"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 21 agosto 2025

CosedalMondo. 56 Concita De Gregorio: «Il bambino si era disteso sul pavimento del negozio, stava lì, non si alzava. Allora lui si è steso accanto, sono rimasti così in silenzio per un po'. Sdraiati per terra vicini».

                                    Sopra. "Estate" (2025) di Anna Fiore.

Presa in consegna dal "braccio secolare", Antonia fu trasferita il 21 agosto, nella Torre dei Paratici che era l’antica torre del Broletto, cioè del palazzo del Comune di Novara prima che questo si riducesse ad essere com'è ora: soffocato dagli edifici che gli sono cresciuti addosso nel corso dei secoli, e senza torre. All'epoca della nostra storia, invece, il Broletto era un palazzo indipendente, attorno a cui correvano le strade; e la Torre dei Paratici, che s'alzava a sud, nella sua parte superiore era una prigione... aerea, di due stanze sovrapposte e raggiungibili per mezzo di una scala esterna, piuttosto ardimentosa. Speciali immagini devote, in quelle due stanze, avevano il compito di redimere i detenuti. Al piano superiore, destinato alle donne, era dipinto un Cristo Morto in braccio alla Madonna, mentre al piano di sotto, dov'erano tenuti prigionieri gli uomini, c'era il patrono dei carcerati, San Leonardo: entrambi gli affreschi, però, erano ricoperti di nomi, date, graffiti osceni, ed entrambi si vedevano poco, perché non c'erano finestre in quelle due stanze, soltanto feritoie che d'inverno venivano chiuse con la paglia, e allora buonanotte! (Tratto da “La chimera” - 1990 - di Sebastiano Vassalli).

Storie&Storie”. 1 “La storia del barbiere Christian è cominciata per caso e per amore. Accade sempre così”: E poi alla fine si è sdraiato accanto a lui.  Come si è sdraiato?  Per terra?  Sì. Il bambino si era disteso sul pavimento del negozio, stava lì, non si alzava.  Allora lui si è steso accanto, sono rimasti così in silenzio per un po'. Sdraiati per terra vicini. Poi il bimbo si è alzato, lui anche, e dopo qualche minuto gli stava tagliando i capelli. È stato veramente emozionante. Vuol vedere il video? Non si può diffondere, naturalmente, a tutela del bambino. Ma se vuole glielo mostro, perché a parole è difficile spiegare. Sono in viaggio da ore in mezzo ai boschi del Trentino, dobbiamo attraversare un valico di montagna. La persona che guida la macchina è una donna della mia età, di mestiere fa questo: autotrasportatrice, conducente di pullman, di piccoli bus e talvolta, come in questo caso, di auto. Per chi di passaggio abbia bisogno. Anche le sue due figlie fanno lo stesso mestiere, mi racconta, e ci mettiamo a ridere del pregiudizio i motori-sono-cose-da-maschi. Naturalmente, dipende dall'educazione che hai avuto. Le sue figlie sono cresciute in officina, portano autoarticolati per le strade di montagna con grandissima perizia, lo fanno da sempre. Anche io, dico, da bambina preferivo giocare con le ruspe e coi camion. Le ruspe gialle, in particolare: ne avevo di ogni misura. I bambini bisogna starli a sentire, bisogna vederli e capirli, ci diciamo. Ed è lì che mi racconta del barbiere Christian che ha un salone a Rovereto. Ha veramente un talento, un dono - si emoziona a raccontare. Non ne ha mai sentito parlare? No, veramente no: avrei dovuto? Taglia i capelli ai bambini che hanno disturbi dello spettro autistico: bambini a cui non piace stare fermi, essere toccati. Ecco, lui ci riesce. Ed è bellissimo vedere come fa. Un giorno alla settimana, anzi un pomeriggio - il martedì - abbassa le luci e la musica del negozio, è il momento che si chiama quiet hour, e riceve i suoi piccoli clienti. Si è sparsa la voce, i genitori li portano da tutta Italia. Vuole vederlo? Cerchi su internet, di cognome fa Plotegher. Quando ci fermiamo per fare rifornimento mi mostra il video di cui mi aveva parlato: glielo ha fatto conoscere una delle due figlie. È davvero una danza, quella che il barbiere Christian fa con i bambini. Con tutti, e così con il bambino accanto al quale si sdraia a terra. Una misteriosa danza di esplorazione e ascolto. Un anno fa ha fondato un'associazione di "acconciatori solidali", leggo, si chiama Le forbici a cuore, fanno incontri informativi sull'autismo, corsi di formazione per barbieri. Ma come è cominciato tutto? Per caso e per amore, come sempre. È cominciato perché un'amica madre di un bambino autistico gli aveva raccontato di non riuscire più a tagliargli i capelli: a casa, ovviamente, come aveva sempre fatto. Ma adesso lui non voleva farseli tagliare neppure a casa, neppure dalla madre. Portalo al Salone, ha detto Christian. Non ha preso altri appuntamenti per quel pomeriggio, sono rimasti soli - la madre in disparte. E così, è successo la prima volta. Ho letto un'intervista che gli hanno fatto i bambini di un asilo che è andato a visitare. Perché c'è un pianoforte nel tuo negozio? Perché alcune persone hanno paura delle forbici, ha risposto, e la musica aiuta a rilassarsi.

Storie&Storie”. 2 “Agli elfi non servono strade”: Nel giorno del funerale del padre di mio padre - un signore che osservava i prodotti del benessere, figli e nipoti nella stasi prudente di una poltrona, dietro le spesse lenti di un paio d'occhiali che facevano presagire un distacco consapevole dai doveri familiari e la malinconia inconsolabile di chi non capiva e in fondo non approvava le regole del nuovo mondo - ricordo soprattutto la frenesia. Gli adulti si muovevano robotici, nel silenzio del lutto, ma lo facevano, forse per la prima volta in vita loro, con l'obiettivo di non arrivare in ritardo all'appuntamento. Da irredimibili lazzaroni, fin da bambino, li avevo sentiti spesso gloriarsi degli aerei persi per distrazione o per non aver saputo calcolare a dovere i tempi di una partenza. Questa volta, per l'ultimo viaggio di mio nonno, non considerare lo scorrere dei minuti non era tra le alternative possibili. Erede di certi viaggi in macchina nei meandri dell'Asia minore, chissà perché, mio padre aveva deciso di vestirmi con una camicia indiana. Me l'aveva passata dicendomi soltanto: «Indossa questa» e io, che ero un bambino tutto sommato docile che aveva pagato l'unica ribellione dell'ancora acerba avventura esistenziale - rifiutare una doccia serale - con una fuga casalinga conclusa contro l'angolo di un comodino, tre punti di sutura sotto l'occhio e una corsa in ospedale, avevo deciso di dire no. Era il mio primo funerale, quella blusa non mi piaceva e con un muso lungo e il malumore ricattatorio che solo a quell'età splende in tutta la propria magnificenza, avevo detto la frase di cui per anni, con spirito nerissimo e desiderio d'esorcismo, avevamo riso ai margini delle cene più allegre: «Quando morirai tu mi vestirò come mi pare». La cerimonia, che fino ad allora avevo sentito soltanto raccontare, si sarebbe svolta fuori città. Un grumo di chilometri da percorrere per poi scendere dall'auto, incolonnarsi nella cupezza, seguire il feretro e salutare quell'uomo che vendeva automobili e camion e che per farlo, in giovinezza, aveva viaggiato molto. Era stato in Africa, in Argentina e persino in Islanda che all'epoca non era una meta turistica e che nelle remote lande dei fiordi occidentali somigliava alla Patagonia: strade deserte e accidentate, cieli sconfinati, strapiombi sul mare, temporali improvvisi a spazzare via il sole, più pecore che uomini. L'unica volta che avevo parlato con mio nonno, che di suo parlava poco e non troppo volentieri, mi aveva raccontato proprio dell'Islanda. Da bambini eravamo rapiti dalle storie degli elfi e degli gnomi e lui, che inclinava più allo spirito commerciale che a quello favolistico, si era impegnato per non deludere me e mia sorella iniziando a raccontare di quella terra lontana e coperta dal ghiaccio e di come in quello stesso posto, negli anni 50, era complesso immaginare qualsiasi spostamento: «Ancor più che delle mie macchine, ragazzi, in quel posto avevano bisogno di strade. Ma gli elfi, l'avrete letto, di strade non hanno bisogno». Era tutto ciò che poteva dare, molto più di quanto avrebbe voluto dire. In quei luoghi sono tornato quest'estate trovandoli sicuramente diversi da quando c'era stato lui, ma sempre isolati, inaccessibili e capaci di restituire la distanza incolmabile che ancora separa uomini e natura. Foche, scogliere, vento, nebbia. I pochi lavoratori impiegati nel turismo di una zona dell'isola che per certi versi somiglia alla non lontana Groenlandia e in cui i viaggiatori si spingono solo in piccolissima parte, vengono dall'Europa dell'Est. Stanno per tre mesi, guadagnano bene e poi, quando le nevi chiudono le vie di comunicazione seppellendole di un manto bianco che si scioglie solo in primavera avanzata, tornano in patria. Per chi vive qui l'isolamento è una condizione naturale, per mio nonno un'occasione economica. Nella foto che mio padre ha conservato in salone è appoggiato a un camion a Patreksfjoròur. Fuma. Sorride. La morte è lontana. C'è ancora un mondo da costruire.

N.d.r. I testi sopra riportati a firma, rispettivamente, di Concita De Gregorio e di Malcom Pagani sono stati pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 14 di agosto 2025.

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