto utopistica, considerando la situazione di oggi: dentro e fuori i confini dello Stato di Israele… “La pace esiste quando la vita quotidiana è pacifica. Io sono di Haifa: Haifa è un modello interessante, perché è l'unica grande città di Israele dove una parte consistente della popolazione palestinese è rimasta dopo il 1948, e lo si percepisce ancora oggi: la maggior parte dei governi locali in questi anni hanno sempre incluso un partito arabo. Haifa è un piccolo modello che può funzionare. Io sono architetto di formazione: e in questo periodo sto lavorando insieme a un amico, anche lui architetto, che ha appena vinto un concorso per costruire sette asili infantili ad Haifa. Quelli a cui sto lavorando io, insieme a mio figlio, anche lui architetto, saranno bilingue: si insegnerà l’ebraico ma anche l’arabo. Ad Haifa ci sono liste d'attesa di persone che vogliono che i propri figli frequentino scuole simili, sperimentando l'altra cultura. Questo è fantastico. Per me è da lì che inizia tutto: questi neonati, bambini, adulti, parleranno e impareranno a conoscersi. L'ignoranza è il nostro grande nemico”.

Lei è ottimista? “Mi sento ottimista perché non abbiamo scelta. Penso che dobbiamo mantenere la speranza perché amo questo Paese. Vorrei, e molti con me vorrebbero, che Israele continuasse ad esistere ma come Paese democratico, liberale, con libertà di espressione. Sono pronto a combattere per questo. Credo che la Storia non vada avanti solo con mitragliatrici e denaro, ma anche con le idee. E quindi, continuerò a parlare di idee. A volte il risultato non è immediato, ma qui non ci sono altre possibilità: o ci sarà un massacro totale di entrambi i gruppi, o dovremo trovare un nuovo modus vivendi. E spero che questo conflitto porti alla seconda conclusione: dobbiamo trovare il modo di adattarci. A vicenda”.

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