"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 14 ottobre 2025

CosedalMondo. 67 Gianrico Carofiglio: «Gli strumenti della comunicazione trumpiana ricalcano quelli dell’ipnosi. Trump interrompe le aspettative comunicative tradizionali, genera cortocircuiti nell’elaborazione logica e crea spazi di ambiguità dove l’ascoltatore proietta i propri significati».

Sopra. "Studio di un uomo che cammina portando un sacco" (1615) di Jacopo Palma il Giovane. 

"La bambina il cui padre è stato ucciso / mentre portava un sacco di farina / sulla schiena / continuerà a gustare il sangue di suo padre / in ogni pane". (Versi del poeta ventunenne Haidar al-Ghazali prigioniero a Gaza, riportati da Tomaso Montanari in “Un sacco sulla schiena” pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 10 di ottobre 2025).

 (…). In passato il leader era lo strumento della pace, di cui conosceva il peso e custodiva l’equilibrio. Oggi la pace è lo strumento del leader, che la riduce a sé esaltandosi mentre la brandisce come un trofeo. Sono rimasti i gusci delle parole, ma la sostanza delle cose è cambiata, per tutti: la pace stessa è interpretata fisicamente come una performance e non come un processo, uno spettacolo universale più che un progetto geopolitico, perché al suo artefice non serve una strategia, basta un palcoscenico. Esattamente questo è il preannuncio di futuro che stiamo sperimentando oggi. Quanto avviene, la sua forma politica e il suo significato storico, sono infatti il risultato di una tendenza del nostro tempo, che urgeva da mesi e trova finalmente uno sbocco: è la riduzione della democrazia al puro esercizio della leadership, con la sovranità che esce dai confini suoi tradizionali, preme sui punti di resistenza, obbliga senza perdere tempo a convincere, e quando ottiene il risultato col concorso delle controparti lo trasforma da cooperazione condivisa a vittoria personale, confiscandolo. Siamo nella fase in cui anche noi dobbiamo sdoppiare la prospettiva per giudicare il leader bifronte. Da un lato riconosciamo che senza la curvatura personale della crisi imposta da Trump non si sarebbe raggiunto questo risultato in questi tempi, con una vera e propria “pace coercitiva”, probabilmente l’unica possibile oggi. Dall’altro lato vediamo che proprio il precipitato storico dell’esperienza democratica di governo nella liturgia esclusiva della leadership ha già messo fuori gioco la mediazione delle istituzioni, la diplomazia degli organismi internazionali di regolazione dei conflitti, il ruolo dei parlamenti, ridotti a spettatori chiamati ad applaudire, come in un continuo talk. Soprattutto Trump ha saltato di colpo tutto il “proceduralismo” cui si affida la democrazia, quell’insieme di regole, metodo, norme, criteri, controlli che funzionano da certificati di garanzia e passaggi di salvaguardia, ma appesantiscono anche il processo decisionale, lo zavorrano rallentandolo e quando pesano più del risultato che producono rischiano di soffocare la stessa democrazia. Stiamo dunque dicendo che l’accordo di pace è un risultato importante in sé, ed è nello stesso tempo anche la prova di una nuova modalità di espressione del governo: il comando. Coerentemente, questo accordo di pacificazione mediorientale non si basa sui principi e sugli ideali occidentali cui l’America ha sempre fatto riferimento (almeno in teoria) ma si fonda piuttosto su quella che potremmo chiamare la fatica democratica degli Stati Uniti, un sentimento profondo che vuole portare il Paese a competere per la guida di un nuovo ordine mondiale sostituendo al modello democratico il modello imperiale. Ecco perché questa svolta che può essere storica viene vissuta come la pace di Trump e dell’America trumpiana, qualcosa di esclusivo e personale, dovuto alla sua leadership, tagliato sul suo personaggio, e pronto ad essere speso nel mondo ad uso e consumo della sua figura politica. Tutto trova una sua deforme coerenza nel doppio registro dell’era Trump. La polarizzazione estrema degli Stati Uniti, con la Casa Bianca che come denuncia il New York Times non governa per l’unità dell’America ormai spaccata in due ma per la sua divisione, perché come ha detto il suo Capo “riunire il Paese non è la missione di questa presidenza”. La rinuncia ad una visione strategica d’insieme nel quadro internazionale, col doppio terremoto che svaluta le vecchie alleanze ed eleva i dittatori a partner. La continua sollecitazione dell’opinione pubblica immersa in uno stato di tensione permanente, col presidente che mentre spegne una guerra accende un nuovo conflitto, e mentre ferma le bombe arma i dazi, trasformando il campo commerciale nel nuovo terreno di battaglia della post-modernità. Questo succede quando viene meno il codice democratico come cardine e vincolo delle azioni del potere, un codice che produce una cultura di governo libera e autonoma ma cosciente del senso del limite. Senza quella cultura si smarrisce la distinzione tra il bene e il male, per finire in una zona grigia dove non ci sono valori da rispettare ma solo risultati da ottenere, comunque. Il potere completa così la sua trasformazione in un nuovo corpo politico: autoritario, post-democratico, pronto a rivendicare, assumere ed esercitare quei “pieni poteri” che la nuova destra estrema insegue ormai a tutte le latitudini. E qui i due Trump, compiuta la missione, ridiventano uno, con Marte dio della guerra che entra ed esce dalle porte del tempio di Giano. (Tratto da “Trump leader dell’ordine e del disordine” di Ezio Mauro pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 12 di ottobre 2025).

IlMondodiTrump”. “Paludi, muri, nemici le metafore del potere che ci vuole ipnotizzare”, testo di Gianrico Carofiglio pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 7 di ottobre 2025: Dichiariamo subito l’ovvio: la retorica di Trump è un catalogo di affermazioni assurde, ridicole o bestiali. I suoi discorsi sconnessi cominciano su un tema per deragliare subito su tutt’altro, senza alcun collante che non sia la rabbia, il rancore, il bisogno di sopraffazione, il delirio narcisistico. Nonostante questo (o forse, per essere più precisi: proprio per questo) l’uomo ha compiuto un’impresa straordinaria, con ogni probabilità irripetibile. Ha vinto per la seconda volta le elezioni americane, si è rialzato quando sembrava spacciato e addirittura destinato al carcere. Soprattutto ha ottenuto il consenso e la devozione di decine di milioni di americani. Come è stato possibile? Una parte della risposta risiede nella sofisticata meccanica (tanto più sofisticata quanto apparentemente rozza) della sua comunicazione politica, ideata per attecchire e prosperare in condizioni ostili all’uso sano della parola. Una comunicazione in grado di sfruttare il sovraccarico di contenuti causato dai social media, un rumore di fondo incessante che ha degradato il linguaggio pubblico e reso sempre più difficile distinguere tra verità e finzione. Gli strumenti della comunicazione trumpiana ricalcano quelli dell’ipnosi. Trump interrompe le aspettative comunicative tradizionali, genera cortocircuiti nell’elaborazione logica e crea spazi di ambiguità dove l’ascoltatore proietta i propri significati. Come un ipnotizzatore che usa contraddizioni, ripetizioni ossessive e paradossi per indurre stati alterati di coscienza, Trump ha trasformato il messaggio politico in un rito di manipolazione collettiva, producendo veri e propri stati di trance. Nel 2016, durante la prima campagna presidenziale di Trump, la giornalista Gwynn Guilford partecipò a numerosi suoi comizi, notando che un elemento cruciale della strategia risiedeva nella fabbricazione di un senso di minaccia collettivo. Prima dell’ingresso, i partecipanti venivano sottoposti a rigidi controlli: dovevano passare attraverso metal detector, mentre agenti di sicurezza ben visibili presidiavano l’area, pronti a intervenire in caso di comportamenti sospetti o manifestazioni di dissenso. Circa un’ora prima dell’arrivo di Trump sul palco, una voce diffusa dagli altoparlanti forniva istruzioni precise su come reagire alla presenza di eventuali contestatori: «Non toccatelo. Avvisate la sicurezza gridando in coro: Trump! Trump! Trump!». Questo rituale, benché spesso causato da falsi allarmi, veniva ripetuto più volte nel corso di un comizio. Ogni ripetizione agiva come un mantra collettivo: rafforzava lo stato di vigilanza e consolidava il senso di appartenenza al gruppo. Attraverso un meccanismo psicologico che manteneva viva la percezione di minaccia permanente e imminente, gli ascoltatori diventavano ingranaggi attivi nel dispositivo manipolatorio. Lo spettro di un nemico in agguato, evocato con costanza e forza simbolica, finiva per imporsi come una presenza ineludibile. Non sorprende che alcune delle metafore più forti impiegate da Trump facciano leva sulla costruzione del nemico e sull’idea di espellere ciò che è percepito come estraneo. Si pensi a due dei suoi più famosi slogan: prosciugare la palude e costruire il muro. «Prosciugare la palude», drain the swamp, espressione riferita alla capitale del governo federale americano, dipinge Washington con sintetica potenza come un territorio malsano; soprattutto, propone Trump come un eroe risanatore. La metafora ridefinisce la realtà politica. Washington non è più la sede del potere democratico, ma un luogo putrido, infestato, minaccioso. La palude è l’opposto simbolico della trasparenza e della salubrità: è opaca, malsana, infestata da agenti patogeni. In questa cornice, la democrazia americana si trasforma in un ecosistema marcio, impuro, e Trump è l’unico in grado di bonificare il corpo contaminato della nazione. Il disgusto è una delle emozioni primarie, e proprio per questo il concetto (spesso manipolato) di purezza ha una grande forza simbolica. George Lakoff ha mostrato come i conservatori attingano frequentemente a una cornice morale fondata su un’idea tradizionale di integrità che, negli ambiti della propaganda politica, si traduce spesso nella contrapposizione netta tra un noi virtuoso e un loro infetto e contaminante. Facendo leva su una delle emozioni più potenti che ci siano, l’immagine della palude mobilita l’indignazione ed evoca la minaccia di un degrado morale contagioso. La sua rimozione diventa un imperativo etico, non solo politico. L’espressione «costruire il muro», build the wall, ha una struttura e un effetto simili. Non è infatti solo una velleitaria e violenta proposta politica, ma un incantesimo retorico che trasforma la rappresentazione e la stessa percezione dei confini nazionali. La metafora aggira l’elaborazione razionale, liberando gli istinti peggiori degli elettori. Il confine diventa barriera morale, difesa identitaria, filtro esistenziale appunto tra noi e loro. È un’immagine micidiale, che elude i circuiti dell’analisi razionale per radicarsi in territori profondi dell’inconscio individuale e collettivo: quelli della paura e della difesa della proprietà. È la stessa logica che si ritrova in alcune proposte ricorrenti anche nel contesto politico italiano, dove il linguaggio della difesa si salda con quello dell’identità. In questo quadro, per esempio, va letto l’utilizzo (frequentissimo da parte di Meloni in campagna elettorale, repentinamente abbandonato una volta al governo) dell’espressione blocco navale. Anche blocco navale, come muro, è una metafora travestita da (pseudo) proposta politica. E come accade per tutte le metafore ben riuscite, la sua efficacia non dipende dalla precisione tecnica ma dalla capacità di evocare scenari emotivamente carichi: in questo caso, l’idea di un’invasione dal mare da contrastare con mezzi militari. Il mare diventa teatro di guerra, i migranti sono trasformati in assalitori, e chi propone il blocco si offre come difensore armato della patria. Inutile dire che si tratta, ancora una volta, di un’illusione retorica. Un vero blocco navale – nel senso di un’operazione militare – costituirebbe una violazione del diritto internazionale. Secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare le navi in difficoltà hanno diritto all’assistenza e i richiedenti asilo non possono essere respinti collettivamente verso Paesi dove rischiano persecuzioni, violenze o abusi. Inoltre, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha stabilito che il respingimento automatico di migranti in alto mare viola l’articolo 3 della Convenzione, che proibisce esplicitamente la tortura e i trattamenti degradanti. In altre parole, il blocco navale non è solo impraticabile: è contrario alle leggi che regolano i rapporti tra Stati civili. Ma nel vocabolario della propaganda non conta ciò che è vero, bensì ciò che funziona per lo scopo manipolatorio. E questa espressione funziona perché semplifica, polarizza, fomenta. Come ogni buona metafora bellica, separa il mondo in due: chi combatte e chi si arrende. E promette, come sempre, che il nemico verrà tenuto lontano – anche a costo di negare l’umanità di chi bussa alle nostre porte.

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