"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 2 settembre 2025

Lastoriasiamonoi. 95 Il monaco rispose: «Ti sei mai chiesto cose vuol dire malinconia? Bile, ragazzo. Nient'altro che bile. La secrezione oscura del fegato. Viene dal greco melancholè, letteralmente "nera bile", che in turco è kara sevdah. Eccola, mio caro, la tua sevdalinka, ecco che cos'hai udito in Bosnia. Dal Mediterraneo fino in Arabia e in India si sa da millenni che quella emulsione simile all'inchiostro è la madre delle emozioni. Il cuore? Romanticherie d'Occidente! In India, questo forse ti stupirà, ma alla donna amata non si dice "mio cuore", ma "fegato mio"».

                                    Sopra. "Ratto d'Europa".

Solo la satira (vedi Una modesta proposta di Swift) poteva concepire qualcosa di simile al piano di eradicazione dei gazawi da Gaza per fare di quel litorale un resort di lusso. Eliminare i poveri e spianare le loro case per fare posto ai ricchi in vacanza. Il beffardo procedimento logico di Swift (è socialmente utile, scrisse il grande irlandese, che i bambini poveri vengano dati in pasto ai ricchi, così da problema diventano risorsa) fu identico a quello degli odierni pianificatori americani e israeliani: con la differenza che passa tra un pamphlet satirico, il cui scopo era mettere in luce la mostruosità del classismo, e un progetto economico-politico che in quella mostruosità invece confida, la propugna e la vuole mettere in atto. È difficile immaginare una visione più disgustosa e violenta del mondo, ma tant’è, questo è il menù che passa il convento: ecco un business che si nutre di sterminio, deportazione, esproprio, umiliazione. Sulle rovine della città distrutta, per impedire ad alcuno di rimpiangerla o peggio ricostruirla, non spargeranno sale ma dollari: e ne saranno anche fieri, convinti di avere bonificato, con i loro resort di merda, la morte sottostante. Se mai vedremo (e niente, in questo momento, ci sembra impossibile) un tale abominio, saremo autorizzati a considerarlo un significativo test su ciò che resta di umano, tra gli umani: odiare New Gaza, i suoi progettisti, i suoi costruttori, i suoi frequentatori, per quanto mi riguarda sarà condizione indispensabile per continuare a considerarsi umani. E come i lettori sanno, odiare non è un verbo che spendo con spensieratezza. (Tratto da “Spargere dollari sulle rovine” di Michele Serra pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, martedì 2 di settembre 2025).

Oriente/Occidente”. “Inseguendo Oriente ritrovai Occidente”, testo di Paolo Rumiz pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 31 di agosto 2025: Era una notte di pioggia, e un uomo - un europeo d'Occidente, smarrito come tutti noi in una tempesta di guerre e migrazioni - si svegliò di colpo e si chiese: Che mondo è il mio?  A chi e a che cosa appartengo?  Dove incomincia l'Altrove? Qual è la differenza tra noi e quelli che vengono da lontano? Cosa vuol dire Occidente? Per capire, fece le valigie e partì verso Oriente. Era un uomo inquieto, era nato e vissuto in terra di frontiera, e la sua passione era oltrepassare i confini. Amava i treni, le corriere, e il suo orecchio attento era predisposto all'ascolto. Soprattutto amava la musica, la musica della sua Europa. Ebbene, gli bastò arrivare nei Balcani per essere travolto da una cosa nuova, imprevista e inquietante. Esplosione di infernali ritmi dispari, baraonde di ottoni in un bombardamento di tamburi, tonalità che mandavano a quel paese il rassicurante do-re-mi-fa-sol della nostra scala maggiore e spalancavano l'orizzonte per lui misterioso della musica modale. Mozart era già distante come la Luna. In quella terra vide con sconcerto che il kalashnikov, il sassofono e la raldja erano capaci non solo di convivere, ma anche di scrivere grandiose storie di sangue e di miele. A una festa della fioritura, fu trascinato in un antico ballo circolare che sapeva di turco e festeggiato con spiedini alla griglia, grappa e melone fresco. A un concerto di ottoni scoprì uno zingaro capace di soffiare in un sax e nello stesso tempo in un clarino, per cinque minuti, senza prendere fiato, grazie a una perfetta respirazione circolare. Per strada, vide un uomo felice assoldare zingari armati di fiati e tamburi, e con loro girare con una bottiglia di vino in mano e, dietro, un codazzo di passanti. Allora esultò e disse: ecco l'Oriente! E con la fantasia già vide minareti, cammelli, carovane e palmizi. Ma oscuramente sentiva che in quel mondo nuovo si nascondeva qualcosa di suo, che aveva perduto. Giunto ad Atene, chiese a un uomo colto, azzimato e magro, cosa fosse quel "qualcosa" che lo inquietava, e il greco, fumando, gli rispose: «È Dioniso, bellezza. Dioniso, il dio del terrore ebbro e del caos creatore presente nei Balcani fin dalle origini minoiche della mia terra». A quelle parole, sentì uno strappo, come di donna amata e perduta, e gli fu naturale chiamare quel sentimento "malinconia". Già, da quelle parti non c'era solo la baraonda degli ottoni e dei tamburi. C'era la malinconia. Dalla Serbia alla Grecia quei dannati balcanici la declinavano come nessuno. Ce n'era dappertutto. Ai musicisti di strada la gente elargiva somme importanti chiedendo loro: «Dai, facci piangere», e loro lì a spremere dalla fisarmonica o il violino note strazianti di amori infelici. In una taverna di Salonicco, aveva osservato stupefatto dei greci lanciarsi insieme in un hasapiko, il ballo dei macellai, gli stessi che da millenni, senza sapere di essere sacerdoti, sacrificano tori a Gerione o al dio Mitra. In Macedonia aveva udito un uomo salutare il tramonto con una canzone detta Zajdi Zajdi, Jasno sunce, costruita su modulazioni così struggenti da sembrare una preghiera. In Montenegro aveva incontrato un vecchio rugoso, con une liuto tra le cosce e le vene del collo gonfie per lo sforzo, che oscillava col corpo emettendo singhiozzi acutissimi venuti da chissà dove. A Patrasso aveva invidiato un profugo greco di Smirne capace di mettere a nudo in pubblico l'anima inquieta, solo tra la gente di una taverna, ballando uno zeibekiko, la danza guerriera dei turchi ribelli, ostili al dominio ottomano. Allora ripensò a Sarajevo, dove si ricordò di aver sentito una donna dagli occhi neri cantare una triste canzone d'amore del genere detto sevdalinka, e si ricordò che lei gli aveva spiegato una cosa: dietro a quel nome c'è una parola turca, sevdah, «esse e vu di acca», che vuole dire proprio.... «ma-lin-co-nia», Non comprese bene ma sentì di essere, forse, sulla strada giusta. Eppure quello non era ancora Oriente. Così gli disse il greco. Erano ancora i boschi oscuri dei Balcani. Quei boschi dove da millenni risuona il flauto del dio Pan. Qualcosa di antico, che precedeva di secoli l’Islam e ci riportava a un Mediterraneo attorno al quale Asia, Europa e Africa avevano formato un unico pentolone sonoro. «Per capire sul serio - lo avvertì l'uomo - devi continuare il viaggio. Andare fino in India, per scoprire che il flauto del dio Krishna è lo stesso del dio Pan. Lì vedrai che, come Pan, anche Krishna suonerà per te la gioiosa innocenza dell'eros, la felicità divina della carne che il Mediterraneo ha concepito, e l'Occidente ha poi rinnegato per secoli». Allora continuò il viaggio, alla ricerca degli dei. In una piccola moschea di Istanbul udì, stupefatto, il canto soprannaturale di un cieco in mezzo a un popolo di Sufi genuflessi e ondeggianti come alghe in fondo al mare. Nella profonda Anatolia sentì il suono arcano di un clarinetto detto zuma e il tuono lungo di un gigantesco timpano di nome dabour. Sul Caucaso tacque di reverenza davanti alla modulazione di un flauto chiamato duduk, figlio della diaspora armena. In Iran fu rapito dal suono del tar e dai gorgheggi di un canto d'amore che era brivido di qualcosa di infinitamente antico. Osò valicare le nevi degli afghani, dove udì echeggiare, lontano tra i monti, il richiamo «Allahu akhbar». E, alla fine, in un canto degli zingari del Pakistan, ritrovò le stesse tonalità tristi delle canzoni di Bosnia, così simili che tanto che per un attimo risentì l'odore di peperoni e lo stormire di foglie di platano dei Balcani. E di nuovo sentì una fitta al cuore. Non si fermò ancora, voleva sapere dove si nascondeva la madre della malinconia. Giunse in India, in un tempio profumato di incensi dove abitava un sapientissimo monaco. Lo trovò e gli chiese: qual è la sorgente del sentimento che gli arabi chiamano sawda e i turchi seudah? Il monaco rispose: «Ti sei mai chiesto cose vuol dire malinconia? Bile, ragazzo. Nient'altro che bile. La secrezione oscura del fegato. Viene dal greco melancholè, letteralmente "nera bile", che in turco è kara sevdah. Eccola, mio caro, la tua sevdalinka, ecco che cos'hai udito in Bosnia. Dal Mediterraneo fino in Arabia e in India si sa da millenni che quella emulsione simile all'inchiostro è la madre delle emozioni. Il cuore? Romanticherie d'Occidente! In India, questo forse ti stupirà, ma alla donna amata non si dice "mio cuore", ma "fegato mio". Già, ma voi d'Occidente avete dimenticato tutto questo. Avete gli orologi, ma noi abbiamo il tempo. Voi avete la luce della religione, noi il sacro, che è buio e insondabile. Voi avete il sesso, noi la felicità dell'eros. Voi soffrite di depressione. Noi di malinconia. Non è forse questo che stavi cercando? Non so per quanto durerà tutto questo. Il mondo si sta contaminando. Ma a me importava dirtelo. Bene. Ora che l'hai saputo, per te è giunto il tempo di tornare». Che strada mi consigli, chiese l'uomo. L'altro rispose: «Cerca quella dei Roma e dei Sinti che da qui migrarono a Occidente. Seguili nei Balcani e lungo la costa africana del Mediterraneo, fino in Spagna. «I gitani - disse il monaco - non hanno fatto che restituirvi ciò che avete rinnegato e perduto. Per questo li odiate. Vi ricordano ciò che siete stati. Se li seguirai, darai compimento al tuo periplo. Il periplo della malinconia». E l'uomo ripartì, tornò verso Occidente e ritrovò i gitani. Zigomi larghi, carnagione scura, occhi a fessura, capelli neri e lisci fino alla nuca. Vide che avevano invaso l'Europa come onda di risacca, rilesse la loro migrazione e capì che l'Occidente doveva loro molto. I ritmi di Ravel, di Bartòk, Debussy, ma anche di Liszt, Haydn, Schubert, Brahms. Erano stati loro a riportare in Occidente la baraonda degli ottoni e dei tamburi, ma anche il pianto dei violini. Li udì scatenare turbini di canzoni eccitate, vociferanti, esplosive, turbolente, focose, eseguite - era stato scritto di loro - «come se si trattasse di liberare con urgenza il mondo intero da un peso intollerabile», e poi, in modo fulmineo, precipitare in un grido disperato che sfoga il dolore di uno sradicamento secolare. Come dire, la malinconia. Capì che essi non avevano fatto altro che riportarci i nostri antichi dei. Li inseguì sulla costa del Nordafrica, lungo la strada dei primi cristiani e poi del Jihad dei maomettani, un sentiero segnato da diaspore dolorose e infinite. Passò Gibilterra, e vide che il senso fatale di quel destino migrante aveva creato il fado, e il flamenco, e il cante jondo, e la pena negra degli andalusi. Quei gitani avevano cantato la morte come nessuno, l'apparizione del toro nero nell'arena e la nera processione del Venerdì santo. Vide che, sull'onda dei popoli in cammino, la parola sevdah ne aveva generato un'altra: saudade, la malinconia dei portoghesi. E quando seppe che, cinque secoli prima, gli ebrei, cacciati dalla Spagna, erano fuggiti a Sarajevo tra i Turchi, portandosi dietro la vecchia sevdah, l'eterna tristezza dei senza terra; quando seppe che anche da loro erano nate le nostalgiche canzoni di Bosnia, allora vide compiersi il periplo descritto dal monaco. Il cerchio si era chiuso. Diceva che, tra Oriente e Occidente, non c'era confine, perché quello era un unico mondo. Il mondo di Europa, la giovane figlia dell'Asia sequestrata dal toro divino. Era la ragazzina impaurita strappata alla patria e portata sul mare in tempesta verso le terre sconosciute del Tramonto, come una qualsiasi delle... migranti di oggi. Quel mondo era, ed è, il nostro. Il Mediterraneo.

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