“Non c’è alternativa impariamo a convivere o si ripeterà il 7 ottobre”, testo della intervista di Francesca Caferri al regista israeliano Amos Gitai pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di ottobre 2025: (…). Signor Gitai, neanche il tempo di arrivare e la Storia bussa alla sua porta. Non è la prima volta che accade e le facciamo una domanda riservata a chi ne ha viste già passare tante: è una pace questa? O una pacificazione temporanea? “A volte paragono la situazione qui in Israele alla violenza domestica. Se i tuoi vicini di casa si picchiano a vicenda, devi bussare alla porta e dire: "Ehi ragazzi, è ora di smetterla". Ora sta succedendo questo. Quando Emmanuel Macron ha annunciato che la Francia avrebbe riconosciuto la Palestina, ho pensato che fosse una cosa positiva. Ma chi si sarebbe poi aspettato - qualunque cosa pensiamo di lui - che sarebbe arrivato Trump e sarebbe stato così efficace: lo è stato, ha fermato la guerra, liberato gli ostaggi e fermato la distruzione di Gaza, i bombardamenti, la carestia. Le cose cambiano e non sempre non nel modo previsto. Aveva ragione mia madre quando diceva che è bene rimanere vivi per farsi sorprendere”.
Lei si è occupato in passato dei segni che la guerra dello Yom Kippur aveva lasciato su Israele. Il 7 ottobre e ciò che ne è seguito, che segni lasciano? “Non c'è vittoria qui. L’unico segno positivo che vedo è che nessuno penserà più in futuro che sia possibile fare accordi in Medio Oriente senza cercare di risolvere il conflitto israelo-palestinese. Era l’idea di Yitzhak Rabin: nessun altro, né di sinistra né di destra, ha osato dire come ha fatto lui che gli accordi con l'Egitto, con Giordania, forse con i sauditi, sono positivi. Ma che prima dobbiamo affrontare il conflitto fondante tra Israele e Palestina. Lui lo ha fatto. Trent’anni dopo la sua morte stiamo ancora cercando qualcuno che prenda in mano la sua fiaccola e continui da dove la strada era stata interrotta. Se non vogliamo un altro 7 ottobre, dobbiamo affrontare questa questione e cercare di trovare una soluzione”.
Dell’approccio di Trump, del suo discorso qui lunedì, che ne pensa? “Quando Macron ha fatto il suo annuncio, Netanyahu ha risposto che era un premio per Hamas. Non ero d’accordo allora, e non lo sono oggi: per me Trump ha preso la proposta di Macron e l'ha riformulata al contrario. Invece di riconoscere dall'inizio lo Stato palestinese, ha detto: "Prima gli ostaggi e la fine della guerra, poi la smilitarizzazione, poi un'Autorità nazionale palestinese più trasparente, meno nepotismo, meno corruzione...". Tutti gli ingredienti della proposta di Macron sono stati capovolti, ma sono ancora lì. Macron ha messo lo Stato palestinese al primo posto, Trump ha cambiato l'ordine delle sequenze necessarie: ma la strada è quella. E capisco anche perché lo ha fatto: il conflitto fra Israele e Palestina è un campo minato, a nessuno piace camminare sulle bombe”.
Quindi è d’accordo? “Guardi, per me la cosa davvero importante è rendere questa bellissima terra un luogo di pace, un luogo creativo per entrambi i gruppi, in modo che non ci siano minacce, uccisioni, morti...”.
La sua visione è piuttosto utopistica, considerando la situazione di oggi: dentro e fuori i confini dello Stato di Israele… “La pace esiste quando la vita quotidiana è pacifica. Io sono di Haifa: Haifa è un modello interessante, perché è l'unica grande città di Israele dove una parte consistente della popolazione palestinese è rimasta dopo il 1948, e lo si percepisce ancora oggi: la maggior parte dei governi locali in questi anni hanno sempre incluso un partito arabo. Haifa è un piccolo modello che può funzionare. Io sono architetto di formazione: e in questo periodo sto lavorando insieme a un amico, anche lui architetto, che ha appena vinto un concorso per costruire sette asili infantili ad Haifa. Quelli a cui sto lavorando io, insieme a mio figlio, anche lui architetto, saranno bilingue: si insegnerà l’ebraico ma anche l’arabo. Ad Haifa ci sono liste d'attesa di persone che vogliono che i propri figli frequentino scuole simili, sperimentando l'altra cultura. Questo è fantastico. Per me è da lì che inizia tutto: questi neonati, bambini, adulti, parleranno e impareranno a conoscersi. L'ignoranza è il nostro grande nemico”.
Lei è ottimista? “Mi sento ottimista perché non abbiamo scelta. Penso che dobbiamo mantenere la speranza perché amo questo Paese. Vorrei, e molti con me vorrebbero, che Israele continuasse ad esistere ma come Paese democratico, liberale, con libertà di espressione. Sono pronto a combattere per questo. Credo che la Storia non vada avanti solo con mitragliatrici e denaro, ma anche con le idee. E quindi, continuerò a parlare di idee. A volte il risultato non è immediato, ma qui non ci sono altre possibilità: o ci sarà un massacro totale di entrambi i gruppi, o dovremo trovare un nuovo modus vivendi. E spero che questo conflitto porti alla seconda conclusione: dobbiamo trovare il modo di adattarci. A vicenda”.

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