"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 26 settembre 2025

MadreTerra. 56 Goethe: «Natura! Da essa siamo circondati e avvinti, né ci è dato uscirne e penetrarvi più a fondo. Senza farsi pregare e senza avvertire, ci rapisce nel vortice della sua danza e si lascia andare con noi, finché siamo stanchi e le cadiamo dalle braccia. Viviamo nel suo seno e le siamo estranei».

Sopra. "Enea e la Sibilla Cumana" (1798), olio su tela di Joseph Mallord William Turner.

Il rapporto tra uomo e natura non è mai stato idilliaco come tanta letteratura romantica vuol farci credere a partire da Leopardi che, nell'idillio A Silvia, scrive: "O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? perché di tanto / inganni i figli tuoi?". La natura non ha mai promesso nulla all'uomo e quindi non ha nulla da rendere e tanto meno lo ha ingannato. Come scrive giustamente Schopenhauer: "Il soggetto del gran sogno della vita è, in un certo senso, uno soltanto: la volontà di vivere". Per questo la natura fornisce agli umani la sessualità per la procreazione e l'aggressività per la difesa della prole. Eseguiti questi compiti la natura destina gli umani alla morte. Questo i Greci l'avevano capito e per questo chiamavano l'uomo "il mortale". E proprio a partire da questa constatazione avevano dischiuso quell’orizzonte tragico, ma vero, che consiste nel fatto che l'uomo per vivere ha bisogno di costruire un senso, in vista della morte che è l'implosione di ogni senso. Analoga è la posizione di Goethe che a questo proposito scrive: "Natura! Da essa siamo circondati e avvinti, né ci è dato uscirne e penetrarvi più a fondo. Senza farsi pregare e senza avvertire, ci rapisce nel vortice della sua danza e si lascia andare con noi, finché siamo stanchi e le cadiamo dalle braccia. Viviamo nel suo seno e le siamo estranei. Sembra che abbia puntato tutto sull'individualità, eppure niente le importa degli individui. La vita è la sua invenzione più bella e la morte è il suo artificio per avere molta vita". Immaginandosi al vertice del creato, come gli aveva segnalato la tradizione giudaico-cristiana, l'uomo ha tentato di imporsi sulla natura dominandola fino alla sua usura, e non avendo mai pensato a un’etica in grado di farsi carico degli enti di natura, l'uomo oggi si trova nell'impossibilità di tutelare l'aria contaminata da agenti nocivi, l'acqua corrotta da elementi inquinanti, la vegetazione minacciata dalla desertificazione, la fauna in molte sue specie in estinzione, la biosfera a rischio a causa delle nostre emissioni, dimenticando due cose: che solo nella natura e non altrove l'uomo può vivere, e che se l'uomo, con le sue pratiche di dominio, mettesse a rischio la sua esistenza, la natura potrebbe continuare a rigenerarsi e a vivere anche senza l'uomo. Stante la completa indifferenza della natura nei confronti dell'uomo, non si può lasciare alla natura la gestione della sofferenza umana da protrarre fino alla "morte naturale", perché alla sofferenza umana la natura non è interessata. Questa è la ragione per cui sono gli uomini a doversene occupare, concedendo di porre fine alla propria esistenza quando le sue condizioni sono divenute insopportabili. E non c'è etica che possa obbiettare alcunché a questa decisione perché, come ci ricorda Kant, "L'etica è fatta per l'uomo, non l'uomo per l'etica", in cui risuona l'analogo messaggio evangelico: "Il sabato è fatto per l'uomo, non l'uomo per il sabato". Se poi queste massime non convincono, prestiamo attenzione a questa riflessione di Montaigne: "La vita dipende dalla volontà altrui, la morte dalla mia". (Tratto da “Alla natura non interessa il dolore umano” di Umberto Galimberti pubblicato sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 28 di maggio dell’anno 2022).

“La voce divina della Natura”, testo di Maurizio Bettini – professore di “Filologia classica” nell’Università di Siena, fondatore del “Centro Antropologia e Mondo Antico” – pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 21 di settembre 2025: Per quanto si ami la civiltà classica, nessuno potrebbe certo affermare che i Romani siano stati degli ambientalisti o ecologisti ante litteram, al contrario. Sappiamo bene che hanno disboscato le foreste della Sila e dell'Etruria per il commercio del legname, scavato miniere per la produzione dei metani, deviato corsi d'acqua; mentre i moralisti latini ci ricordano che, fra le aberrazioni prodotte dalla luxuria, vi furono i moli gettati in mare per costruire nuove ville, gli sbancamenti, le piscine e i laghetti artificiali. Nello stesso tempo, però, è innegabile che il mondo romano manifesta un religioso senso di rispetto nei confronti dell'ordine naturale. Nella concezione degli antichi ogni intervento che alterasse ciò che la natura aveva disposto era sacrilego ed esponeva al rischio di punizioni divine. Queste due forze, il rispetto religioso per la natura e l'impulso a modificarla erano dunque in contraddizione? Certamente sì. D'altra parte, si sa bene che fra le ideologie religiose che animano una cultura e i comportamenti che derivano dagli impulsi umani, da circostanze storiche o esigenze economiche, si creano sempre delle tensioni. Basta pensare che noi occidentali viviamo da duemila anni in un regime religioso che predica il perdono, la carità, la pace, e da duemila anni siamo insanguinati da ogni genere di conflitti. Questo non ha impedito che le nostre società occidentali siano state profondamente influenzate dai principi del cristianesimo, e sotto molti aspetti li abbiamo rispettati. Il fatto è che le culture non sono organismi equilibrati. Questo per dire che alcuni comportamenti dei Romani nei confronti della natura non smentiscono il fatto che per loro terra, acque, alberi fossero rappresentati da altrettante divinità, così come a divinità facevano capo forme sociali quali il matrimonio, la guerra, la pace e perfino le formule usate per i processi. Per scegliere un esempio fra molti, prendiamo le acque. Nella religione romana le fonti, in particolare, erano circondate da un'aura di sacralità. Come scriveva Seneca: «Noi veneriamo le sorgenti dei grandi fiumi; l'improvviso scaturire di un vasto corso d'acqua dal suolo riceve altari; le fonti di acque calde vengono venerate, anche l'opacità o l'immensa profondità di alcuni stagni li ha resi sacri». E che cosa poteva accadere qualora i "diritti delle acque", se così possiamo chiamarli, non fossero stati rispettati? Marco Vipsanio Agrippa (dopo il 43 a. C) non si trattenne dall'alterare il regime di due laghetti campani per costruire un porto per la sua flotta. Ma le conseguenze non tardarono. Si trattava di due laghi nei pressi di Pozzuoli, vicino al mare: il Lucrino e l'Averno. Agrippa provvide a congiungere il Lucrino al mare, tramite un canale, e a sua volta il Lucrino all'Averno, scavando il tratto di terra che separava i due laghi. In questo modo avrebbe messo a disposizione della flotta un porto più esterno e uno più interno. Ma i lavori ebbero un esito imprevisto. Come ci racconta un antico grammatico: «Dopo che l'acqua del mare fu fatta entrare nel lago Lucrino, venne scavato il tratto di terra che separava il Lucrino dal lago di Averno, di modo che i due laghi si mescolarono. Ma si scatenò una tempesta di tale violenza che fu ritenuta un prodigio, e fu anzi annunziato che la statua [del dio] Averno aveva sudato. Per questo i pontefici celebrarono cerimonie di espiazione». Le acque, dunque, avevano "reagito" all'azione dell'uomo, che aveva mescolato acqua salata e acqua dolce e congiunto fra loro i due laghi. Le gocce di sudore, che comparvero sulla statua raffigurante la divinità tutelare di uno dei laghi, offrirono il segno incontrovertibile, in aggiunta alla violenta tempesta, dell'ira degli dei. La statua che suda o piange è un prodigio negativo spesso segnalato nel corso dell'antichità romana, alla stregua delle madonne che piangono. Inevitabile chiedersi quali riflessioni può suscitare, a proposito di "noi" moderni, l'atteggiamento degli antichi. La considerazione che si può trarre dal confronto è abbastanza sconsolata. Oggi la natura che ci circonda non rinvia più al divino. Possiamo esplorarla, svelarla, essa può destare in noi meraviglia. Ma a nessuno viene da pensare che dietro o dentro tutto ciò agisca uno spirito divino: oggi non possiamo più chiederci di rispettare l'ambiente perché su di esso vegliano gli dei. Dunque, se c'è qualcosa che dovremmo imparare dal collegamento che, per gli antichi, esisteva fra la natura e il divino, è il sentimento di rispetto che ai Romani derivava da questa visione. Un rispetto dettato non più da imperativi religiosi ma da una nuova morale ecologica.

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