È l'ultimo round, aperto da grida febbrili e volti rigati di
lacrime che rivelano ogni sfumatura della paura, con la stessa angosciante
domanda che riecheggia tra i seggiolini: «Chi arriverà in finale?». Ogni parte
calcia la palla nel campo dell'altra mentre noi restiamo intrappolati nelle
tribune dell'attesa. I nostri respiri pesano la fragile equazione della
sopravvivenza contro la macchina della morte. Ci aggrappiamo alla vita in mezzo
a infinite fosse comuni, intrappolati da tranelli di annientamento
accuratamente progettati, predisposti per sradicarci del tutto. Per 679 giorni
del nostro genocidio, sancito da coloro che predicano i diritti umani mentre ci
negano il più semplice diritto di vivere, spesso ho desiderato di essere un
cane, con tutele e privilegi ben oltre la mia stessa umanità. Ho desiderato che
fossimo pecore, il cui sacrificio a Eid potrebbe almeno suscitare indignazione,
multe o punizioni contro i loro macellai. Invece, la nostra esistenza è stata
ridotta a un gregge condotto beffardamente al macello, inscenato come una
parodia della giustizia ammantata di legge, che concede agli animali ciò che
sottrae al popolo di Gaza. Nella precisione dei linguisti e nella filosofia dei
grammatici, ho temuto di rimanere intrappolata tra il rigonfiarsi di una
lettera e il silenzio di un'altra, tra l'eccesso e il vuoto, tra il respiro e
il nulla. La guerra ha mietuto le nostre vite in frammenti di giorni aggrappati
alle preghiere sussurrate delle madri, e al fragile riso dei bambini che scivola
tra le rovine. Alla fine, ogni frase è crollata nell'immobilità della perdita.
La mia rabbia si accende come il carburante della complicità globale che
alimenta i jet che ci colpiscono, jet fabbricati e forniti dall'Occidente. Ogni
attacco squarcia corpi fragili ed espone un palcoscenico in rovina di falsa
solidarietà, dove condanne e aiuti arrivano come semplici scenografie. Oggi non
servono biglietti per uno spettacolo avvincente. Lo show è dal vivo, i suoi
schermi saturi del nostro sangue, mentre il pubblico divora la tragedia come
fosse popcorn in una sala cinematografica. La mia confusione aumenta davanti
alla gerarchia degli "aiuti", dove la fame ci spinge a inseguire
aerei cargo che rilasciano briciole di cibo, quasi a deriderci con nuove
umiliazioni dagli stessi cieli che ci bombardano. Come può sopravvivere il
nazionalismo quando l'occupazione brandisce persino il pane come arma,
barattando la nostra fame con la nostra libertà? Nelle finali mondiali si
sventolano bandiere, i cori esplodono e le tribune tremano di voci in attesa
del fischio dell'arbitro. A Gaza, attendiamo l'ultimo fischio di un missile, il
cui colpo disperde i nostri corpi sul campo. Sventoliamo panni bianchi intrisi
di paura, cuciti con nomi noti e ignoti, correndo contro il tempo prima che
svaniscano nell'abisso. Al termine di questa finale, il nostro unico trofeo è
la sopravvivenza stessa. Nessuna squadra qui può reclamare vittoria. Nel torneo
di Gaza, l'unico campione è la volontà di restare vivi. (“Come un
gregge condotto al macello” di Engy Abdelal - corrispondente da Gaza per il
settimanale “L’Espresso” - testo pubblicato il 26 di settembre 2025)
“Dr. Blair e Mr. Tony: il venditore di ideali appollaiato su Trump”,
testo di Pino Corrias pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, giovedì 2 di
ottobre 2025: “Chiamatemi Tony”, diceva tanto tempo fa ai suoi ministri e
al mondo. Aveva 43 anni, era il 1997. Ma il sorriso che lo ha reso famoso
all’alba dell’Era intitolata a suo nome – una primavera liberal dopo gli
inverni a labbra stretta della signora Thatcher – ha incorporato troppi danni,
menzogne e milioni per non risultare danneggiato nello smalto e nella
reputazione. Il ghiaccio dei suoi proverbiali gin tonic si è sciolto da gran
tempo per colpa del suo cinismo e dei suoi scandali anche sotto il sole del Medio
Oriente, dove per otto anni non ha concluso un costosissimo bel nulla, salvo
stringere contatti diretti con le banche e le monarchie del Golfo per i suoi
affari, e dove ora minaccia di tornare, questa volta agli ordini della peggiore
Casa Bianca di sempre e addirittura di Israele che non ha mai smesso di radere
al suolo Gaza, inondandola di sangue. Il suo nome di “ex primo ministro Tony
Blair”, compare per esteso al punto 9 del Piano assemblato dagli sherpa
americani e israeliani, membro anche lui di questo fantomatico “Consiglio di
pace” chiamato a definire e poi a gestire “i piani di finanziamento” per la
ricostruzione di Gaza con il contributo di “gruppi internazionali ben
intenzionati” (letterale) al fine di “attrarre e facilitare” i progetti
sull’esempio di alcune “fiorenti città moderne del Medio Oriente”. Sembrano i
propositi di una zelante agenzia immobiliare che progetta una Disneyland
sull’acqua, al diavolo le cataste di cadaveri. Anche se contiene vistose tracce
di ultimatum a partire dalle “72 ore concesse per rispondere” intimato a Hamas,
estromesso da ogni trattativa da quell’ora in poi, e all’Autorità palestinese,
osservata speciale. Il punto di non ritorno della sua storia – la storia di Sir
Anthony Charles Lynton Blair detto Tony – ha una data e l’ora, le 5:34 del 20
marzo 2003, quando i jet della “Coalizione dei volenterosi” guidata da George
W. Bush, seguito trotterellando da Tony Blair, da allora soprannominato “il
barboncino di Bush”, illuminano i cieli di Baghdad, dando inizio alla Seconda
guerra del Golfo. Bilancio dei primi quattro anni, da 150 a 200 mila morti, 3,5
milioni di sfollati, striscia di sangue ininterrotta fino a oggi. In quell’anno
si stava ancora posando la polvere delle Torri Gemelli, 11 settembre 2001, 2977
vittime, l’America e la Gran Bretagna di Tony Blair avevano già raso al suolo
l’Afghanistan per allestire una vedetta commestibile alle mascelle
dell’opinione pubblica occidentale. Cercavano un secondo strike. Lo allestì
l’Mi6 il servizio segreto inglese, scovando fantomatiche tracce di una
compravendita di uranio da parte di Saddam Hussein in Niger. La Cia confermò.
Il vicepresidente Dick Cheney lanciò l’allarme: “L’Iraq sta preparando
l’atomica”. Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld dettò la strategia:
“Dobbiamo fare le cose in grande. Spazzare via tutto. Quello che c’entra e
quello che non c’entra”. E il Segretario di Stato Colin Powell si presentò
all’Onu con una fialetta di polvere bianca da mostrare in diretta tv, ripetendo
per 17 volte, che quella era la prova “delle armi di distruzione di massa” di
Saddam Hussein. Era tutto falso. Non esisteva l’uranio. Non esistevano le armi
di distruzione di massa. Lo sapevano Bush, Cheney, Rumsfeld, Powell. E
naturalmente lo sapeva il regista dell’operazione, Tony Blair, come
accerteranno tutte le indagini e le confessioni a seguire. Era vera la guerra
di aggressione rinominata “guerra umanitaria”. Era vero il nuovo “imperialismo
postmoderno” cavalcato da Blair, così simile a quello vecchio, ma moltiplicato
dal potere assoluto delle armi e dalla completa manipolazione della verità.
Basta regole, trattati, controlli. Tornano in campo la forza e persino i
mercenari e i contractor spariti all’alba degli Stati nazione a garantire
superpoteri e ricchezza per questa parte del mondo, al diavolo i popoli e gli
Stati che vanno in rovina nell’altra. Era cominciata nel modo opposto e con
opposti propositi la sua storia. Tony nasce a Edimburgo il 6 maggio 1953.
Famiglia piccolo borghese, studi in Giurisprudenza. Diventa avvocato e insieme
militante del Partito laburista. Scala la professione e il partito. Viene
eletto deputato nel 1983. Passato il boom economico, il Labour va in crisi. La
società si riorganizza intorno al pensiero
conservatore-individualista-aggressivo di Margaret Thatcher in Inghilterra e a
quello di Ronald Reagan in America: riduzione dello Stato e delle sue burocrazie,
libera iniziativa, meno tutele per tutti, più soldi per i capaci e i
volenterosi. La stagione della Reaganomics in Gran Bretagna dura quasi un
ventennio. Si spegne. E mentre declina la stella della Signora di ferro, sorge
quella di Tony Blair, l’ammorbidente, prima segretario del Labour Party, poi
primo ministro. Da Downing Street apre il cantiere della “Terza via” che
sarebbe un centrismo ben temperato da incrementi sociali, diritti civili,
salario minimo, virtuose politiche del clima, ma tutto dentro all’indiscutibile
modello unico del capitalismo. Bravo in propaganda ha un formidabile feeling
con l’opinione pubblica. Quando muore Lady Diana, sembra lui il vedovo. Quando
firma la pace con l’Irlanda del Nord, sembra lui l’irlandese. Protegge la libertà
di stampa, anche se va a cena con Rupert Murdoch, il gran Moghul dei media.
Quando la Bbc svela le sue “macchinazioni criminali” contro l’Iraq e i suoi
elettori lo bollano come “sabotatore della sinistra”, lui nega, resiste e
intanto prepara la sua exit strategy. Nel 2007, appena dismesso il suo terzo
mandato, inaugura quello di inviato permanente per la pace in Medio Oriente su
mandato planetario di Onu, Unione europea, Usa e Russia. Scoppiano scandali
sulle sue permanenze negli hotel più costosi negli Emirati. Sugli staff
principeschi. Sulle sue pagatissime conferenze. Sulle sue consulenze per JP
Morgan e Zurich Financial. Sui suoi stretti legami con Israele. Sulle sue
amicizie con i peggiori autocrati, compresi il saudita Bin Salman e l’egiziano
Al Sisi. Quando presenta la sua autobiografia Un viaggio, anno 2010, deve darsi
alla fuga: a Dublino gli lanciano una scarpa e le uova. A Londra i pomodori.
Alla Tate Modern subisce la contestazione di artisti come Tracy Emin, Vivienne
Westwood, Brian Eno. I cartelli dei contestatori dicono: “Criminale di guerra”.
Ma gli insulti fanno curriculum: 40 governi chiedono le sue consulenze e il
Global Change Institute, intitolato a suo nome, 800 dipendenti nel mondo, scala
i 150 milioni di dollari l’anno. Con la moglie Cherie compare nei Panama Papers
in società off-shore proprietari esentasse di un palazzo a Londra. Ora siede,
spalla a spalla, con Donald Trump. Nel suo primo discorso alle Camere, 6 luglio
1983, disse: “Credo nel socialismo che è insieme razionale e morale. Credo
nell’uguaglianza, nell’amicizia, nella giustizia”. Erano tutti buoni ideali.
Col tempo se li è venduti per il fatturato.
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