"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 20 agosto 2025

MadreTerra. 52 Mediapart: «Il Mediterraneo che brucia».


“Il Mediterraneo che brucia: incubo 30 gradi, sparite 50 specie marine”, testo pubblicato sul giornale online Mediapart - a firma di Mikael Correia - e riportato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di agosto 2025: È un incendio invisibile. Dallo scorso 8 agosto un'ondata di caldo, la cinquantunesima dal 1947, sta attraversando la Francia, colpendo in particolare il sud-ovest e il centro-est. Il 13 agosto, Meteo France, il servizio nazionale meteorologico, poneva ancora cinque dipartimenti in allerta rossa, la più elevata, mentre i due terzi del Paese restavano in allerta arancione. Un nuovo picco è stato registrato durante questo fine settimana di ferragosto, con punte a 40 gradi centigradi in alcune località del sud. Secondo le previsioni meteorologiche, queste intense e durature ondate di caldo, rischiano di provocare anche un aumento anomalo della temperatura superficiale delle acque del mare. Il Mediterraneo bolle: fino a 30 gradi sono attesi in questi giorni al largo della Costa Azzurra e della Corsica, un livello paragonabile a quello misurato nell'agosto 2003, quando tutta l'Europa fu investita da un caldo eccezionale per durata e intensità. Il limite dei 5 giorni. Le ondate di caldo marine si verificano quando temperature straordinariamente elevate e costanti (il 90% del tempo) durano più di cinque giorni. Quella che sta attualmente vivendo il bacino del Mediterraneo, dove il primo semestre del 2025 è già considerato il più caldo mai registrato per questo mare, si sta inoltre intensificando. Secondo Mercator Ocean International, un'organizzazione no profit che fornisce servizi scientifici sugli oceani all'Unione Europea, durante la prima ondata di caldo dello scorso mese di giugno, la temperatura media della superficie del Mediterraneo ha sfiorato i 24 gradi centigradi, battendo il suo precedente record del giugno 2022. +0,4 °C ogni dieci anni. Il mese successivo, la Ong ha registrato il luglio più caldo mai osservato: la temperatura media della superficie del Mediterraneo ha raggiunto un livello senza precedenti di 26,68 gradi centigradi, con anomalie termiche che hanno colpito il 95% della sua superficie. Questi fenomeni stanno diventando più frequenti a causa dei cambiamenti climatici, con conseguenze catastrofiche per la biodiversità marina. "Le acque si stanno riscaldando sempre di più di anno in anno, soprattutto nel Mediterraneo, dove si stima che il riscaldamento sia di +0,4 gradi centigradi ogni dieci anni, contro una media mondiale di +0,2 gradi centigradi sempre su dieci anni - spiega a Mediapart Thibault Guinaldo, ricercatore presso il Centro nazionale francese di ricerche meteorologiche (Cnrm) -. E questo si verifica soprattutto perché il Mediterraneo è un mare semi-chiuso che ha pochi scambi con le acque atlantiche". Due sono le cause principali di queste ondate di caldo marine. Innanzitutto, le ragioni sono atmosferiche: le temperature molto elevate dell'aria, la forte irradiazione solare senza copertura nuvolosa e l'assenza di vento - un fattore importante nel rimescolamento meccanico delle acque - portano ad un accumulo di calore sulla superficie degli oceani. A ciò si aggiunge il cambiamento climatico, che accentua il differenziale di temperatura tra le acque superficiali e quelle profonde. "Gli scambi verticali tra acque superficiali e profonde sono meno frequenti e, di conseguenza, l'acqua si riscalda - continua Thibault Guinaldo -. In sintesi, c'è molta energia che arriva nel sistema oceanico e, parallelamente, si osservano condizioni sfavorevoli alla ridistribuzione del calore". Gli scienziati stimano che gli strati superiori dell'oceano abbiano assorbito finora circa il 90% del calore in eccesso generato dalle attività umane. Il che vuol dire che le acque del globo terrestre, tra cui quelle del Mediterraneo, dato il loro ruolo di serbatoio di calore, sono al centro del caos climatico. Ne deriva un numero sempre più elevato in tutto il pianeta di ondate di caldo marine, che è raddoppiato dal 1982. Peggio ancora, secondo un rapporto sull'oceano realizzato dal Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (Ipcc) nel 2019, le ondate di caldo marine saranno venti volte più frequenti in futuro, con un riscaldamento di + 2 gradi centigradi, e fino a cinquanta volte più frequenti se le emissioni globali di gas serra continueranno ad aumentare in modo esponenziale. Come le ondate di caldo che riguardano la terraferma, così, anche le ondate di caldo in mare, oltre a verificarsi più frequentemente, stanno diventando anche più lunghe: sempre secondo l’Ipcc, il numero di giorni di questi fenomeni in mare è aumentato del 54% dall'inizio del secolo. Gli effetti sulla biodiversità marina sono disastrosi. Fuga del fitoplancton a nord. “Negli studi che sto attualmente portando avanti sulle comunità di fitoplancton - spiega ancora il ricercatore Thibault Guinaldo - si osserva chiaramente una migrazione verso i poli, poiché le acque diventano più favorevoli al loro sviluppo, in particolare verso il mare di Barents, un mare marginale con l'oceano Artico”. Nel Mediterraneo, secondo uno studio pubblicato nel 2022 dalla rivista scientifica britannica Global Change Biology, il cambiamento climatico ha causato una "mortalità massiccia di organismi marini" su migliaia di chilometri di costa, dalla superficie dell'acqua fino a 45 metri di profondità. Tra il 2015 e il 2019, le ondate di caldo marine hanno portato alla scomparsa di una cinquantina di specie di spugne, molluschi o coralli con lunghi cicli di rigenerazione. "Il mare Mediterraneo sta su-bendo un'accelerazione degli impatti ecologici delle ondate di caldo marine, il che costituisce una minaccia senza precedenti per la salute dei suoi ecosistemi e per il loro funzionamento", hanno avvertito gli scienziati in conclusione dello studio di Global Change Biology. Thibault Guinaldo riassume così: "Ciò che pensavamo fosse eccezionale durante l'ondata di caldo del 2003, sta purtroppo diventando ricorrente anno dopo anno".

“La sfida è globale ma le risposte no”, testo di Lucio Caracciolo pubblicato sul periodico “Atlante” – del luglio 2025 – abbinato al quotidiano “la Repubblica”: (...). Il cambiamento climatico - termine già di per sé infelice, perché presuppone l'esistenza di un clima fisso che non è mai esistito, ragion per cui oggi si preferisce parlare di crisi climatica - è un tema eminentemente geopolitico. Normalmente lo si affronta e lo si discute come una questione globale, ma non lo è affatto. La crisi climatica non "cambia" il mondo solo dal punto di vista fisico, ma anche e soprattutto dal punto di vista di chi lo percepisce, a seconda dei soggetti e delle collettività interessate. L'unica ragione per cui lo si presenta come un problema globale è la consapevolezza, giusta ma vana, talvolta espressa talaltra implicita, che senza un impegno solidale di tutti o quasi tutti è impossibile immaginare una soluzione in tempi accettabili. Per rendersi conto che le cose stanno diversamente bisogna guardare ai dati. Dopo anni di battaglie per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica, codificate anche nelle tanto grandiose quanto inutili assemblee delle Nazioni Unite note come COP, non solo le emissioni non sono diminuite, ma sono aumentate I su una base recente di circa lo 0,8% ogni anno. Questo significa che l'obiettivo net-zero, proclamato dalla cosiddetta comunità internazionale, potrebbe essere raggiunto nel 2050 solo invertendo drasticamente la tendenza e raggiungendo un obiettivo annuo di riduzione delle emissioni del 4,8%, decisamente molto lontano. Se, invece, ci ponessimo un obiettivo più realistico - ma già difficilissimo - di una diminuzione dell'l% annuo, dovremmo attendere fino al 2160 per raggiungere la neutralità climatica. È difficile, per non dire impossibile, mobilitare qualsiasi comunità verso un traguardo così lontano nel tempo; figurarsi l'umanità intera. La conclusione logica è netta: se continuiamo a combattere la battaglia per la crisi climatica come stiamo facendo oggi - cioè fingendo di combatterla - saremo destinati a perdere. Anzi, questa battaglia è già persa. Bisogna prendere atto della radice geopolitica del problema, che impedisce strutturalmente una strategia globale, e cambiare radicalmente strada. Occorre affiancare alla strategia per la riduzione dell'anidride carbonica quello che in gergo si definisce eco-adattamento: non dobbiamo interessarci tanto alla questione della riduzione delle emissioni (non perché non sia importante, ma perché non è possibile risolvere la crisi con questo approccio) quanto piuttosto guardare altrove. Non agire "a monte" ma "a valle", cioè riducendo e contenendo gli effetti concreti (e molto diversi) che la crisi climatica provoca sui territori, lavorando sulla scorta delle esperienze passate. (…). Gli Stati Uniti e il fattore Artico. La ragione precipua per cui l'approccio "globale" on è quello giusto è che la crisi climatica non è uguale per tutti. Per alcuni rappresenta una formidabile opportunità strategica. L'Artico è l'esempio più lampante, tanto che l'amministrazione Trump ne ha fatto una priorità non solo militare, ma anche economica e tecnologica, nel quadro di un riposizionamento geopolitico che delimita un impero non più globale ma concentrato su una sfera d'influenza nordamericana, che dagli Stati Uniti si estende verso il Polo Nord, a partire dal Canada e dalla Groenlandia oltre che ai Paesi europei dell'Alleanza Atlantica. La ragione principale di questo riposizionamento sta nel fatto che la sfida con la Cina, per Trump, si gioca soprattutto sull'intelligenza artificiale. L'intelligenza artificiale ha bisogno di tanta energia e di tante risorse minerarie, alcune delle quali si trovano proprio nelle regioni appena citate, e soprattutto ha bisogno di acqua per raffreddare i data center. Quella che viene annunciata dalla maggior parte dei climatologi come una catastrofe, la fusione dei ghiacci artici, è in realtà per gli Stati Uniti una grande opportunità di accesso a enormi riserve idriche, per combattere problemi ambientali gravissimi, come dimostrano la desertificazione e gli incendi che hanno devastato la California. In questo senso, il fattore Artico appare una risorsa fondamentale, ma c'è anche dell'altro. Se effettivamente entro qualche decennio si arrivasse a una fusione dei ghiacci tale da permettere il transito lungo la rotta artica, quella che dall'Estremo Oriente cinese e giapponese, via Russia, va verso l'Europa settentrionale e infine verso l'America (una versione superiore del leggendario passaggio a Nord-Ovest), si verrebbe a creare una nuova rotta commerciale che presto diventerebbe la principale del Pianeta. E una rotta artica transitabile, rispetto a quella mediterranea già oggi resa più complicata dalla vicenda del mar Rosso e degli Houthi, avrebbe due enormi vantaggi. Anzitutto il tempo: per coprire il percorso dall'Estremo Oriente all'America ci vorrebbero dieci giorni in meno; poi, di conseguenza, i costi, che sarebbero seriamente abbattuti. Per noi, l'effetto sarebbe la trasformazione del Mediterraneo, che già oggi è in realtà un "Medioceano", nel senso che connette l'oceano Atlantico con quello Indo-Pacifico, in poco più di un grande lago salato, marginalizzato dal punto di vista commerciale. Potremmo continuare a farci il bagno, ma commerceremmo molto meno: un colpo durissimo per l'Italia, che non avendo accesso diretto agli oceani come Spagna, Francia e Germania, si vedrebbe "costretta" nel bacino del Mediterraneo, a sua volta costretto in una posizione minore rispetto all'Artico "liberato" dalla crisi climatica. La Russia e il Sud Globale. Sempre in tema di effetti "positivi" della crisi climatica bisogna citare anche la Russia, che analogamente agli Stati Uniti vede nel riscaldamento climatico l'occasione di favorire la sua agricoltura, già molto sviluppata, "liberando" le immense terre siberiane per espandere ulteriormente la produzione di grano e cereali. A corroborare ulteriormente il fatto che la crisi climatica stia avendo un impatto molto diverso a seconda della diversa capacità dei singoli Paesi ad affrontarne le conseguenze, e delle relative risorse e opportunità, c'è poi la situazione, dall'altra parte della barricata, del Sud Globale. Paesi come l'India, il Brasile e (in parte) la Cina hanno ottenuto degli "sconti" in sede COP rispetto al raggiungimento del net zero (Cina al 2060, India al 2070): questi Paesi si ritengono in diritto di perseguire quello stesso sviluppo che i Paesi ex coloniali ed ex imperiali si sono permessi per secoli. In sostanza, la prospettiva di questi due "blocchi" è opposta. E questa divisione si basa anche sulla responsabilità storica: secondo calcoli orientati dai Paesi del Sud Globale, che tengono conto non solo dello scenario di emissioni attuale ma anche di quello pregresso, gli Stati Uniti sono responsabili del 25% delle emissioni "storiche", l'Unione Europea del 22%, la Cina del 12,7%, l'India e il Brasile appena del 3% e dello 0,9%, rispettivamente. In sostanza, chi detiene capitali e tecnologie per le energie rinnovabili chiede a chi è in condizioni disperate, e ha inquinato meno, di rinunciare alla crescita. Questo che fa scattare l'accusa di "apartheid climatico". Surreale, specie se si tiene conto che nel frattempo gli Stati Uniti, a suon di drill, baby drill (motto esaltato da Trump ma seguito anche dalle amministrazioni precedenti), stanno puntando sullo sviluppo di ogni forma di energia domestica, inclusi gli idrocarburi e il gas, eventualmente estratti con la traumatica tecnica del fracking, e causando danni ambientali immediati come dimostra per esempio il progressivo esaurimento del fiume Colorado, che sta cambiando l'intero ecosistema dell'America occidentale. Le promesse dei Paesi ricchi. Infine, qualche considerazione economica. Oggi quasi la metà dell'umanità, circa 3 miliardi di persone, è particolarmente vulnerabile agli effetti della crisi climatica. Queste persone sono soprattutto concentrate in Africa, Medio Oriente e Sud-est asiatico. Per affrontare la crisi in queste aree servirebbero 9 mila miliardi di dollari entro il 2030 e altri 10mila tra il 2031 e il 2050. Ma i capitali sono altrove: l'84% dei fondi per la battaglia climatica è concentrato in Asia orientale, Nord America ed Europa; la Cina, da sola, stanzia il 51% dei finanziamenti per l'adattamento, primato mondiale. Le promesse che i Paesi ricchi hanno fatto a quelli poveri - 300 miliardi, stando a quanto emerso nell'ultima COP - sono briciole rispetto ai fondi necessari. E tra l'altro, visti i precedenti, molto probabilmente saranno elargiti solo in minima parte. La strada da percorrere, dunque, è un'altra. È fondamentale passare dalla retorica ai fatti, ma soprattutto dalla battaglia persa sulla riduzione delle emissioni - persa perché non si può vincere, non perché non sia importante - a quella, se non vincibile ma quantomeno gestibile, della cura delle conseguenze per i luoghi che abitiamo. In questo senso, una speranza sta arrivando dalla tecnologia. E, ancora una volta, la Cina sarà protagonista: in Cina si stanno sviluppando tecnologie che permettono di contrastare gli effetti negativi del clima sul territorio, estendendo per esempio le aree coltivabili in zone desertiche. La strategia, insomma, dovrebbe puntare su interventi mirati, strategie concrete ed efficaci, contando su nuove tecnologie. Sempre che ci salvino davvero.

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