La pace sarà duratura? “Dipenderà da noi. Sono due anni che chiedevamo la fine della guerra, perciò non posso che essere felice del risultato. Ma penso che il ritorno degli ostaggi e lo scambio con i prigionieri palestinesi sia solo un primo passo. Il resto non dipenderà dal governo israeliano, ma dalla pressione internazionale”.
Pressione che è stata esercitata essenzialmente da Trump e dal Qatar? “Non solo. Sono stati molto importanti i passi intrapresi dagli Stati europei, come il riconoscimento della Palestina e le proteste di piazza in Paesi come il vostro”.
Le manifestazioni italiane per Gaza qui in Israele sono viste da molti come una minaccia ... “Non ho paura di manifestazioni non violente. Bisogna continuare così. I 20 punti di Trump vanno bene per iniziare, ma dobbiamo assicurarci una road map per una pace duratura in Terra Santa, una prospettiva più ampia di Gaza. Possiamo farlo solo contrastando gli estremisti”.
Hamas e la maggioranza di governo israeliana? “Certo. Però io non sono contro il governo o una figura, ma contro una politica. Se la politica israeliana è il genocidio e la pulizia etnica a Gaza, allora sono contro di loro. Ma in tutti i conflitti si fa la pace dopo essersi sparati addosso. Quindi non mi interessa chi farà la pace. Ho già pubblicamente perdonato Hamas per aver ucciso i miei genitori e il governo israeliano per averli sacrificati. Dobbiamo provare che l'umanità può risorgere dalle macerie. È quello che io e Aziz Abu Sarah abbiamo fatto negli ultimi due anni, trovando così tanto supporto”. Si poteva fare questo accordo prima? “Di certo è troppo tardi per i miei genitori, e per molti amici e per i 67 mila palestinesi uccisi a Gaza e per quelli uccisi dai coloni in West Bank. Ma non è troppo tardi per milioni di persone che aspirano a vivere in pace e sicurezza”. (Tratto da “Non fermiamoci ora: le spinte internazionali assecondino il piano”, intervista del corrispondente da Tel Aviv a Maoz Inon pubblicata su “il Fatto Quotidiano” di oggi, domenica 12 di ottobre 2025).
“Siamo tornati qui, dove era casa. I bimbi la disegnano sulle rovine”, corrispondenza da Gaza di Elina Yazji pubblicata sulla stessa edizione de’ “il Fatto Quotidiano”: Alla prima alba dopo l'entrata in vigore del cessate il fuoco, Gaza ha iniziato a respirare diversamente. L'eco delle esplosioni ha lasciato il posto a passi - migliaia di passi - mentre le famiglie sfollate si dirigevano verso Nord, verso quelle che un tempo erano le loro case. Lungo Salah al-Din Street, dove convogli di sfollati erano fuggiti sotto il fuoco israeliano, ora le persone si muovono nella direzione opposta, portando con sé solo ciò che resta dei loro averi, dei loro ricordi e di un fragile senso di speranza. La strada per Gaza City sembra infinita. Famiglie riposano ai lati della strada, bambini che stringono borse di vestiti, donne che proteggono i neonati sotto coperte strappate. Uomini camminano in silenzio, scrutando l'orizzonte alla ricerca di punti di riferimento familiari che non esistono più. Secondo l'Onu, oltre 1,7 milioni di persone -1'80% della popolazione di Gaza – è stato sfollato durante la guerra, molte per mesi. Ora, decine di migliaia di persone stanno tentando di tornare a casa, nonostante gli avvertimenti che le infrastrutture sono quasi completamente distrutte e i servizi di base inesistenti. All'ingresso sud di Gaza City, una madre è inginocchiata nella polvere, le lacrime si mescolano alla sabbia mentre sussurra: "Siamo a casa". Ma "casa" ora è una sagoma fatta di cemento, acciaio e ricordi. Molte famiglie trovano solo macerie dove un tempo sorgevano le loro camere da letto. Eppure, si fanno avanti comunque: spazzano la polvere da ciò che resta delle loro porte d'ingresso, appendono una tenda strappata, preparano il tè con una latta su un fuoco. La vita, anche nella sua forma più piccola, è un atto di sfida. Tra coloro che tornano, le storie intrecciano il personale e il collettivo. Ahmed, un insegnante di 32 anni, cammina con le sue due figlie per vedere cosa resta della loro casa nel quartiere di al-Rimal. "Continuavano a chiedere quando saremmo tornati", dice a bassa voce. "Ora che siamo qui, non riconoscono più nulla. Chiedono: “Dov'è l'albero? Dov'è il nostro gatto?”. “E io non so cosa rispondere". In un altro angolo della città, Umm Salim, una nonna settantenne, siede su una sedia rotta circondata da lamiere contorte. "Ho seppellito mio figlio sotto questa casa", dice. "Ma è qui che si trova la mia storia. Non la lascerò". Queste non sono emozioni isolate: sono il battito collettivo del ritorno di Gaza. Secondo un recente rapporto di Human Rights Watch (Hrw), almeno il 60% degli edifici residenziali di Gaza è stato danneggiato o distrutto. Le infrastrutture, strade, ospedali, reti idriche e linee elettriche in rovina. Il cessate il fuoco, sebbene accolto con favore, rimane fragile. Per molti abitanti di Gaza, non rappresenta una fine, ma una pausa: un'opportunità per contare le perdite e comprendere la portata di ciò che deve accadere. Insieme al sollievo, arriva l'ansia: durerà? I confini riapriranno? Nonostante la devastazione, la resilienza di Gaza è visibile nei più piccoli gesti. Sulle rovine di quello che un tempo era un bar vicino al lungomare, un giovane ha allestito una piccola bancarella che vende tè. "La gente ha ancora bisogno di un posto dove sedersi e parlare", dice, versando il tè in bicchieri scheggiati. "Questo è tutto ciò che posso ricostruire per ora". I bambini disegnano con il gesso sui muri di cemento, abbozzando case con finestre e giardini che esistono solo nella memoria. I volontari della comunità organizzano campagne di pulizia usando pale e mani nude, liberando sentieri tra i detriti. E da qualche parte tra loro, cammino anch'io: una giornalista che torna in quella che un tempo era la sua strada a Sheikh Radwan. I muri di casa mia sono mezzi crollati, il soffitto è crollato. Eppure, l'odore della terra, il rumore del mare vicino, sembrano un battito cardiaco che rifiuta di fermarsi. Faccio un respiro profondo e sussurro: "Siamo tornati". La mia macchina fotografica cattura frammenti: un ragazzo in bicicletta con una gomma a terra, una donna che lava i piatti in un lavandino rotto, un uomo che stende il bucato su una corda legata tra due tondini di ferro. Nessuno di loro distoglie lo sguardo dalla macchina fotografica. Ci guardano dritto dentro, come per dire: dite al mondo che siamo ancora qui.
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