“Non in mio nome. Dalla Casa Bianca a Gaza: una lezione sul colonialismo”, testo di Alessandro Robecchi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi, mercoledì 1 di ottobre 2025: Mentre scrivo questa piccola rubrica, tutto è in bilico, tutto poggia su precarissimi equilibri, tutto traballa minacciosamente. L’imposizione di una resa incondizionata al popolo palestinese, che trasformerebbe Gaza in una specie di protettorato occidentale in attesa di affidarla a qualche arabo amico – un giorno, chissà – ma circondata dall’esercito genocida di Israele, tanto per ricordare chi comanda, è il perfetto esito di un disegno coloniale. Come nell’Ottocento, gli imperatori di turno disegnano confini e poteri su un foglietto e chiamano “pace” il loro deserto. Il resto lo fa quella malattia perenne e un po’ ripugnante che si chiama Realpolitik: la conquista occidentale di Gaza, governata da Trump e Tony Blair (!), terreno di conquista per le grandi imprese della ricostruzione, con il popolo prigioniero e martoriato nemmeno consultato, in fondo, fa piacere un po’ a tutti. Trump rafforza i suoi dobermann a guardia del Medio Oriente, premiando di fatto un genocidio, Netanyahu si divincola dai suoi guai giudiziari e rischia addirittura di passare per uomo di pace, l’Europa si toglie un pensiero seccante e potrà mantenere tutti i suoi affari con uno Stato terrorista che ha assassinato deliberatamente più o meno centomila civili. Il tutto sotto la minaccia di proseguire con la soluzione finale: se con questa pistola puntata alla tempia non si accetterà l’accordo (sì, lo chiamano accordo), Netanyahu avrà mano libera (“finire il lavoro”, ndr), che significa altre migliaia di palestinesi uccisi, affamati, privati di qualsiasi diritto e dignità. È presto per dire se tutto andrà come desidera l’imperatore, ma intanto il disegno c’è, e già si registrano numerosi consensi, perché se c’è una cosa che l’Occidente sa fare (compresa l’informazione) è vedere il mondo soltanto con i suoi occhi: noi civili e ragionevoli, bianchi, benestanti; gli altri barbari e terroristi. Se va bene faranno i camerieri e i domestici nella loro terra, che sarà governata da noi, per il loro bene, s’intende. Si precisa in questo modo tutto ciò che il genocidio è stato: una mossa di conquista coloniale che solo i ciechi potevano non vedere. O i sordi, visto che il governo invasore lo ha detto in tutte le lingue, mostrando mappe della Grande Israele all’Onu, cucendo una cartina “dal fiume al mare” sulle uniformi dell’esercito genocida, dichiarando senza vergogna (molti ministri israeliani e molti ultras sionisti in giro per il mondo) che l’obiettivo è la soluzione finale del popolo palestinese tramite deportazione o sterminio (sulla Cisgiordania nemmeno una parola). Resta, a parzialissima consolazione, che in questa vicenda di conquista e colonie, i popoli sembrano un po’ meglio di chi li governa. Il moto collettivo di repulsione di fronte a un genocidio, le mobilitazioni dal basso, il sincero ribrezzo per chi ha eseguito il peggior massacro della storia recente, e quindi per chi ha fornito sostegno, armi, copertura politica e informazione amica, per l’Europa paracula, per il negazionismo dei complici è piuttosto massiccio. Una buona notizia e una cattiva. La buona è che molti, moltissimi, restano umani, la cattiva è che non avranno rappresentanza politica, che assisteranno ancora una volta al balletto vergognoso di chi pensa a cosa conviene e non a cosa è giusto. Insomma sono tanti – bene – ma sono soli, e forse è bene anche questo, perché l’Impero conviene all’Impero, ma svegliarsi ogni mattina pensando “Io non sono complice di tutto questo” conta ancora qualcosa.
“Se Hamas rifiuta l’offerta finiremo il lavoro a Gaza”, dice Netanyahu. “In caso di rifiuto, Israele avrà il mio pieno sostegno per finire il lavoro”, ripete Trump. Finire il lavoro: tre paroline che svettano nella graduatoria della eufemistica più oscena. Con la quale si infama la parola “lavoro”, certamente non quello che nobilita l’uomo, letta con le immagini che da quasi due anni inorridiscono l’umanità (di chi ancora la conserva). È la macelleria costante e implacabile di civili a Gaza, a cura dell’Idf, soprattutto l’uccisione di centinaia di bambini che è la parte più agevole del lavoro in quanto indifesi e dunque macellabili senza grandi rischi. Conosciamo la reiterata obiezione: e allora la strage dei milleduecento innocenti perpetrata il 7 ottobre 2023 dai macellai di Hamas? Infatti tra pochi giorni tutto quel sangue sarà ricordato a imperitura memoria, iscritto nell’infinito libro nero della sofferenza inflitta al popolo ebraico. Però, queste poche righe vogliono “soltanto” soffermarsi sull’uso gergale dell’orrore, linguaggio ormai maneggiato senza vergogna e neppure pudore. Sentimenti ovviamente ignoti al terrorismo di Hamas e abbastanza disprezzati anche nel nostro rispettabile mondo civile. Infatti, di “finire lavoro” si scrive tranquillamente sui giornali e si parla in tv come se si trattasse di qualcosa di legittimo, accettabile e, suvvia, nell’ordine delle cose. All’interno di questa visione, come dire, pragmatica specie se osservata dal divano di casa fa bella mostra di sé la derisione della flottiglia in navigazione verso Gaza, accompagnata dagli sghignazzi compiaciuti dei politici di destra e dei giornali al seguito. (…). Possiamo giudicare come vogliamo coloro che si sono imbarcati in una missione disperata e disperante ma andrebbe perlomeno rispettato il loro coraggio e il loro cuore nell’affrontare l’inevitabile ritorsione israeliana. Restiamo umani lasciò detto, nel 2011, l’eroico attivista Vittorio Arrigoni prima di essere rapito e ucciso dai tagliagole nella Striscia di Gaza. Diventiamo disumani è invece il messaggio di troppi disgustosi personaggi intorno a noi. (Tratto da “Finire il lavoro: il gergo orribile da BiBi a Donald” di Antonio Padellaro, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi).
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