"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 31 gennaio 2021

Lamemoriadeigiornipassati. 17 Quella che era la «“NUOVA” America di Donald Trump».

 

Ora che il “passaggio” è avvenuto, indolore e con gran spirito di sollievo dei tantissimi, sarebbe il caso di andare a ri-leggere una “memoria” – “Donald il nuovo vecchio” - di Nadia Urbinati – “Professor of Political Theory, Department of Political Science, Columbia University” - pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 28 di gennaio dell’anno 2017. Si era, al tempo, appena all’inizio del quadriennio che avrebbe condotto ai fatti nefasti d’America del “6 di gennaio 2020”. Aveva scritto Michele Serra – ancor prima dei fatti nefasti d’America del “6 di gennaio 2020” - in “Se fosse un vero uomo”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di novembre dell’anno 2020: Se fosse un vero uomo farebbe come Paul Newman e Robert Redford in Butch Cassidy: uscirebbe dalla Casa Bianca con le pistole in pugno, facendosi crivellare dai colpi della Legge, immolandosi per davvero al culto di se stesso, passando alla storia come un bandito leggendario e spavaldo, un uomo libero fino alla follia e alla morte, quel film lì (e quei due attori lì) sì che sono un pezzo del sogno americano... Invece bofonchierà qualcosa su Twitter, accamperà qualche ulteriore recriminazione, racconterà l'ennesima balla, licenzierà l'ultimo famiglio senza altra colpa che di avere creduto in lui, poi se ne andrà a maneggiare qualche nuovo orribile network della destra paranoica (come se non ce ne fossero già abbastanza) mentre uno dopo l'altro, giorno dopo giorno, i notabili repubblicani che gli hanno permesso di tutto gli volteranno le spalle. Vigliacchi e sleali, traditori degli ideali conservatori, che con il populismo c'entrano meno di zero. La prima, vera colpevole della destra indecente è la destra decente ammutolita, impotente, venduta. Sicuramente siede nel paradiso dei giusti John McCain, solitario testimone dell'onore repubblicano. Chi non sa vincere non sa neanche perdere, è una vecchia legge dello sport e della vita, Trump ne è la perfetta conferma. Arrogante da vincitore, meschino da perdente, con la sua orchestrina di avvocati, come un qualunque riccone che crede di poter ribaltare ogni tavolo con il libretto degli assegni. Ogni giorno che passa ci si rende conto dell'importanza storica della sua sconfitta. Ma ci si rende conto, anche, di quale gigantesco lutto per la democrazia fu la sua elezione del 2016. Ha scritto Federico Rampini - a proposito di quei “fatti nefasti” avvenuti nell’America di Trump - sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” del 23 di gennaio 2021: I fatti del 6 gennaio sono solo l’ultimo esempio: il golpismo è meno estraneo alla storia americana. (…). Mi rifugio nella storia, per capire l'inverosimile. Com'è potuto entrare nel linguaggio americano, e nella realtà dei fatti, il concetto di "tentato golpe"? Non è solo l'assalto al Congresso del 6 gennaio ad aver imposto questo tema. Pochi giorni prima, non si era prestata la dovuta attenzione a un appello firmato da tutti gli ex ministri della Difesa americani inclusi molti repubblicani come Dick Cheney e Donald Rumsfeld che intimavano alle forze armate di rispettare la Costituzione e tenersi fuori dallo scontro politico. Il golpismo è un po' meno estraneo alla storia americana di quanto si creda. All'inizio della Grande Depressione, un bivacco di reduci della prima guerra mondiale assediava il Congresso per chiedere aiuti, fino a quando il generale MacArthur lanciò le truppe contro i manifestanti, interpretando in maniera espansiva gli ordini del presidente Herbert Hoover. Lo stesso generale fu accusato di piani golpisti quando tentò di disubbidire alla Casa Bianca durante la guerra di Corea (voleva lanciare bombe atomiche sulla Cina). Gli anni '30 videro un pezzo di classe dirigente americana simpatizzare con Mussolini. Quando Franklin Roosevelt chiese poteri speciali per attuare il New Deal, molti nel suo entourage e nella sua base auspicarono una dittatura di sinistra per piegare l'establishment capitalista. La sfida per Biden è la base sociale del trumpismo; è la larvata guerra civile americana. Biden rischia di essere, per quasi mezza America, altrettanto "illegittimo" di Trump nei suoi quattro anni. Come può evitare di essere lo specchio rovesciato del suo predecessore, cioè il presidente di mezza nazione, l'usurpatore per gli altri? È curabile questa divisione? Biden cercherà di rispondere al disagio economico della classe operaia, aggravato dalla recessione. Ha già rubato a Trump il protezionismo, con il suo slogan Buy American, compra americano. Una lettura economicista del trumpismo sarebbe riduttiva, però. Le analisi più approfondite sulla base sociale di Trump dicono che l'impoverimento e il regresso economico non sono determinanti. Il movente più importante, per esempio dietro il fenomeno dei democratici che votarono per Barack Obama e poi passarono a Trump, è il declassamento di status. L'America "con laurea" li guarda dall'alto in basso. Un sintomo lo trovo nel linguaggio usato dal mio amico Alan Friedman, giornalista progressista, che nei talkshow definisce gli elettori di Trump "bifolchi". Ignoranti, non sanno quello che fanno. È la definizione più benevola, ma è proprio quella che gli interessati percepiscono come la nuova forma di razzismo. Mentre è proibito nella cultura contemporanea manifestare disprezzo per chi ha un colore della pelle diverso, per chi è gay o musulmano, è normale disprezzare i bifolchi. È perfino considerato una forma di antifascismo. Biden può capirlo perché ha radici nell'immigrazione irlandese, dove il razzismo verso i bianchi di serie B fu un'esperienza concreta. Ma c'è poco, nell'arsenale di governo, che lui possa fare. Dovrà lavorare sui simboli, sulle narrazioni, sull'immaginario della nazione. Ed ora la “memoria” Nadia Urbinati: LA “NUOVA” America di Donald Trump, (…), si presenta al mondo con i connotati del vecchio rinnovato a nuovo: un populismo nazionalista che non nasconde il desidero autoritario. Il menu offerto dalla Casa Bianca in questa prima settimana assomiglia all’indice di un libro di storia della prima metà del Novecento. E in questo senso l’America di Trump è insieme vecchia e insieme espressione rappresentativa di un capitalismo globale che vuole rivedere il suo rapporto con la democrazia e il cosmopolitismo dei diritti umani. Di nuovo in questa America c’è la sepoltura senza esequie non solo dei Gloriosi Trenta ma anche dell’ideale che li aveva nutriti: politiche di eguali opportunità e ricerca di cooperazione internazionale. L’America di Trump è un rinnovato vecchio: protezionismo economico in età di globalizzazione finanziaria che, per irrobustire l’industria nazionale, farà prima di tutto gli interessi delle multinazionali imprenditrici, promettendo ai molti (che hanno votato Trump) che questo sarà positivo soprattutto per loro. La stessa vetustà nel nuovo è rintracciabile nella propagandistica cancellazione per decreto di intenti della riforma sanitaria di Obama lasciando in sospeso il contenuto, ovvero come potrà rendere l’assicurazione altrettanto universale senza gravare sulla spesa pubblica. In questa cornice si inserisce l’obolo ai repubblicani: l’assalto rinnovato al diritto di interruzione di gravidanza. Vecchia e tradizionale è anche la politica antiambientalista che subito si afferma per decreto, dando via libera al passaggio dell’oleodotto anche nelle terre dove vivono gli Indiani d’America, e che rischiano l’inquinamento delle falde acquifere. Vecchia politica di aggressione all’ambiente, dunque, cucinata insieme alla promessa di alleggerimento delle tasse agli imprenditori se promettono di investire in America. Una politica, faceva osservare un articolista del New York Times, che vende l’illusione ottocentesca di moralizzare il capitale, come se non sia realisticamente ovvio (in primis a Trump, lui stesso un impresario che opera sul mercato globale) che esso segue la logica della convenienza, non della morale. Ma il protezionismo rinnovato in grande stile si avvale dell’armamentario della filosofia liberista che Ronald Reagan portò alla Casa Bianca: anche Trump prova a giocare con la favola del trickle-down, vendendo l’illusione per cui abbassare le tasse ai ricchi equivarrà a indurli ad investire con un po’ di convenienza per tutti. E la guerra ideologica contro il Messico, al quale Trump vorrebbe imperialmente fare pagare il muro anti-immigrazione che lui vuole finire di costruire, rischia di diventare un boomerang perché molti dei beni abbordabili per i consumatori americani sono importati proprio dal Messico, mano d’opera compresa. Ma di nuovo zecchino, qualche cosa c’è. Prima di tutto, la pratica in grande stile e alla luce del sole del conflitto di interessi, di fronte al quale la più vecchia democrazia del mondo non ha, proprio come l’Italia di Berlusconi, nemmeno uno straccio di impedimento normativo. In secondo luogo l’attacco, anche violento nel linguaggio, verso chi critica il presidente e, soprattutto, verso la stampa. Trump rovescia la tradizione jeffersoniana per cui un Paese può reggersi senza un governo ma non senza una stampa libera e rispettata. La Casa Bianca inscena quotidianamente comunicati contro i giornalisti, e in aggiunta contro l’opinione democratica che gli ricorda che lui, il voto popolare non lo ha preso. Per questo, Trump sta facendo una crociata senza precedenti per contestare i “dati” veri nel nome di “dati alternativi” e quindi ricontare i voti. Il Presidente è in permanente campagna elettorale, come il populismo vuole. Quale sarà l’effetto di questa vecchia-nuova politica populista e nazionalista fuori dagli Stati Uniti? Questa domanda mette in luce l’altra grande novità del governo Trump: la sua presidenza è un messaggio eloquente di sostegno ai populisti d’Europa, a partire dagli eredi della Brexit, ma soprattutto a quelli emergenti nel vecchio Continente che a Coblenza si sono riuniti in internazionale populista con un solo obiettivo: atterrare questa Unione per fare una nuova Europa, tanto populista, bianca e cristiana quanto l’America che Trump vuole. La novità straordinaria che sta sotto i nostri occhi è che, oggi, il maggiore concorrente dell’Europa democratica viene proprio dall’America.La storia ha ricorsi mai identici perché avvengono in un nuovo contesto. Ritorna con l’elezione di Trump la reazione contro la democrazia tollerante e la voglia del nazionalismo geloso delle frontiere, e che però deve alzare muri fisici poiché mezzo secolo di libertà di movimento non si cancella per decreto. Ritorna il senso di fallimento degli ordini liberali degli anni del primo dopoguerra, quando dalle disfunzioni dei partiti tradizionali emersero nuovi leader autoritari che si scagliarono contro l’umanitarismo democratico e la Lega delle Nazioni. Così Trump arringa contro l’Onu e dichiara che la tortura può essere buona strategia nella lotta contro l’Isis, ignorando che anche il suo Paese ha firmato una convenzione internazionale contro la tortura, che la pratica in silenzio e senza fanfara presumendone l’illegittimità. La grande differenza è che nel Primo dopoguerra, in alternativa ai regimi totalitari che quei “nuovi” leader misero in scena, negli Stati Uniti si stava sperimentando una risposta democratica alla crisi economica, a guida Frank Delano Roosevelt. La nuova America è, al contrario, omologa alla voglia di populismo che c’è in Europa. E questa novità è una cattiva notizia per tutti.

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