"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 6 settembre 2025

CosedalMondo. 58 “Nonostante tutto i bambini di Gaza giocano ancora”.


(…). La storia dei bambini che a tre anni diventano grandi e le guardie li portano via era una storia vera e si capiva, si sentiva nel modo in cui i bimbi capiscono e sentono la differenza tra una favola e la vita. Da qualche parte nella pancia, si sa che è diverso. È un fatto della vita, funziona così. Difatti la signora Rosa del quinto piano ogni tanto veniva la sera e la raccontava uguale, quella storia, che era successa a lei. A volte le scendevano le lacrime sulle guance ma non piangeva davvero, cioè non faceva rumore: solo, mentre parlava - normalmente, sottovoce per non disturbare - le si bagnava il viso. Sono cose che possono succedere. Le avevano portato via la bimba quando era in prigione (ma perché la signora Rosa era in prigione? Cosa aveva fatto? Niente, niente. Lei niente, suo fratello semmai) e forse la bimba era in Francia o in Russia, diceva. Io dove fosse la Russia, il senso che aveva in quel tempo “essere in Russia”, non lo sapevo. La signora Rosa voleva andare a cercarla, sua figlia, ma non sapeva dove andare e più che altro non aveva i soldi. Come la cerchi, una figlia in Russia. Ci ripensavo l’altro giorno, alla signora Rosa che di certo è morta da molti anni ma sua figlia, forse sua figlia è viva ed è nonna di nipoti russi. Ci ripensavo perché qui, dalla finestra, si vede il balconcino della casa dove viveva (ci sono tre maglie da calcio stese, oggi) e perché nella canicola di un tardo Ferragosto la sola notizia di un certo rilievo, nella farsa di quel vertice, mi è sembrata la lettera di Melania Trump a Putin. Che non è andata, ma l’ha data al marito che almeno come portalettere magari serve, speriamo gliel’abbia consegnata, dicono di sì: c’è scritto presidente, liberi i bambini ucraini detenuti in Russia. Forse Unione Sovietica, avrà scritto, comunque: la Russia di nuovo. Non l’ho letta, ovviamente, ma le sintesi dei giornali dicono che parlava di questo, dei bambini “portati al sicuro” dalle milizie di Putin. Rubati, come la figlia della signora Rosa. (Durante la dittatura di Franco, in Spagna, si stima che trentamila bambini siano stati sottratti alle famiglie e alle madri: detenute, condannate a morte. Per reati di dissidenza politica commessi in proprio o dai loro parenti. I bambini potevano stare in carcere con le madri fino al compimento del terzo anno di età, poi venivano assegnati. Dai militari, dalle associazioni franchiste). Ho pensato vedi però, Melania. Sarà per via dell’origine baltica, tu te ne puoi andare dalla Slovenia ma la Slovenia non se ne va mai da te. Le origini, le storie familiari, i dolori, le ninne nanne che anche lei avrà sentito, chissà se ci sono streghe o uomini neri anche lì. Comunque. I bambini bottino di guerra. I bambini da riassegnare ai vincitori, da far crescere nelle “famiglie giuste”. I bambini offerti su un catalogo: tre anni, biondo, occhi azzurri, docile. Il cardinale Matteo Zuppi era stato mandato da papa Francesco proprio a discutere di questo in Russia: la riconsegna dei bambini. E poi: l’altro giorno ha letto i nomi, dodicimila, di tutti i bambini morti fra Gaza e Israele. Tutti e tutti insieme. La prevalenza a Gaza, bisogna dire: l’immensa prevalenza. Nomi, cognomi, età. Ciascuno di loro era un figlio, un fratello. Provate a immaginare solo per un momento che il vostro/nostro adorato bambino sia colpito da un proiettile, da una bomba che ci vede benissimo, mentre va a fare una commissione tipo scendi a prendere l’acqua, vai ma torna subito a casa. Mentre vi cerca, per strada, o vi aspetta. Non c’è una parola, nelle lingue occidentali, per indicare chi è orfano di figli. Non c’è. Esiste in sanscrito, in ebraico, in arabo. Ma nelle lingue occidentali moderne l’abbiamo cancellata dal vocabolario. È troppo. È troppo per dirlo ma succede: alla signora Rosa allora, oggi alle famiglie ucraine, alle famiglie della Striscia proprio ora. Bambini da uccidere, affamare, o da riassegnare a famiglie che li crescano nel disprezzo di chi li ha generati. Il Novecento trascorso invano. Molti anni dopo aver visto piangere senza rumore la signora Rosa, da adulta, ho vissuto in Argentina e ho partecipato, con le Madri e le Nonne di Plaza de Mayo, alla ricerca dei loro figli e nipoti. Allora stesso modo, di nuovo. Sottratti alle madri incarcerate - si attendeva la nascita, per ucciderle - e riassegnati. In qualche caso i nipoti ritrovati non hanno voluto tornare. Ricordo la storia di due gemelli, ormai adulti: hanno detto no, restiamo dove siamo. Avevano timore, credo anche tra i molti, di deludere chi li aveva cresciuti. «Siamo stati felici», hanno detto. Il mondo cambia a partire da questo. Si ridisegna. Cosa succede dopo, nei decenni, ai bambini rubati. A migliaia, nelle guerre di occupazione e di sterminio. Restano le madri che muoiono sole, come Rosa. Restano i figli adulti, che sono chi vogliono essere. A volte cercano la loro storia, a volte no. A volte vogliono sapere chi sono veramente, a volte si ribellano e vivono nella lotta, respirano rancore. A volte, trenta o quaranta anni dopo, coltivano i fiori del giardino degli aguzzini di chi li ha generati. Altre volte tornano e combattono perché non accada più. Ma torna ad accadere, invece: accade sempre. E poi guarda che inganno, nella canzone della sera. L’uomo nero che ti tiene un anno intero è sempre un uomo bianco, in verità. (Tratto da “I bambini, la guerra e quelle vite rubate” di Concita De Gregorio pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 18 di agosto 2025).

“Nonostante tutto i bambini di Gaza giocano ancora”, “racconto” di Giorgio Scaramuzzino pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 31 di agosto 2025: È la primavera del 2009 quando Marina mi apre la porta di casa sua. In bella vista, sulla parete d'ingresso, mi accoglie una foto in bianco e nero di lei circondata da bambini festosi. «Sono a Gaza! Nella Striscia di Gaza!», mi dice. «Ci vado spesso, per me non è solo un lavoro, mi sono beccata il mal di Gaza!». Mi spiega che si tratta di una sorta di "mal d'Africa", una specie di benefica ossessione che ti prende dal momento che conosci il popolo palestinese, le sue città, le dune di sabbia, gli orti, l'allegria dei bambini. Marina mi dice che ci sono molti problemi, soprattutto per i minori, che sono quasi la metà di tutta la popolazione della Striscia. «Cosa posso fare per loro?». «Scrivi una storia, così i bambini italiani possono conoscere la situazione dei loro coetanei. Qui in Italia non ne parla nessuno!». Parte la mia ricerca. Obiettivo: scrivere qualcosa su quell'infanzia negata, su migliaia di bambini prigionieri in una piccola striscia di terra circondata da filo spinato o da mura alte più di 12 metri, alcuni l'hanno definita "una prigione a cielo aperto". Ed è così, scoprendo fatti, storie e luoghi incredibili e sconosciuti, che anch'io mi sono beccato il "mal di Gaza". Cerco di avere informazioni sempre più precise, scopro diversi articoli di un giornalista italiano, si chiama Vittorio Arrigoni, l'unico che è riuscito a entrare nella Striscia. I suoi reportage parlano spesso di bambini. Tra i molti video che è riuscito a mandare al di là del confine blindato, uno mi colpisce particolarmente. Ci sono dei ragazzini che indossano un giubbino fosforescente, come quelli che utilizzano gli automobilisti in caso di emergenza. Sono in piedi, davanti al confine, stanno proteggendo i contadini mentre raccolgono i meravigliosi frutti degli orti. Purtroppo questi orti sono situati nella "buffer zone", nella zona di nessuno, dove non si potrebbe entrare. Ma come fare a raccogliere, melanzane e zucchine se non si può entrare? I ragazzini allora diventano una specie di scudo mano: «Non sparate! Siamo contadini disarmati, non sparate!», urlano davanti alle armi dei soldati appostati al di là del confine. Così si guadagnano un po' di verdura da vendere al mercato della città. Scopro anche che, in un piccolo zoo della Striscia, La Gioia dei bambini, il guardiano, rimasto solo a occuparsi dei pochi animali esotici risparmiati dalle bombe, decide di sostituire le zebre fuggite, dipingendo a strisce due asinelli. La notizia fa il giro del mondo. In Italia è sulla prima pagina di diversi quotidiani. Parto da questa notizia per scrivere Questa zebra non è un asino, una storia d'infanzia negata e di un legame forte tra un vecchio e un bambino, una amicizia vera. Contemporaneamente una bomba cade su un edificio con il tetto azzurro e la scritta Onu, uccidendo un sacco di persone, tra cui diversi minori. La notizia non è pubblicata praticamente da nessuno. Scopro, nelle mie ricerche, che, periodicamente, gli abitanti di Gaza devono subire vere e proprie guerre, scopro che queste operazioni militari sono state battezzate con nomi che stridono per la loro violenza: Operazione arcobaleno, Giorni di penitenza, Pioggia d'estate, Nuvole d'autunno, Inverno caldo, Piombo fuso, Colonna di nuvola, Margine protettivo, Guardiano delle mura, Operazione gamba di legno, Scudo difensivo. Anche ora, mentre scrivo, c'è· una guerra, ci sono bambini che soffrono e che vengono uccisi. Oggi, però, nessuno può far finta di non sapere, tutti i giorni vediamo immagini strazianti. Una giovane mamma in fila per un po' di farina dice a un giornalista: «Mio figlio ormai si è abituato alla guerra». Ci sono anche centinaia di bambini, tra le mani qualsiasi tipo di recipiente da riempire con un po' di acqua o di cibo. C'è una bambina che tiene in braccio la sorellina più piccola. Il giornalista chiede cosa le sia successo. «Nella corsa per poter venire qui si è fatta male a una caviglia e non può più camminare». «Ma dove sono i vostri genitori?». «Non lo sol». Nonostante tutto giocano ancora i bambini di Gaza, giocano sulle macerie, qualcuno costruisce, con quello che trova, aquiloni colorati. Salgono sui carretti trainati dagli asini e corrono incontro alle casse piene di viveri lanciate con i paracadute. Anche se incombono i fischi delle bombe, anche se quel fastidiosissimo rumore dei droni che ronzano sulle loro teste non smette mai, i bambini, vogliono, devono continuare a giocare e soprattutto a sognare.

 “Per vent’anni non ho scritto un solo rigo. Poi, nel 1967 mio padre si ammalò. Lo portammo al Gemelli, dove lo tennero ricoverato per un po’ di tempo senza dirci nulla. Un giorno agguanto uno dei medici che ogni tanto veniva a visitare papà: «Dottore, mi perdoni, ma mio padre che cos’ha?». «Ah, non gliel’hanno detto?». «No». «Beh, ha un tumore diffuso, non possiamo intervenire, credo che abbia 6-7 mesi di vita». Uscii dall’ospedale ed entrai nel primo bar che incontrai. Erano le 3 e mezzo del pomeriggio. Mi misi a giocare a flipper, che allora andava molto di moda, e rimasi lì fino alle 9 di sera, quando mi sentii di affrontare mamma. Dopo qualche giorno mio padre tornò per un po’ a casa, ma poi si aggravò e lo riportammo al Gemelli. Capii che non sarebbe più uscito e allora decisi di non lasciarlo neanche un momento. Presi una stanza con due letti e per quel mese che gli era rimasto da vivere condivisi la stanza con lui. Poiché lui non dormiva, le notti insonni furono l’occasione per un sacco di chiarimenti reciproci: perché lui era fascista, perché io era comunista, cosa che lui aveva preso come un’offesa personale… Furono notti importantissime e anche utilissime. A un certo punto mi disse: «Raccontami qualche cosa». Da tempo pensavo a un episodio vero, autentico, accaduto tanti anni prima nella mia campagna. Allora gli dissi: «Papà, mi è venuta voglia di scrivere un romanzo». «E cuntamillu». Glielo raccontai in tre nottate. Dopo di che lui mi disse: «Mi fai una promessa?». «Sì papà». «Questo romanzo lo devi scrivere e lo devi scrivere come lo hai raccontato a me, mezzo siciliano, mezzo italiano». «Va bene». Pochi giorni dopo, era l’alba, capì che stava morendo. Gli dava fastidio l’ossigeno, io mi avvicinai, lui sentì la mia mano, la prese, aveva gli occhi chiusi, li aprì: «Vattene a fumare una sigaretta», mi disse. «Papà perché devo andare?». «Vattene!». Allora capii, e me ne andai. Mi fumai una sigaretta sapendo benissimo che quando sarei tornato nella sua stanza lo avrei trovato morto, e così puntualmente avvenne. Mio padre era un uomo di un coraggio fisico straordinario, non mi volle far assistere alla sua morte. Io non so se avrò il coraggio di morire solo. Poco dopo, in mezzo al bordello del Sessantotto, mantenni la promessa e scrissi il mio primo romanzo, “Il corso delle cose”, che era tale e quale a quello che avevo raccontato a lui”. (Racconto fatto da Andrea Camilleri - Porto Empedocle, 6/09/1925-Roma, 17/07/2019) nel “lontanissimo” 2018 – un anno prima della Sua morte -, al Suo carissimo amico Paolo Flores d’Arcais).

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