Il professor Grammaticus, un giorno, decise di riformare la grammatica.
- Basta, - egli diceva, - con tutte queste complicazioni. Per esempio, gli aggettivi, che bisogno c'è di distinguerli in tante categorie? Facciamo due categorie sole: gli aggettivi simpatici e gli aggettivi antipatici. Aggettivi simpatici: buono, allegro, generoso, sincero, coraggioso. Aggettivi antipatici: avaro, prepotente, bugiardo, sleale, e via discorrendo. Non vi sembra più giusto?
La domestica che era stata ad ascoltarlo rispose: - Giustissimo.
- Prendiamo i verbi, - continuò il professor Grammaticus. - Secondo me essi non si dividono affatto in tre coniugazioni, ma soltanto in due. Ci sono i verbi da coniugare e quelli da lasciar stare, co-me per esempio: mentire, rubare, ammazzare, arricchirsi alle spalle del prossimo. Ho ragione sì o no?
- Parole d'oro, - disse la domestica.
E se tutti fossero stati del parere di quella buona donna la riforma si sarebbe potuta fare in dieci minuti. (“La riforma della grammatica”, racconto di Gianni Rodari tratto dal volume “Il gatto viaggiatore e altre storie” edito da “l’Unità/Editori Riuniti, 1990).
“Perché con il Novecento è finito l’Occidente”, testo di Stefano Massini pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’undici di ottobre 2025: Un tramonto e un’alba. L’animale morente che scalcia irruento, il nuovo tempo che prende forma in un possibile, potenziale neo-umanesimo del Terzo Millennio. (…). Insomma, essendo un figlio degli anni ’70, non ho in me quella forma inevitabile di appartenenza al secolo scorso che percepisco viceversa caratterizzare chi ogni giorno mi parla dal precedente livello anagrafico. E come potrebbe non essere così? Sono un frontaliero dei due secoli. Ed è da qui che vorrei partire, dal passaggio di testimone di un’epoca che sconfina nella successiva e resiste con le unghie e con i denti, a coniugare i propri verbi al passato remoto replicando a un secolo di distanza il terrore dell’operatore Gubbio pirandelliano. Ma se questo è il nucleo tematico delle riflessioni (…), non mi sfugge il fatto che il loro punto di vista sia così dichiaratamente basato sul piano temporale, ovvero sulla contrapposizione fra un prima e un dopo, Novecento e Duemila, ciò che fu e ciò che promette di essere, con tutti i chiaroscuri del caso. A me piacerebbe spostare adesso il piano della disamina dalle ascisse del tempo alle ordinate dello spazio, e lo faccio con una domanda molto drastica: l’Occidente (e il sottoscritto in lui) ha ancora titolo per indagare il poi, o questa nostra pretesa si tramuta in arbitrio? L’analisi di Baricco (…) vale ancora come espressione di una centralità ideativa ed effettiva, oppure siamo derubricati a irrilevanti uditori in una partita che ci vede sugli spalti? Questa mi sembra essere la discriminante, se si considera che l’Occidente è il fulcro attorno al quale ha ruotato claustrofobicamente tutta la Storia dei nostri due minuscoli millenni, mentre adesso siamo la zavorra polverosa di un pianeta che progetta altrove la propria sopravvivenza. Nel 1907, Emilio Salgari scrisse col suo passo uno dei suoi libri dimenticati, Le meraviglie del Duemila, in cui egli si immagina una macchina del tempo alla Wells, che porta i protagonisti a visitare il - nostro - Terzo Millennio, prefigurato dal buon romanziere anche con una serie di giuste profezie (la plastica, lo smog, perfino la tv), ma con un asse tutto incentrato sul Nordatlantico. Era per Salgari la più naturale delle previsioni, ma si è rivelata del tutto erronea, se si guardano le cifre, i dati, i numeri feroci su cosa siamo realmente noi, oggi, umanità del 2025. Vediamolo. Nel 1950 la classifica delle città più popolose e produttive del mondo celebrava le blasonate capitali europee accanto alle metropoli americane, con Shanghai che a stento compariva con tre milioni di abitanti in meno di Londra o di New York. Oggi, scorrendo i dati aggiornati a pochi anni fa, la Londra di Dickens è rapidamente precipitata alla trentesima posizione, mentre Shanghai la supera di oltre il triplo dividendosi il vertice con megalopoli come Tokyo, Chongqing, Giacarta, Delhi, Manila, Mumbai. Per incontrare New York, quella che per Salgari sarebbe stata la Gerusalemme del futuro, si deve scendere alla decima posizione. Ma ciò che è più grave è che di tutto ciò che si muove in questi veri centri irradianti del pianeta noi non sappiamo praticamente niente, anzi da nipotini saccenti del colonialismo ci scandalizziamo per la parata militare di Xi Jinping, qui forzata nella parentesi narrativa di un Pacific-Pride in funzione anti-atlantica. E se fosse tutto l’opposto di un esibizionismo muscolare? Se quel congresso fosse invece il paradigma di una loro acquisita, definitiva consapevolezza di innegabile primato, non più nello spirito di un conflitto (l’ossessivo “contro di noi”) bensì di un già avvenuto sorpasso? Sì, il sorpasso. Possiamo anche continuare a raccontarcela, ma è già così: le briglie del cavallo non sono più nelle nostre mani. Siamo superati e conclusi, tramutati in una chiassosa periferia del mondo che farnetica di microscopiche ebbrezze identitarie senza rendersi minimamente conto che è la nostra stessa centralità occidentale a essere in via di irrecuperabile estinzione, schiacciata da una supremazia numerica che sposta il baricentro altrove. Abbiamo riempito le piazze per Gaza, e ha ragione Baricco a declinarvi il segno di una tendenza più che di un sussulto, ma non dimentichiamo che il Mediterraneo è — oggi più che mai — un rissoso quartiere dentro la megalopoli del pianeta, e milioni e milioni di under 25 cinesi, indiani, coreani, che saranno colonna vertebrale dell’umanità di domani ignorano l’esistenza stessa di Gaza così come noi ignoriamo il massacro in corso da ottant’anni nel Myanmar, dove la giunta militare neanche 48 ore fa ha bombardato con i parapendii una folla inerme a Thadingyut. Personalmente, leggendo libri come Wish Lanterns di Alec Ash, ho capito di dover rinunciare a formulare ogni ipotesi su dove stia andando l’umano mondo, per la semplice ragione che il mio schema mentale europeo è ormai lontano anni luce dalla fucina reale del domani, da quei potentissimi e affollati labirinti urbani dove si sta creando, già adesso, la risposta concreta alle domande sul futuro che turbano le mie sinapsi imbrigliate fra fotogrammi di imperi decaduti, relitti di socialismo reale, brandelli di cristianesimo prêt-à-porter, e iniezioni endovenose di revanscismi assortiti. Sono occidentale, europeo e italiano, quindi erede di una tradizione secolare basata sull’equilibrio sconnesso fra emozione e pensiero, il cui conflitto si trasmette a quello che da sempre rileviamo a queste latitudini fra azione e idea, fra politica e cultura, fra massa e comunità come avrebbe ben descritto Canetti. Ma cosa accade se questo software non è più quello del sistema operativo dei nuovi hardware? Posso anche parlare di un nuovo umanesimo, ma è impensabile come si concilierà la mia visione con quella di chi diverge da me sullo statuto stesso del suo essere umano. Dunque, quale umanesimo? Per rispondere dovrei entrare nel loro mondo interiore, percorrere la strada che fu di Elizabeth Gray Vining, l’istitutrice dell’imperatore Akihito, ma resterà comunque un diaframma fra il nostro ossidato Occidente e il loro laccato smagliante East of Tomorrow, ancora a noi colpevolmente ignoto. In fondo non so quasi niente di loro, io. So qualcosa del nuovo linguaggio - prevalentemente non verbale ma numerico - con cui si esprimono i giovani cinesi sulla scia di Shaolin Soccer, con tutto quel che ne consegue di drammatico se a una parola sostituisci una cifra. Ma anche qui, nell’aggettivo “drammatico” che ho appena usato, ecco emergere la mia natura di reduce disallineato, perché il mio giudizio non è il loro, siamo diversi, siamo inavvicinabili. E ancora, so della nuova frontiera dell’hi-tech che negli androidi di ultima generazione sfornati a Seul concepisce ormai l’emozione degli umani come un limite alla produttività da superare per rientrare negli standard, ma ancora prima non so del confluire in tutto questo dell’etica orientale, del diktat del tatemae nipponico per contenere e reprimere - guarda caso - le emozioni. E allora mi sento ridicolo, potrei dire. Ridicolo a congetturare una rotta del veliero se non solo mi mancano le carte nautiche, ma non conosco neppure la lingua dell’equipaggio e cosa intenda per navigare. Ormai da circa vent’anni, tanto per fare un esempio, l’industria cinematografica a stelle e strisce è stata superata per volume d’affari non soltanto da Bollywood, ma dalla quasi sconosciuta (per noi) Nollywood, cioè la gigantesca macchina miliardaria che produce film in Nigeria, a Lagos (altra indiscussa capitale del nuovo millennio, con una popolazione che al momento è venti volte quella di Roma). Ebbene, potremmo cominciare chiedendoci di quali storie, di quali idee, di quali valori parlino le centinaia di film prodotti a Lagos, non fosse altro perché l’Onu ci informa che nel 2050 un terzo della forza produttiva del globo sarà tutta concentrata nell’Africa sub-sahariana, come dire che lì starà il timone della nave. Dovremmo accettare questo cambiamento, e parlarci. Non voglio emulare il pessimismo di Vonnegut nella sua lettera a chi vivrà nel 2088, ma a quell’incontro temo non ci presenteremo, non avremo la forza di spogliarci dell’ermellino sfilacciato da ex-re per metterci in ascolto di un futuro su cui per la prima volta non vantiamo il copyright. Fingeremo di essere saldi sul trono, patetici come relitti di un tempo che fu, mentre correremo dietro a un caterpillar che senza interpellarci distrugge e ricostruisce modi, linguaggi e priorità di un pianeta irriconoscibile. Si narra che Atlantide fu la civiltà straordinaria che prima di noi raggiunse vette di progresso. Forse un giorno si dirà di noi.

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