"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 20 settembre 2025

Doveravatetutti. 30 Andrea Camilleri: «A Gaza esiste un'incredibile, inimmaginabile e fervente attività artistica di cui quasi nessuno sa niente. I mezzi d'informazione non ne parlano, preferendo dare notizie di morti e distruzioni invece di segnalare le molteplici manifestazioni di chi lotta pacificamente ed esistenzialmente in nome dei valori dell'arte. Cosa spinge gli uomini che abitano questa terra disgraziata alla necessità assoluta di esprimersi attraverso l'arte?».

 
Il graffito con il missile è un'opera di Hussein Abu Sadeq.  La fotografia, che è un'altra opera d'arte a sé, è di Ibraheem Abu Mustafa, della Reuters. Il contesto, non sorprenderà, è Gaza. Forse è la data ad essere più sorprendente, per il grande pubblico: perché questa foto bellissima e terribile uscì sul Guardian il primo ottobre 2023, cioè sei giorni prima di quel maledetto 7 ottobre, col maledetto eccidio di civili israeliani, donne e bambini compresi, perpetrato da Hamas. Una data da cui non comincia nulla: una data segnata in nero in una storia nera, che risale al 1948, e anzi all'Ottocento. Non di rado sono proprio le opere d'arte a permetterci di vedere ciò che ci sta proprio sotto il naso: per esempio che i missili israeliani su Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo, cadessero anche prima del 7 ottobre. E così frequentemente da essere un tema degli street artist, e così frequentemente da distruggere proprio il muro in cui era rappresentato un missile. A Gaza l'arte - come la sanità, che era di livello eccellente, e come l'università: ce ne erano sette... - era, ed è, particolarmente ricca, fiorente, importante, in moltissime forme. Andrea Camilleri (…) lo spiegava così: «A Gaza esiste un'incredibile, inimmaginabile e fervente attività artistica di cui quasi nessuno sa niente. I mezzi d'informazione non ne parlano, preferendo dare notizie di morti e distruzioni invece di segnalare le molteplici manifestazioni di chi lotta pacificamente ed esistenzialmente in nome dei valori dell'arte. Cosa spinge gli uomini che abitano questa terra disgraziata alla necessità assoluta di esprimersi attraverso l'arte? Credo che l'arte sia, per queste persone, un grido estremo di speranza e di voglia di esprimersi, di conoscersi, di stringersi in un abbraccio che nasce da una società assediata incapace di intravedere soluzioni politiche a breve o medio termine.... L'unica contro-guerra che queste persone sono in grado di esercitare in quelle condizioni con armi volutamente ed esclusivamente pacifiche. È incredibile e meraviglioso constatare quanti si dedichino all'educazione artistica dei bambini, dei meno fortunati, dei menomati o malridotti di guerra, riconquistandoli attraverso l'arte per creare un futuro e far sì che essi diventino gli uomini di domani. ... Occorre mantenere viva la fiamma dell'espressione migliore di un popolo, e in questo senso parlo di "resistenza", che non deve essere per forza armata o passiva». Sono parole di dieci anni fa: che oggi ci aprono gli occhi. E ci spaccano il cuore. (Tratto da "Sei giorni prima" di Tomaso Montanari pubblicato sul settimanale "il Vnerdì di Repubblica" di ieri, 19 di settembre 2025).

“L’addio alla nostra città dilaniata”, testo di Kholoud Jarada pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 18 di settembre 2025: Ho dovuto lasciare Gaza, la mia città natale, per quella che probabilmente sarà l’ultima volta. Ancora mi rifiuto di accettarlo. Dopo mesi di vita nell’incertezza e in estremo pericolo, in attesa della nostra rovina imminente, dopo innumerevoli notti insonni piene di esplosioni e settimane spese a cercare di elaborare un piano – trovare un posto dove vivere e capire cosa fare – siamo stati costretti a trasferirci. Il tragitto è stato uno spettacolo di distruzione senza fine, un percorso in un mondo dove regnava il caos. È stato uno dei giorni più tristi della mia vita. Non ho pianto tanto come la prima volta che ho lasciato Gaza, ma è stato ancora più straziante. Allora non capivo cosa mi aspettasse. Questa volta so che è la fine. Il giorno prima di partire, ho vagato per la città per dire addio alle macerie della mia vecchia casa e alle mie strade preferite. Ho scattato foto di ogni angolo, sapendo che sarebbe stata l’ultima volta che le vedevo. Muoversi era estremamente pericoloso – a volte ho dovuto correre e mettermi al riparo – ma sentivo il bisogno di farlo. Avrei voluto dire un addio vero alla mia città natale com’era un tempo, non a questa versione irriconoscibile e dilaniata. Lo sfollamento è sempre umiliante ed estenuante. La sola preparazione è macabra: come impacchettare tutta la nostra vita, trovare un trasporto, individuare un posto dove alloggiare... Mi considero fortunata per essere riuscita nell’impresa, ma è costata un enorme quantità di denaro, tempo e fatica. Centinaia di migliaia di persone sono ancora bloccate a Gaza perché non riescono a trovare un posto dove andare, non possono permettersi una tenda o un camion per trasportare i loro averi. Abbiamo fatto fatica a trovare un piccolo autobus per trasportare i nostri beni, oggetti essenziali per la sopravvivenza. Abbiamo pagato migliaia di shekel. Io e la mia famiglia abbiamo camminato per ore su strade affollatissime finché non abbiamo trovato un veicolo che ci prendesse. È stato estenuante e disperato. Ci è stato permesso di muoverci solo lungo la strada del mare, pesantemente danneggiata ed estremamente affollata, con a malapena spazio per camminare. Le scene erano strazianti: persone disperate che trasportavano borse pesanti, camion carichi di intere vite – sacchi di vestiti, serbatoi d’acqua, materassi, coperte, pannelli solari, utensili da cucina, mobili… Ora non mi trovo in un luogo davvero “sicuro”. Abbiamo trovato, per miracolo, un posto in affitto a Deir Al-Balah, nella zona centrale. Anche se non è classificato come una zona rossa di “combattimento pericoloso”, non fa parte neanche della cosiddetta zona gialla “umanitaria”. È una zona grigia, con piani di demolizione previsti subito dopo che avranno finito con Gaza City. Questo significa che è solo questione di tempo prima che dobbiamo affrontare un altro sfollamento e rivivere questo orrore. Sebbene qui non sia del tutto sicuro e si sentano ancora le bombe, mi sento più protetta. Noto una grande differenza. Posso finalmente riprendere fiato. Attraversare l’altra sponda del fiume sulla strada del mare è stato il primo momento in mesi in cui ho potuto respirare aria priva della pervasiva miscela di polvere, fumo e sangue. Qui è più tranquillo. Posso vedere alberi e sentire suoni diversi dalle esplosioni. Eppure provo un immenso senso di colpa per riuscire a respirare, mentre la mia famiglia e i miei amici sono ancora intrappolati in estremo pericolo, solo perché non hanno i mezzi per andarsene o un posto dove andare. Gaza sta vivendo i giorni peggiori della sua storia. È la fine. Siamo stati etnicamente cacciati dalla nostra terra.

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