"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 5 settembre 2025

MadreTerra. 54 Donald Trump: «Ok che sono il proprietario, ma sto giocando su quello che è, a mio avviso, il migliore campo da golf al mondo. Alzo, però, lo sguardo e vedo nove mulini a vento... Alla fine della diciottesima buca, mi chiedo: non è una vergogna? È una vergogna».


Negli ultimi due anni, l'Unione europea ha proceduto sul suo Green deal con vaghezza e incongruenze crescenti, e ci si augura che nei prossimi mesi potrà chiarire se vorrà riprendere la determinazione con cui l'ha avviato nel 2019, instradarsi definitivamente in una regressione autolesionista. Autolesionista perché è chiaro che sta rinunciando alla leadership sull'ambiente e la transizione che ha costruito. Le elezioni europee del 2024 hanno prodotto un'impennata della presenza populista di destra che critica tali impegni, e poi sono arrivate le decisioni di Trump; così sono aumentate le voci delle imprese e della politica che sostengono che l'economia non può permettersi la transizione e la Commissione ha iniziato a revocare o frenare molti punti chiave del Green deal. Quando Trump nel 2017 annunciò il ritiro degli Usa dall'accordo di Parigi, l'Europa rimase ferma e non si lasciò dettar legge, e due anni dopo varò il Green deal ponendo l'emergenza clima come obiettivo politico centrale; oggi invece appare aver perso i riferimenti della sostenibilità e non si capiscono i suoi obiettivi. Il fatto più significativo di tutta questa vicenda è la scelta di politica energetica compiuta a partire dall'invasione dell'Ucraina: prima ha scelto di svincolarsi dal gas russo a basso costo, poi si è volta al gas naturale liquefatto americano, più inquinante e più costoso. Così con una sola linea di provvedimenti ha incrementato le emissioni di CO2, aumentato i prezzi dell'energia per i cittadini, e indebolito le sue industrie. A inizio agosto ad annunciarne l'ultimo aggiornamento è stato Trump: nell'ambito dell'accordo sui dazi l'Europa si è impegnata a importare gas e petrolio americani per 750 miliardi di dollari. Dunque ben altro che il Green deal e la transizione energetica! E a rafforzare l'evidenza dello stato delle cose è arrivato a luglio l'ultimo rapporto dell'Iea con il sorprendente dato dell'impiego del carbone cresciuto dell'1,5% nel 2024. Nella vecchia Europa il primo a muoversi è stato il governo tedesco che nell'autunno del 2023 ha riattivato diverse centrali a carbone, con i partiti nel Bundestag e fuori che non hanno avanzato da allora pronunciamenti rilevanti di riflessione, e soprattutto con i Grunen che hanno taciuto. Anche Ursula von der Leyen a Bruxelles ha taciuto. Eppure l'Europa è stata virtuosa sulle sue emissioni di CO2: le emissioni pro capite dal 1990 sono calate di quasi il 40% e il Pil pro capite è salito del 60%, mentre gli Usa hanno avuto un risultato più modesto, un calo delle emissioni del 29% con una crescita del Pil di poco superiore all'europea, il 68%. È ovvio che l'impegno nel campo ambientale non deve essere abbandonato perché dobbiamo salvare l'umanità dalla catastrofe, ma si deve anche aggiungere che la rinuncia non ha senso poiché gli investimenti effettuati sono ormai tanti. Dovrebbe essere un fatto di buon senso, una constatazione scontata per tutti, eppure governi di destra, governi moderati e lobby industriali premono per un'inversione, riuscendo a impedire, o comunque a intralciare, provvedimenti decisivi. Alcuni esempi: a giugno l'Italia ha messo il veto sulla direttiva che avrebbe obbligato le aziende a dimostrare la sostenibilità dei propri prodotti; sempre a giugno, la Francia di Macron ha fatto pressioni per ritardare la definizione degli obiettivi climatici dell'Unione per il 2040; a luglio è stato proposto un aggiustamento su tali obiettivi di emissioni del 90% consistente in una loro diminuzione a un 87% da abbassare veramente in Europa e il restante 3% da gestire con il meccanismo del mercato dei crediti di carbonio, ossia si può inquinare quel 3% nel continente a patto di investire per l’equivalente in progetti green al di fuori, un meccanismo ormai con una brutta reputazione. Se quanto descritto è ciò che resta del Green deal europeo cosa resta dell’Unione europea? (Tratto da “Il Green Deal è stato un fiore all’occhiello, ma ora l’Ue lo molla” di Grazia Pagnotta pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 3 di settembre 2025).

“Che fine ha fatto il Green Deal?” di Gabriele Rosana, pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 30 di agosto 2025: Come Don Chisciotte contro i mulini a vento.  Ma, stavolta, prendendo l'espressione alla lettera.  Una delle ultime crociate di Donald Trump altro non è che il rilancio di un vecchio cruccio del tycoon (ri)diventato presidente: eliminare parchi eolici, pale e turbine. "Mulini a vento", appunto. Accusati dall'inquilino della Casa Bianca di "distruggere la bellezza dei nostri panorami, delle nostre valli, delle nostre bellissime pianure", ma anche di "fare un sacco di rumore e persino di uccidere gli uccelli e le balene". Era il 2012 quando un Trump ancora (solo) eccentrico imprenditore avviò la sua campagna anti-eolico. In un'audizione di fronte al Parlamento della Scozia si scagliò contro il piano, poi realizzato, di costruire turbine nei pressi di un suo golf resort nell'Aberdeenshire. Ora è tornato alla carica, dopo aver autorizzato, tra i primi atti del nuovo mandato, vecchi impianti a carbone a rimanere aperti, promesso di estrarre più gas e petrolio così da fare degli Usa la superpotenza energetica mondiale e formalizzato (per la seconda volta) l'uscita degli Usa dagli Accordi di Parigi sul clima (per mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi). E a 13 anni di distanza lo ha fatto proprio da una sala del resort scozzese di Turnberry: "Ok che sono il proprietario, ma sto giocando su quello che è, a mio avviso, il migliore campo da golf al mondo. Alzo, però, lo sguardo e vedo nove mulini a vento... Alla fine della diciottesima buca, mi chiedo: non è una vergogna? È una vergogna". Accanto a lui una Ursula von der Leyen semi-pietrificata, speranzosa di concludere di lì a momenti con una stretta di mano e un pollicione all'insù a favore di telecamera un patto commerciale in grado di limitare i dazi sulle importazioni dall'Ue. La presidente della Commissione europea sembrava aspettare solo la fine di quell'interminabile filippica contro le energie rinnovabili, cercando di non urtare la suscettibilità dell'alleato né dare l'impressione di non tenere in debita considerazione le paturnie dell'uomo d'affari fattosi autorità pubblica. Un siparietto altamente rivelatore. Perché da quando è cominciato il suo secondo mandato al vertice del "governo" dell'Ue, von der Leyen si è fatta notare soprattutto per una tendenza: quella di smorzare e rallentare - se non proprio smontare, tassello dopo tassello - gli impegni del maxi-impianto legislativo messo in piedi da lei stessa nel 2019, e difeso nei primi 5 anni a Bruxelles: il Green Deal. Tra obiettivi di ampio respiro e normative di settore - imballaggi e automotive, edilizia e agricoltura -, con quel piano verde l'Ue ha deciso di intraprendere un percorso per azzerare le emissioni di CO2 entro metà secolo. Un proposito che ha presto fatto dell'Europa la forza trainante della diplomazia climatica mondiale. Eppure, «da qualche tempo stiamo assistendo a un cambio di rotta», ammette Marta Lovisolo, che da Bruxelles segue le politiche europee per Ecco, think tank italiano che si occupa di clima. «Siamo passati da una stagione politica in cui c'era una forte intenzione di occuparsi di cambiamento climatico, a livello Ue e di singoli Stati, a una in cui ciò può ancora accadere ma a patto che si realizzino altri fattori, dalla crescita economica all'indipendenza da fonti fossili straniere». Come quelle russe, ad esempio. È la linea morbida espressa dalla Germania del cancelliere Friedrich Merz: «Dobbiamo trovare un migliore equilibrio tra lotta al cambiamento climatico, che è più necessaria che mai, e l'esigenza di evitare la deindustrializzazione nei nostri Paesi». E infatti nella sua prima missione ufficiale a Bruxelles, Merz non ha perso occasione per presentare la lista dei desideri alla connazionale von der Leyen: in cima la richiesta di smantellare le regole Ue sulla due diligence aziendale, descritte come il simbolo della burocrazia brussellese che ostacola la produttività dell'industria europea. Nome in codice Csddd, si tratta di paletti, approvati a fatica appena un anno fa, per monitorare e tenere sotto controllo i rischi legati a danni ambientali e violazioni dei diritti umani lungo tutta la filiera produttiva. Pensiamo a un'azienda con fornitori fuori dall'Ue che, quindi, rischia di contribuire all'inquinamento di fiumi o al disboscamento in altri angoli del pianeta. Quando la Csddd è stata approvata - pur con una serie di esenzione per "salvare" le imprese medio-piccole, l'aria era già cambiata. Ma è solo un esempio. L'applicazione di un nuovo regolamento sulla deforestazione è stata rinviata, benché caffè, cioccolato e soia che finiscono sugli scaffali europei siano ritenuti dall'Onu responsabili di circa il 10% della perdita globale di foreste; mentre all'inizio dell'estate una brusca battuta d'arresto l'ha subita la direttiva sui green claims, pensata per frenare la pubblicità ingannevole e il greenwashing, dai cosmetici rispettosi dell'ambiente al cotone organico. Pure la Francia di Emmanuel Macron, fino a poco tempo fa paladina delle politiche ecologiche, ha cominciato a puntare i piedi. Per esempio sulla fissazione di un nuovo target vincolante intermedio, pari al -90% della C02 entro il 2040, che ha visto la luce condito da una buona dose di flessibilità. Buon senso, realismo e pragmatismo diventati già da qualche mese le parole chiave di von der Leyen. La stella del Green Deal, dopotutto, si era offuscata all'indomani delle elezioni europee del giugno 2024, complice l'affermazione nelle urne di forze di destra e centrodestra e la parallela flessione di verdi e liberali, che fino a quel momento avevano fatto da traino, insieme ai socialisti, allo sviluppo di politiche ambiziose per l'ambiente e il clima. L'asse delle destre non ha i tratti di una vera coalizione, ma si è consolidato all'Europarlamento proprio sulla sfida ai dossier green. L'agenda per la competitività ha fatto il resto, spostando la necessità di proteggere il tessuto industriale Ue in cima alla lista con una raffica di interventi di semplificazione - nuovo mantra europeo - anche di regole in vigore da meno di 12 mesi. «Non siamo di fronte a un'inversione a U, ma a una riorganizzazione delle priorità», spiega Lovisolo. Insomma, Clean is the new Green. Le parole sono importanti, ma ancor di più è il passaggio dai vincoli agli incentivi. Sostegni, cioè, per accelerare la trasformazione industriale attraverso le tecnologie pulite. Ma se Washington spinge a comprare più gas, Pechino preme sui pannelli solari. «Tirare il freno a mano perché Trurnp ci chiede di farlo è rischioso per un'Europa che, di fronte alle conseguenze estreme del cambiamento climatico - alluvioni, incendi e siccità - ha la possibilità di continuare a contare qualcosa nel panorama globale», ragiona la nostra interlocutrice. Cina e India, le principali economie inquinanti del pianeta, non sono negazioniste come gli Usa ma contano di raggiungere le emissioni zero al loro ritmo, rispettivamente nel 2060 e nel 2070. È con questi alleati che l'Ue conta di fare fronte comune alla Cop30 di Belem, conferenza Onu sul clima in programma in Brasile a novembre. Ma, prima, gli europei dovranno chiarirsi fra loro. Se la politica si ammutina, la realtà delle cose (e dei numeri) racconta, dopotutto, una storia parzialmente diversa. L'Ue, infatti, si trova sulla buona strada per raggiungere l'obiettivo di ridurre del 55% (rispetto ai valori del 1990) le emissioni di C02 entro il 2030, primo dei target intermedi verso la neutralità climatica. E questo grazie a una decisa spinta sulle rinnovabili, che nel 2024 sono state all'origine della produzione del 47,3% di elettricità nel Vecchio Continente, quasi la metà del totale, secondo un report di Eurostat di inizio luglio. II solare, in particolare, è in grande espansione. Ma clean, pulito, è tutto ciò che non è carbone, petrolio e gas. E infatti, dopo anni di resistenze ormai a Bruxelles si parla apertamente anche di "rinascita nucleare". L'atomo, l'anno scorso, ha rappresentato la seconda fonte di produzione di elettricità, con il 23,4%. Un trend ancora non uniforme. A fronte di reattori chiusi, come in Germania o Spagna, nel 2023 la Finlandia ha tagliato il nastro della centrale di Olkiluoto 3: un appuntamento che nell'Ue mancava da 16 anni. È la più grande d'Europa e, secondo le stime, riuscirà a soddisfare quasi un terzo del fabbisogno nazionale. Simbolo ineludibile di un'Europa equilibrista, in casa propria e fuori. E che cerca di tenere la barra green, nonostante tutto.

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