Ora che il “passaggio” è avvenuto, indolore e con
gran spirito di sollievo dei tantissimi, sarebbe il caso di andare a ri-leggere
una “memoria” – “Donald il nuovo
vecchio” - di Nadia Urbinati – “Professor of Political Theory, Department
of Political Science, Columbia University” - pubblicata sul quotidiano “la
Repubblica” del 28 di gennaio dell’anno 2017. Si era, al tempo, appena
all’inizio del quadriennio che avrebbe condotto ai fatti nefasti d’America del
“6 di gennaio 2020”. Aveva scritto Michele Serra – ancor prima dei fatti
nefasti d’America del “6 di gennaio 2020” - in “Se fosse un vero uomo”, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”
del 15 di novembre dell’anno 2020: Se fosse un vero uomo farebbe come Paul
Newman e Robert Redford in Butch Cassidy: uscirebbe dalla Casa Bianca con le
pistole in pugno, facendosi crivellare dai colpi della Legge, immolandosi per
davvero al culto di se stesso, passando alla storia come un bandito leggendario
e spavaldo, un uomo libero fino alla follia e alla morte, quel film lì (e quei
due attori lì) sì che sono un pezzo del sogno americano... Invece bofonchierà
qualcosa su Twitter, accamperà qualche ulteriore recriminazione, racconterà
l'ennesima balla, licenzierà l'ultimo famiglio senza altra colpa che di avere
creduto in lui, poi se ne andrà a maneggiare qualche nuovo orribile network
della destra paranoica (come se non ce ne fossero già abbastanza) mentre uno
dopo l'altro, giorno dopo giorno, i notabili repubblicani che gli hanno
permesso di tutto gli volteranno le spalle. Vigliacchi e sleali, traditori
degli ideali conservatori, che con il populismo c'entrano meno di zero. La
prima, vera colpevole della destra indecente è la destra decente ammutolita,
impotente, venduta. Sicuramente siede nel paradiso dei giusti John McCain,
solitario testimone dell'onore repubblicano. Chi non sa vincere non sa neanche
perdere, è una vecchia legge dello sport e della vita, Trump ne è la perfetta
conferma. Arrogante da vincitore, meschino da perdente, con la sua orchestrina
di avvocati, come un qualunque riccone che crede di poter ribaltare ogni tavolo
con il libretto degli assegni. Ogni giorno che passa ci si rende conto
dell'importanza storica della sua sconfitta. Ma ci si rende conto, anche, di
quale gigantesco lutto per la democrazia fu la sua elezione del 2016. Ha
scritto Federico Rampini - a proposito di quei “fatti nefasti” avvenuti
nell’America di Trump - sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” del
23 di gennaio 2021: I fatti del 6 gennaio sono solo l’ultimo esempio: il golpismo è meno
estraneo alla storia americana. (…). Mi rifugio nella storia, per capire
l'inverosimile. Com'è potuto entrare nel linguaggio americano, e nella realtà
dei fatti, il concetto di "tentato golpe"? Non è solo l'assalto al Congresso
del 6 gennaio ad aver imposto questo tema. Pochi giorni prima, non si era
prestata la dovuta attenzione a un appello firmato da tutti gli ex ministri
della Difesa americani inclusi molti repubblicani come Dick Cheney e Donald
Rumsfeld che intimavano alle forze armate di rispettare la Costituzione e
tenersi fuori dallo scontro politico. Il golpismo è un po' meno estraneo alla
storia americana di quanto si creda. All'inizio della Grande Depressione, un
bivacco di reduci della prima guerra mondiale assediava il Congresso per
chiedere aiuti, fino a quando il generale MacArthur lanciò le truppe contro i
manifestanti, interpretando in maniera espansiva gli ordini del presidente
Herbert Hoover. Lo stesso generale fu accusato di piani golpisti quando tentò
di disubbidire alla Casa Bianca durante la guerra di Corea (voleva lanciare
bombe atomiche sulla Cina). Gli anni '30 videro un pezzo di classe dirigente
americana simpatizzare con Mussolini. Quando Franklin Roosevelt chiese poteri
speciali per attuare il New Deal, molti nel suo entourage e nella sua base
auspicarono una dittatura di sinistra per piegare l'establishment capitalista.
La sfida per Biden è la base sociale del trumpismo; è la larvata guerra civile
americana. Biden rischia di essere, per quasi mezza America, altrettanto
"illegittimo" di Trump nei suoi quattro anni. Come può evitare di
essere lo specchio rovesciato del suo predecessore, cioè il presidente di mezza
nazione, l'usurpatore per gli altri? È curabile questa divisione? Biden
cercherà di rispondere al disagio economico della classe operaia, aggravato
dalla recessione. Ha già rubato a Trump il protezionismo, con il suo slogan Buy
American, compra americano. Una lettura economicista del trumpismo sarebbe
riduttiva, però. Le analisi più approfondite sulla base sociale di Trump dicono
che l'impoverimento e il regresso economico non sono determinanti. Il movente
più importante, per esempio dietro il fenomeno dei democratici che votarono per
Barack Obama e poi passarono a Trump, è il declassamento di status. L'America
"con laurea" li guarda dall'alto in basso. Un sintomo lo trovo nel
linguaggio usato dal mio amico Alan Friedman, giornalista progressista, che nei
talkshow definisce gli elettori di Trump "bifolchi". Ignoranti, non
sanno quello che fanno. È la definizione più benevola, ma è proprio quella che
gli interessati percepiscono come la nuova forma di razzismo. Mentre è proibito
nella cultura contemporanea manifestare disprezzo per chi ha un colore della
pelle diverso, per chi è gay o musulmano, è normale disprezzare i bifolchi. È
perfino considerato una forma di antifascismo. Biden può capirlo perché ha
radici nell'immigrazione irlandese, dove il razzismo verso i bianchi di serie B
fu un'esperienza concreta. Ma c'è poco, nell'arsenale di governo, che lui possa
fare. Dovrà lavorare sui simboli, sulle narrazioni, sull'immaginario della
nazione. Ed ora la “memoria” Nadia Urbinati: LA
“NUOVA” America di Donald Trump, (…), si presenta al mondo con i connotati
del vecchio rinnovato a nuovo: un populismo nazionalista che non nasconde il
desidero autoritario. Il menu offerto dalla Casa Bianca in questa prima
settimana assomiglia all’indice di un libro di storia della prima metà del
Novecento. E in questo senso l’America di Trump è insieme vecchia e insieme
espressione rappresentativa di un capitalismo globale che vuole rivedere il suo
rapporto con la democrazia e il cosmopolitismo dei diritti umani. Di nuovo in
questa America c’è la sepoltura senza esequie non solo dei Gloriosi Trenta ma
anche dell’ideale che li aveva nutriti: politiche di eguali opportunità e
ricerca di cooperazione internazionale. L’America di Trump è un rinnovato
vecchio: protezionismo economico in età di globalizzazione finanziaria che, per
irrobustire l’industria nazionale, farà prima di tutto gli interessi delle
multinazionali imprenditrici, promettendo ai molti (che hanno votato Trump) che
questo sarà positivo soprattutto per loro. La stessa vetustà nel nuovo è
rintracciabile nella propagandistica cancellazione per decreto di intenti della
riforma sanitaria di Obama lasciando in sospeso il contenuto, ovvero come potrà
rendere l’assicurazione altrettanto universale senza gravare sulla spesa
pubblica. In questa cornice si inserisce l’obolo ai repubblicani: l’assalto
rinnovato al diritto di interruzione di gravidanza. Vecchia e tradizionale è
anche la politica antiambientalista che subito si afferma per decreto, dando
via libera al passaggio dell’oleodotto anche nelle terre dove vivono gli
Indiani d’America, e che rischiano l’inquinamento delle falde acquifere.
Vecchia politica di aggressione all’ambiente, dunque, cucinata insieme alla
promessa di alleggerimento delle tasse agli imprenditori se promettono di
investire in America. Una politica, faceva osservare un articolista del New
York Times, che vende l’illusione ottocentesca di moralizzare il capitale, come
se non sia realisticamente ovvio (in primis a Trump, lui stesso un impresario
che opera sul mercato globale) che esso segue la logica della convenienza, non
della morale. Ma il protezionismo rinnovato in grande stile si avvale
dell’armamentario della filosofia liberista che Ronald Reagan portò alla Casa
Bianca: anche Trump prova a giocare con la favola del trickle-down, vendendo
l’illusione per cui abbassare le tasse ai ricchi equivarrà a indurli ad
investire con un po’ di convenienza per tutti. E la guerra ideologica contro il
Messico, al quale Trump vorrebbe imperialmente fare pagare il muro
anti-immigrazione che lui vuole finire di costruire, rischia di diventare un
boomerang perché molti dei beni abbordabili per i consumatori americani sono
importati proprio dal Messico, mano d’opera compresa. Ma di nuovo zecchino,
qualche cosa c’è. Prima di tutto, la pratica in grande stile e alla luce del
sole del conflitto di interessi, di fronte al quale la più vecchia democrazia
del mondo non ha, proprio come l’Italia di Berlusconi, nemmeno uno straccio di
impedimento normativo. In secondo luogo l’attacco, anche violento nel
linguaggio, verso chi critica il presidente e, soprattutto, verso la stampa. Trump
rovescia la tradizione jeffersoniana per cui un Paese può reggersi senza un
governo ma non senza una stampa libera e rispettata. La Casa Bianca inscena
quotidianamente comunicati contro i giornalisti, e in aggiunta contro
l’opinione democratica che gli ricorda che lui, il voto popolare non lo ha
preso. Per questo, Trump sta facendo una crociata senza precedenti per
contestare i “dati” veri nel nome di “dati alternativi” e quindi ricontare i
voti. Il Presidente è in permanente campagna elettorale, come il populismo
vuole. Quale sarà l’effetto di questa vecchia-nuova politica populista e
nazionalista fuori dagli Stati Uniti? Questa domanda mette in luce l’altra
grande novità del governo Trump: la sua presidenza è un messaggio eloquente di
sostegno ai populisti d’Europa, a partire dagli eredi della Brexit, ma
soprattutto a quelli emergenti nel vecchio Continente che a Coblenza si sono
riuniti in internazionale populista con un solo obiettivo: atterrare questa
Unione per fare una nuova Europa, tanto populista, bianca e cristiana quanto
l’America che Trump vuole. La novità straordinaria che sta sotto i nostri occhi
è che, oggi, il maggiore concorrente dell’Europa democratica viene proprio
dall’America.La storia ha ricorsi mai identici perché avvengono in un nuovo
contesto. Ritorna con l’elezione di Trump la reazione contro la democrazia
tollerante e la voglia del nazionalismo geloso delle frontiere, e che però deve
alzare muri fisici poiché mezzo secolo di libertà di movimento non si cancella
per decreto. Ritorna il senso di fallimento degli ordini liberali degli anni
del primo dopoguerra, quando dalle disfunzioni dei partiti tradizionali
emersero nuovi leader autoritari che si scagliarono contro l’umanitarismo
democratico e la Lega delle Nazioni. Così Trump arringa contro l’Onu e dichiara
che la tortura può essere buona strategia nella lotta contro l’Isis, ignorando
che anche il suo Paese ha firmato una convenzione internazionale contro la
tortura, che la pratica in silenzio e senza fanfara presumendone l’illegittimità.
La grande differenza è che nel Primo dopoguerra, in alternativa ai regimi
totalitari che quei “nuovi” leader misero in scena, negli Stati Uniti si stava
sperimentando una risposta democratica alla crisi economica, a guida Frank
Delano Roosevelt. La nuova America è, al contrario, omologa alla voglia di
populismo che c’è in Europa. E questa novità è una cattiva notizia per tutti.
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