«A mio padre Salvatore. D’a to’ piccitta».
Era il 1957 quando arrivammo a Capo
d'Orlando da Barcellona Pozzo di Gotto, mio padre Salvatore e mia madre Tota
erano una giovane coppia già con tre figlie: Pina, la grande; Maria, la
mezzana, e io, Lina, la più piccola. Eravamo una famiglia normale, ma con un
papà sempre in fermento, alla ricerca costante di novità da proporre ai suoi clienti,
da buon commerciante quale era, e diviso tra le sue tre grandi passioni: la
musica, la caccia e la pesca. I miei genitori, nati a un mese di distanza l'uno
dall'altro -1'11 settembre 1925 lui e il 31 ottobre 1925 lei -, erano cresciuti
insieme. Mia madre, donna integerrima e bellissima, proveniva da una famiglia
di macellai da generazioni e numerosissima: sette sorelle e due fratelli,
ognuno di loro aveva sposato, a sua volta, membri di famiglie appartenenti allo
stesso settore, tranne una sorella che aveva sposato un cineoperatore del
Cinema Mandanici e un fratello che aveva scelto un'altra carriera facendo il
centralinista all'Ospedale "Cutroni Zodda". Mamma Tota era la
maggiore delle sorelle e nonno Nino l'aveva tenuta lontana dalla macelleria,
immaginando forse un futuro diverso per questa figlia, e l'aveva mandata a
stare da una zia, che le aveva insegnato a ricamare e cucire. Papà Salvatore
era figlio di un commerciante di abbigliamento, da cui ha preso lo stesso nome
e l'inventiva: nonno Salvatore aveva una sartoria propria, in cui si cucivano
le tute da lavoro in tessuto jeans (un'assoluta novità se pensiamo che la
diffusione dei pantaloni in jeans, in Italia, si diffonde fra i giovani solo
alla fine degli Anni '50 con l'uscita del film "Gioventù bruciata") e
una sezione era dedicata alla produzione di abiti di alta qualità e cappelli;
una piccola parte del negozio era dedicata alle attrezzature da pesca, passione
che il nonno ha trasmesso a noi nipoti tutti, insegnandoci fin da piccolissimi
a fare le lenze. L'amore fra i miei genitori, nato fin da bambini, portò alla
nascita di tre figlie, precedute dalla classica fuitina, necessaria perché papà
era separato da anni. Gli anni subito dopo il secondo Dopoguerra erano
complicati, ma offrivano grandi opportunità; Barcellona era già un importante
centro con molti mercati e negozi, fra cui un grande ingrosso di casalinghi e
regali dei Fratelli Coppolino. Mio padre aveva già rifiutato l'idea di
proseguire l'attività del nonno, scegliendo con altri soci di girare per le
fiere con un camion pieno di roba. Quando arrivammo io e le mie sorelle, decise
di mettersi in proprio e comprò una Giardinetta, con cui iniziò la sua attività
di venditore ambulante. Fu così che arrivò a Capo d'Orlando, che appariva ricco,
con molte famiglie benestanti di commercianti di agrumi e restò affascinato dal
mare pescosissimo e dalla spiaggia immensa, dove la gente di una certa età si
faceva ricoprire di sabbia per curare i dolori, le donne facevano il bagno con
il capo coperto da un fazzoletto nero e indossando una sottana dello stesso
colore e si riparavano dal sole con gli ombrellini; sulla sabbia crescevano
soprattutto piante grasse dai fiori coloratissimi, piante di agave (zammàre).
Nei dintorni erano numerosi i giardini di limoni, banane, nespole e arance, ma
balzava agli occhi la scarsità di attività commerciali, negozi al dettaglio. Fu
allora che mio padre vide in questa assenza un'opportunità e decise di venirvi
a vendere le terraglie, termine con cui all'epoca si indicavano le stoviglie e
il vasellame. Il paese lo accolse immediatamente con benevolenza, convincendolo
che fosse il luogo adatto al benessere della sua famiglia. Mia madre non ne fu
così convinta per la sua indole pacata e il pensiero di doversi allontanare dalla
sua famiglia di origine (Barcellona distava da Capo d'Orlando tre ore di
viaggio). Ai tempi però, era il capofamiglia che prendeva ogni decisione senza
se e senza ma e, soprattutto, senza che ci fosse bisogno che tutti fossero
d'accordo. Consapevole di questo, mio padre affittò una casetta in cui poter
tenere anche la merce e il compromesso si trovò nella promessa che il sabato e
la domenica saremmo tornati a Barcellona. Per il primo anno le mie sorelle
restarono dai nonni per poter completare l'anno scolastico, mentre io che avevo
appena tre anni li seguii subito a Capo d'Orlando. La prima casa in cui
abitammo era alla Piana, accanto al Gallo d'oro, presa in affitto da Don
Calogero, che lavorava in Germania e che tentava di rifinirla poco a poco:
certo, mancava il pavimento e si camminava sul cemento tirato fino, ma c'erano
le porte, la stanza da letto, una grande cucina e la sala da pranzo dove mio
papà teneva la merce; dietro c'era un giardino con una fossa per i bisogni che
sostituiva il bagno non ancora finito; il giardino era recintato da un lungo
canneto che se-parava dalla spiaggia. Ero felice, ero benvoluta e trattata con
affetto da tutti, ben presto cominciai anche a girare per le case dei vicini
per andare a trovare i miei amici Lillo e Saverio, la maestra Peppina, che mi
regalava sempre le caramelle e la signora Nunziata, che mi prendeva in braccio
affinché potessi prendere l'uva dalla pergola che era alta. Ero una
principessa, e lo stesso affetto era riservato a mia madre. Mio padre avvertiva
che non era così scontato trovare gente capace di accogliere con tanta facilità
chi non era del posto e decise di ricambiare organizzando per il Lunedì di
Pasqua, nella piazzetta antistante la casa, su cui dava il tabacchino dei
signori Ziino, un albero della Cuccagna: un alto palo ricoperto di grasso con
in cima salami, che erano di chi riusciva ad arrampicarsi senza scivolare, il
divertimento era assicurato anche dalla musica che si suonava nella piazzetta.
Questo momento di gioco si replicò per anni. Il mare, praticamente dietro casa,
permetteva a mio padre di andare a pescare la sera dopo il lavoro e restava
fino a tarda notte; si pescavano soprattutto gronghi (runghi), pesci simili ad
anguille ma più grossi e più lunghi, capaci di vivere per molte ore anche fuori
dall'acqua. Una notte ne pescò 20 e li mise dentro una bagnarola di plastica
grande che lasciò in cucina; al mattino seguente quando mamma si alzò e aprì la
porta la sentimmo urlare: "Turi! Turi! C'è la cucina invasa da serpi
nere!", come non le venne un infarto allora è un mistero ancora oggi.
L'estate stava arrivando e con lei le mie sorelle che avevano terminato la
scuola, saremmo stati finalmente di nuovo tutti e cinque insieme e si rese
necessario affittare una casa più grande e confortevole. Anche stavolta fummo
accolti con affetto da tutte le famiglie vicine e, anche per loro, fui Linuzza.
La nuova casa aveva finalmente il bagno, una camera da letto, una sala da
pranzo in cui c'erano anche i nostri lettini e un cortiletto davanti (u
ghianu), dove ci sedevamo a rinfrescarci nelle serate estive o per cenare
fuori, circondato da un orto in cui si coltivavano pomodori, zucchine,
melanzane, insalata e i vari ortaggi di stagione. La cura dell'orto spettava
rigorosamente agli uomini al ritorno dalla giornata di lavoro; le donne si
occupavano della casa e di preparare le conserve. Con orgoglio, voglio
sottolineare come le donne orlandine insegnarono a mia madre l'arte delle
conserve: dalla salsa di pomodoro che veniva imbottigliata e sigillata con tappi
di sughero e spago perché non si guastasse prendendo aria, alle conserve di
melanzane, la giardiniera o le marmellate. Di allora, dovremmo imparare l'arte
di non sprecare nulla, di trasformare quelli che oggi definiamo scarti in
qualcosa di buono e ancora utile. Le insegnarono a fare il pane e il pan di
Spagna tenendo il baino sulle gambe e sbattendo le uova con due forchette; di
quei giorni manca lo spirito di condivisione che animava le famiglie e il
profumo che riempiva e inebriava la contrada al momento di infornare e che mi
sembra di sentire ancora al solo pensarci. Al calar del sole, mentre gli uomini
legavano l'asinello alla trave del pozzo e lo spingevano per tirare su l'acqua
da mandare nelle canalette per innaffiare l'orto, noi bambini correvamo con i
piedini nudi nelle cunette per rinfrescarci dalla calura della giornata. Nella
stessa contrada c'era una grande gebbia, a cui le donne andavano per lavare le
lenzuola e che era vietata a noi bambini, che dovevamo aspettare al canneto
vicino la ferrovia, lo svago era vedere passare un treno ogni tanto.
Riconoscere il ruolo delle piccole grandi donne che hanno reso Capo d'Orlando
un paese ricco, aperto, accogliente è importante perché sono state il perno
della famiglia in casa e fuori: molte di loro, in sella alla bici, partivano ad
affrontare una giornata di duro lavoro nei magazzini di limoni, dove
incartavano quelli più pregiati e li riponevano nelle cassette per le
spedizioni, mentre gli uomini erano addetti alla raccolta. Nell'arco di un
anno, mio padre si rese conto che il suo futuro fosse a Capo d'Orlando e così
lasciò casa a Barcellona definitivamente; iscrisse le mie sorelle a scuola e
cercò una nuova abitazione in centro. Ci trasferimmo in Via Tripoli e a me
dispiacque lasciare quell'angolo di Capo d'Orlando sul mare che porto ancora
con me nel cuore, insieme a quell'estate leggera e spensierata. La nuova casa
era molto grande, con una stanza sulla strada che si prestava a diventare il
negozio; sul retro c'era una sala da pranzo grandissima, il bagno, la camera da
letto, una spaziosa cucina, uno scantinato e un giardino. Fui contenta perché
avevo nuove amicizie, fra cui finalmente altre femminucce. Nel nuovo negozio
furono sistemati gli scaffali per esporre le terraglie e i regali per i
matrimoni che iniziavano a essere festeggiati non solo in casa o nei giardini,
nei magazzini di limoni ma anche in quella che fu la prima sala aperta per
l'occasione: l'idea venne al signor Miracola, che disponeva di uno spazio
accanto al cinema Odeon, di proprietà del signor Ingrillì. Accanto ai regali,
apparvero i piatti, i bicchieri infrangibili e le posate in acciaio Inox che
mio padre affittava alla sala per i battesimi e i matrimoni, a patto di
riportare tutto al negozio ben lavato. Il negozio era diventato un punto di
riferimento anche per i ragazzi e le ragazze che si avvicinavano per ballare e
ascoltare la musica che spandeva da un registratore con gli altoparlanti.
Un'altra novità fu la televisione, strumento di aggregazione per il quartiere
visto che le porte di casa si aprivano a tutti per guardarla. Ricordo con
nostalgia l'enorme conca che fu fatta fare da un falegname e che ospitava il
braciere pieno di carbone ardente, attorno al quale sedevamo. Quando c'era il
Festival di Sanremo la stanza da pranzo si trasformava in una sala
cinematografica, così come al sabato quando guardavamo "Campanile
Sera" condotto da Mario Riva, e facevamo a gara a chi indovinava la
canzone o al pomeriggio per guardare i cartoni animati. L'inverno del 1960 ci
regalò una nevicata e corremmo tutti al mare per vedere la schiuma delle onde
che si mischiava alla neve e la corsa a casa a fare un pupazzo nel giardino,
che sotto quella coltre bianca sembrava incantato e incorniciato dall'aiuola da
cui in estate sarebbero spuntati alti e numerosi i girasoli. Nel giardino stava
anche il setter che mio padre portava con sé a caccia e che, durante le
giornate, era a nostra guardia: quando andavamo a scuola aspettava che
entrassimo e ci veniva a riprendere all'uscita; quando andavamo al mare si sedeva
sulla riva ad aspettare che uscissimo dall'acqua e quando, per scherzo,
fingevamo di annegare si tuffava per tirarci fuori tirandoci dalle trecce; per
il riposo aveva piegato alcuni girasoli e realizzato un giaciglio fresco e al
riparo da tutti noi. Nei ricordi più belli della Via Tripoli ci sono i miei
compleanni (10 agosto) festeggiati con i miei compagni di giochi; i pomeriggi
con le ragazze più grandi a raccogliere i gelsi da due alberi alti, uno bianco
e uno nero, con una canna con cui scuotevamo i rami dopo aver messo una
tovaglia da tavola sotto, dalla tovaglia li mettevamo in insalatiere per
mangiarli subito; le serate in cui mio padre metteva su la musica e con le
altre ragazzine del quartiere ballavamo il twist, il cha cha e il boogie-woogie
ed eravamo pure bravine. Un fatto curioso era che al mattino l'acqua dai
rubinetti usciva dolce e al pomeriggio salata. Ho accennato prima come fra gli
Anni '50 e '60 era cambiato il modo di festeggiare i matrimoni e dell'idea di
mio padre di fornire alla sala per il ricevimento le stoviglie necessarie, ma
non solo... erano gli anni in cui erano diffusi i matrimoni "per
procura" e molte donne partivano a matrimonio già avvenuto a distanza,
dovendosi portare dietro la dote, la maggior parte di loro veniva richiamata in
Australia o Argentina. Ecco, Turi u barcellunisi diventò Turi u piattaru: i
regali che venivano comprati al negozio venivano imballati e spediti in un
baule, senza preoccupazione per le sposine, che spesso inviavano cartoline di
ringraziamento per aver ricevuto tutto senza che nulla si fosse rotto, come
spesso fino ad allora accadeva. I matrimoni gli permisero di trasformare la
passione per la musica in un secondo lavoro, assecondato dai due barbieri della
Via, Benito Migliori e Francesco Micale detto Ciccio, che suonavano
rispettivamente il sax e la fisarmonica, e che si affiancarono a mio padre che
suonava la batteria, a loro successivamente si aggiunsero Tano Bucca alla
chitarra e mia sorella Maria che, nonostante fosse ancora piccolissima, aveva
una bella voce e nacque il primo complesso: Fankie & the Boys. Iniziarono a
essere chiamati per allietare i matrimoni anche del circondario; se il negozio
andava bene è anche vero che mio padre riprese a girare con la sua merce per i
paesi vicini, dove lo aspettavano o da cui venivano a trovarlo fino a Capo
d'Orlando certi di trovare qualunque cosa avessero chiesto. La passione per la
musica diventava sempre più importante e al complesso si aggiunsero mia sorella
Pina e Rodolfo Valentino, detto Rudi, appena tornato dal servizio militare.
Rudi aveva una voce possente alla Claudio Villa, ci rallegrava con le sue
barzellette e divenne il nostro postino speciale: portalettere di professione,
cantautore e chitarrista per passione ha lasciato un buon ricordo in tutti.
Tanti sono gli uomini e le donne che riempiono le mie memorie di bambina, fra
questi la contessa Papa, elegante nel suo tubino blu con lo scollo a barca, il
bastone dal manico d'argento e i gioielli a mani e orecchie; veniva al negozio,
sedeva e ascoltava mia sorella Maria suonare la fisarmonica, prima di andare
via comprava una bagnarola e la scenetta con mio padre era sempre la stessa:
«Contessa, gliela porto io» e lei, con dolcezza «Salvatore, l'ho rubata?» e
andava via portandosi dietro questa bagnarola con la classe che la
contraddistingueva. Andavamo a giocare ogni tanto nella sua villa e il custode
cercava di mandarci via, ma lei usciva e ci offriva delle caramelle, rabbonendo
il custode dicendogli di non cacciarci, ché i bambini lì erano al sicuro
almeno. La signora Stancampiano ci aspettava per darci le caramelle, a
Carnevale aggiungeva noci e fichi secchi e, anche lei, ci trattava come figli:
la Via Tripoli era la casa di tutti in cui noi bambini trovavamo affetto
materno a ogni porta. E una bicicletta, come quella che prendevo di nascosto a
Ciccio il barbiere, pur non potendomi sedere perché ero ancora alta quanto un
soldo di cacio. Quegli anni non furono solo rose e fiori, passammo anche noi i
nostri momenti di sconforto, come quando mia mamma prese una brutta bronchite
asmatica; mentre mio padre provava a rianimarla, scappai a chiare il dottor
Silvio Monastra che mi seguì e fece di tutto per salvarla, raccomandandole il
riposo e che stesse lontano dall'acqua per un po'. Fu un periodo duro, mia
sorella Pina, di appena 11 anni, sostituì mia madre nella nostra cura
quotidiana diventando la donnina di casa finché non decisero di ritirarla dalla
scuola e mandarla da una sarta piuttosto quotata a imparare un mestiere. Ma
Pina a 13 anni era già bellissima e i ragazzi iniziarono a corteggiarla, la
gelosia di io padre fece sì che lasciasse la sarta per andare a fare una scuola
di taglio. Crescevamo noi ma cresceva anche Capo d'Orlando, papà la domenica
andava a caccia e mamma ci metteva il vestito buono, prendevamo il treno e
andavamo a Barcellona. Fuori dalla stazione, ad aspettarci in carrozza, era
nonno Salvatore che ci portava a casa per trascorrere la giornata insieme a
nonna Peppina, ai cugini e agli zii. A sera, il ritorno a casa, felici e rigenerate.
Nel 1963 il centro si era spostato in Via Vittorio Veneto, così anche il
negozio fu spostato al numero 81, nella prima stanza di quella che fu la nostra
casa. Nella via c'erano molte attività: il parrucchiere Calogero Vinci, la
latteria, un negozio di elettrodomestici, una lavanderia, un fotografo e due
negozi di scarpe, una fabbrica di maglieria. Anche qui ci seguì la musica,
intanto Pina e Maria erano cresciute, avevano 16 e 14 anni, io con i miei 12
anni ero la spettatrice di questa nostra vita in movimento costante. Registravo
tutto con i miei occhi. Maria, oltre alla fisarmonica, aveva imparato a suonare
anche la pianola, era stata mandata a studiare musica e la voce di Pina era
diventata corposa, potente. Mio padre chiamò un suo cugino di Patti, Peppino De
Lorenzo, fisarmonicista e batterista se era il caso, l'amico Francesco Galbato,
chitarrista noto per aver suonato anche in RAI, e Antonino Signorino, fotografo
di Naso, sassofonista, assieme alle mie sorelle formarono le "Sorelle
Sangelis". Su una 1100 familiare, con un imponente amplificatore Farfisa,
partì questo nuovo complesso che, fra una tappa e l'altra si confrontava con i
giovani del luogo, facendo del negozio un punto di ritrovo. Doveva essere un
gioco, ma complice il fatto che per la prima volta le protagoniste erano due
donne in un complesso, dilagò a macchia d'olio dalla provincia di Messina fino
a Palermo, persino in Calabria non c'erano feste di palco, matrimoni o serate
danzanti che non li vedessero esibirsi. Si giunse al punto che alcune coppie di
sposi spostarono la data del matrimonio pur di averli e che la RCA, la famosa
casa discografica, li venne a cercare fino a Capo d'Orlando per conoscerli,
propose loro persino l'incisione di un disco, ma le mie sorelle rifiutarono,
scegliendo una vita familiare e quieta. Col senno di poi, comprendo che la loro
rinuncia fu dettata dalla giovane età, da una decisione troppo grande da
prendere. Durò cinque anni questo capitolo si chiuse. Fra il 1967 e il 1968,
papà fece installare sulla macchina degli altoparlanti e si diede alla rèclame.
Nel periodo estivo soprattutto i ragazzi andavano a ballare al Tartaruga o al
Capriccio, da qui passavano tutti i cantanti della TV a fare le serate ed era
necessario pubblicizzare questi eventi, anche le campagne elettorali passavano
dagli altoparlanti e dalla voce di Turi, capace di vendere e reclamizzare
qualunque cosa. Due anni dopo, nacque l'Emporio Marino in Via Crispi. Io avevo
14 anni, la mattina andavo a scuola, frequentavo il primo anno di ragioneria, e
il pomeriggio stavo in negozio a studiare. Ricordo un rappresentante di Napoli
che proponeva sempre a mio padre di impiegarmi a confezionare le bomboniere,
allora si trovavano solo sacchetti di velo nei bar, che la sua ditta avrebbe
fornito tutto il materiale necessario. Si convinse e iniziai a fare quello che
è stato il lavoro di una vita, che mi appagava e che mi ha visto consegnare
bomboniere per gli eventi importanti di più generazioni. Nel frattempo, Capo
d'Orlando stava vivendo il vero boom economico grazie alla costruzione
dell'autostrada che portava flussi di turisti. Cresceva anche mio padre, che
stavolta si concentrò sull'hobby della caccia fino a diventare presidente del
Circolo Cacciatori, la cui sede era a Messina e dove si sbrigavano tutte le
pratiche per la concessione del porto d'armi, dei tesserini con l'assicurazione
all'apertura della stagione. A tutela formò anche un comitato per il Parco dei
Nebrodi. Le bomboniere diventarono un'attività a parte e aprimmo un nuovo punto
vendita, "Harmony", in cui gli sposi potevano anche fare le liste
nozze. Papà aveva 71 anni, aveva deciso di proseguire per un'altra stagione e
poi ritirarsi in pensione, noi figlie eravamo ormai madri di famiglia, tutto
sembrava già deciso e sulla strada giusta. Ma la vita spesso spariglia le
carte. Salvatore Santangelo e tutte le vite che aveva vissuto, e che ancora
progettava, si sono fermate per un arresto cardiaco. Era il giorno dedicato
alla Madonna del Tindari e lì tornai dopo cinque anni, lì torno ogni anno per dedicargli
una Messa. Al suo funerale venne tantissima gente, molta non la conoscevamo
neanche ma che ci fece capire quanti amici mio papà avesse e quanto fosse ben
voluto. Il suo ricordo, ancora oggi, è presente come non fossero trascorsi 25
anni.
P. s. In occasione del centenario dell'autonomia di Capo d'Orlando, ho pensato di dare il mio contributo con questo piccolo diario di ricordi. La dedica del diario a mio padre non è soltanto una questione affettiva, ma un modo per rendere omaggio a un uomo estroverso, avanti nel pensiero rispetto agli anni in cui ha vissuto e che, a Capo d'Orlando, ha rappresentato una generazione capace di mettersi in gioco e che è cambiata e cresciuta con il paese. È anche un omaggio alle donne orlandine, per le quali sono sempre stata Linuzza, che mi hanno accolta e cresciuta come fossi figlia loro.
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