Sopra. Anna Achmatova.
Le parole hanno smesso di raccontare il mondo: lo stanno riscrivendo. In pochi mesi Trump and friends hanno abilmente saltato la staccionata e fatto saltare le categorie del Novecento attraverso un impianto di ingegneria percettiva che troppo spesso è stato liquidato come “stile comunicativo”, o peggio ancora, “carattere”. Invece si tratta di un fantasmagorico impianto scenografico della comunicazione e della messa in scena in cui il male diventa un valore e il crimine un vanto. Siamo nel tempo in cui la morale è superflua, non serve, la riflessione etica da Aristotele a oggi è andata a farsi benedire. Quello che ritenevamo fondante della nostra civiltà, l’interrogativo etico della nostra coscienza, è stato silenziato e dismesso come una cianfrusaglia inutile. E come ci ha avvertito qualche giorno fa Ezio Mauro: questa è una “anticipazione di futuro”. Attenzione: tutto questo non è responsabilità esclusiva dei politici. È un sistema che funziona perché trova terreno fertile. Quel terreno fertile siamo noi, nessuno escluso: stanchi, sovrastimolati, ignoranti e alla continua ricerca di scorciatoie cognitive, di frasi brevi e identità forti. Per questo veniamo sedotti da una comunicazione che non racconta più il mondo: lo sostituisce. Guardiamo a tre esempi recenti per capire cosa accade. Il caso di Trump alla Knesset è emblematico. Con una frase – “Netanyahu mi ha chiesto tante armi, gli ho dato le migliori. Le ha usate bene” – il conflitto a Gaza viene rimosso. Non esiste più il dolore, la morte, la devastazione: esiste la performance. La guerra diventa tecnologia applicata. Un’operazione ben riuscita. Il frame non è giusto/sbagliato, ma efficiente/inefficiente. È un linguaggio che trasforma la violenza in risultato. Che scavalca il giudizio morale e lo sostituisce con la logica della prestazione. Il cervello, stimolato nei circuiti della ricompensa, applaude. Per fortuna, non fino al punto di dargli il Nobel per la Pace. Intanto a casa nostra, esaminandone una tra tante, Giorgia Meloni si è mossa sul piano dell’identità. “La sinistra è più fondamentalista di Hamas” non è una provocazione qualsiasi: è una manovra retorica chirurgica. Crea un cortocircuito cognitivo che sovrappone opposizione politica e terrorismo. Non esiste più l’avversario legittimo, ma il nemico da delegittimare. È la semplificazione come arma. La complessità viene eliminata, la polarizzazione assolutizzata. Chi è dentro è giusto. Chi è fuori pericoloso. Il potere così si blinda, si difende, e soprattutto non si spiega più. E poi c’è il terzo fronte, forse il più scivoloso. Quello della negazione morbida, della sospensione del giudizio spacciata per prudenza istituzionale. L’abbiamo vista con Incoronata Boccia, ufficio stampa Rai: “Nessuna prova che Israele abbia mitragliato i civili a Gaza”. Non è un’affermazione neutra: è una strategia. Si chiama gaslighting politico e va a spostare la soglia della credibilità. Si insinua che la realtà sia troppo confusa per essere afferrata, che ogni immagine sia propaganda, ogni accusa manipolazione. Il risultato? Noi, già confusi e saturi, rinunciamo al giudizio, cedendo a chi urla più forte o promette più ordine. Ecco, tutto questo non accade per caso. È una comunicazione che sfrutta tre leve neuropsicologiche fondamentali. La prima: semplificazione emotiva. In un mondo complesso, il cervello cerca narrazioni semplici. E chi gliele fornisce vince. La seconda: rinforzo identitario. Il linguaggio non chiede di capire, ma di appartenere. Il consenso si trasforma in appartenenza tribale. La terza: dissonanza anestetica. Il bombardamento continuo di frasi contraddittorie, aggressive, ipersemplificate crea assuefazione. Il cervello, per difendersi, smette di percepire la contraddizione. È così che le destre estreme stanno costruendo il loro spazio cognitivo. E lo fanno viscidamente, una parola alla volta. E con successo, perché si muovono in un contesto sociale già predisposto. Una società impaurita, sfibrata, piena di ansie collettive e memoria corta. Una società che non ha tempo di leggere, di verificare, di distinguere. Una società che, per resistere allo stress informativo, cerca scorciatoie, slogan, certezze. Il risultato è un rovesciamento dei codici. La violenza diventa difesa. Il crimine, efficienza. Il dubbio, colpa. La complessità, sospetto. È un mondo capovolto in cui il neuro-populismo si fa bandiera. Ed è in questa cornice sbilenca e distorta che ci si intesta la pace anche se si è contribuito alla morte di 60 mila civili, la bugia diventa metodo, l’autoritarismo si avvicina a passo svelto. La nostra libertà nasce dalla consapevolezza (anche) linguistica con cui cerchiamo di comprendere il mondo. La libertà non è un valore astratto, è un atto di lucidità. La libertà non è più nel diritto di parlare, ma nella forza di capire. E oggi capire, davvero capire, è l’atto più radicale, più politico, più rivoluzionario che ci resti. (Tratto da “Così ci inganna il potere: frasi brevi, identità forti” di Simona Ruffino – “Neurobrand Specialist & Brand Strategist” – pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, domenica 19 di ottobre 2025).
“LeggerePaoloNori”. “A teatro i martiri della libertà”, testo di Paolo Nori pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi: Io per molti anni, quando mi chiedevano che mestiere facevo, rispondevo che scrivevo dei libri, e se mi chiedevano che libri rispondevo dei romanzi, e mi sembrava di dire una cosa vera. Adesso, ultimamente, continuo a scrivere dei romanzi ma scrivo anche delle altre cose, per il teatro, soprattutto. Ho debuttato, tre anni fa, con un monologo che si intitola La libertà. Primo episodio, con la regia di Paola Donati, le musiche di Alessandro Nidi e la produzione del Teatro Due di Parma; ho scritto, tra il 2023 e il 2025, il libretto di un'opera lirica di Silvia Colasanti che ha debuttato alla Scala di Milano lo scorso settembre (con la regia di Giulia Giammona); ho debuttato, quattro giorni fa, il 15 ottobre, sempre al Teatro Due di Parma e sempre con Paola Donati e Alessandro Nidi, con un monologo intitolato La disperazione. Secondo episodio. Ecco, io ho l'impressione che queste tre cose, abbastanza diverse, tra loro, siano anche, in un certo senso, l'una la conseguenza dell'altra. In La libertà. Primo episodio, viene citato un discorso del 1988 di Iosif Brodskij agli studenti dell'università del Michigan: "La sola cosa che di sicuro capiterà al mondo - dice Brodskij - è di diventare più grande, vale a dire più popolato senza crescere di dimensioni. Non conta con quanta onestà l'uomo che avete eletto prometterà di suddividere la torta, questa non crescerà di dimensioni; in effetti, le porzioni sono destinate a diventare più piccole. Alla luce - o, piuttosto, all'oscurità -di ciò, dovreste far conto sulla cucina di casa vostra, vale a dire prendervi cura vuoi, del mondo". Mi sembra, per quanto sia difficile, per uno che ha scritto una cosa, dire cosa c'è, in quella cosa che ha scritto, ma mi sembra che nella Disperazione. Secondo episodio si provi a raccontare proprio quella roba lì: quello che è successo, e che succede, nella cucina di casa mia. Che mi rendo conto non sia una prospettiva molto attraente, per uno spettatore, venire a visitare la cucina di casa mia, ma io, non posso farci niente, mi sembra proprio che lo spettacolo parli di quello. L'opera lirica che va in scena alla Scala, invece, Anna A., dedicata ad Anna Achmatova, a me sembra di averla capita meglio perché lì non ero in scena come nei monologhi, non ero sul palco a cantare, ero tra il pubblico, e anche lì, devo dire, pure l'opera lirica di Silvia Colasanti io la potrei raccontare a partire dalla Libertà. Primo episodio. Che nella Libertà viene citato Bartolomeo Vanzetti, l'italiano giustiziato, negli Stati Uniti, insieme al suo compagno Nicola Sacco, il 23 agosto del 1927 a mezzanotte e diciannove minuti, sulla sedia elettrica, perché accusato di aver ucciso un contabile nonostante le prove della sua innocenza, tra le quali la confessione dell'autore della rapina, Celestino Madeiros, e vengono citate in particolare le ultime parole che ha detto, Vanzetti, ai giudici delle contea di Norfolk, il 9 aprile del 1927, dopo che gli era stata notificata la condanna a morte inflitta da una giuria presieduta da un giudice, Webster Thayer si chiama, che aveva detto di Vanzetti e di Sacco che erano "due anarchici bastardi", e si dice che Vanzetti, rispondendo alla domanda di rito “Bartolomeo Vanzetti, avete qualcosa da dichiarare?", Vanzetti disse di sì, che aveva ancora delle cose da dichiarare, e parlò per mezz'ora, e le ultime cose che disse furono queste: "Ho già detto che non soltanto non sono colpevole di questi delitti, ma non ho mai commesso un delitto in vita mia, non ho mai rubato, non ho mai ucciso, non ho mai versato una goccia di sangue e ho lottato contro il delitto, ho lottato sacrificando anche me stesso per eliminare i delitti che la legge e la chiesa ammettono e santificano. Questo è quello che volevo dire. Non augurerei a un cane o a un serpente, alla più miserevole e sfortunata creatura della terra, ciò che ho avuto a soffrire per colpe che non ho commesso. Ma la mia convinzione è un'altra: che ho sofferto per colpe che ho effettivamente commesso. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e in effetti io sono un anarchico; ho sofferto perché sono un italiano, e in effetti io sono un italiano; ho sofferto più per la mia famiglia e per i miei cari che per me stesso; ma sono tanto convinto di essere nel giusto che se voi aveste il potere di ammazzarmi due volte, e per due volte io potessi rinascere, vivrei di nuovo per fare esattamente ciò che ho fatto finora. Ho finito. Grazie".
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