"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 15 aprile 2025

Uominiedio. 59 Montaigne: «C'è altrettanta differenza fra noi e noi stessi che fra noi e gli altri».

 

                    Sopra. Jorge Mario Bergoglio in una foto dell'anno 1973.

(…).  La trama è semplice e si ripete immutata da secoli per ogni fedele. Il protagonista è un tipo che all'inizio della storia commette ogni sorta di azioni malevole. A un bel momento, però, sente di aver superato il segno e si costituisce alla più vicina stazione di polizia, battendosi il petto e implorando clemenza. Il funzionario che riceve la confessione è un uomo che in ragione del suo incarico ne ha sentite di tutti i colori. Per di più lo pagano male, ha un terribile mal di testa e non ha voglia di mettersi a questionare: si accontenta di una generica dichiarazione di pentimento, assegna una blanda punizione e per il momento è tutto. Ma ecco che arriva un avvenimento imprevisto, o sottovalutato - la morte - e il reo si ritrova sul banco degli imputati. Ingannare il severo giudice che dovrà emettere il verdetto finale è impossibile, perché durante la vita dell'imputato Egli ha piazzato telecamere ovunque, anche dentro l'anima del peccatore che ha di fronte. Se il pentimento esibito sulla terra era fittizio, il poveretto sarà condannato e gettato nella geenna, che è il 4lbis dell'eternità. Altrimenti via, a crogiolarsi al calduccio della luce divina. L'ossessione dei cristiani per la giustizia, alimentata con ogni probabilità dal fatto che il fondatore della religione dovette subire un processo farsa terminato con un'inumana condanna, ha percorso con alterne fortune la storia dell'umanità, fino a che, verso la metà dell'Ottocento, ha preso la forma del racconto giallo. La matrice religiosa della letteratura di indagine salta subito agli occhi: diversamente da quello che capita nella vita reale, sulle pagine del racconto poliziesco la giustizia è sempre perfettissima. Il colpevole viene messo alle strette da un inquirente dotato di un'intelligenza soprannaturale, finché crolla e confessa tutto. Colui che in virtù di numerosi indizi era stato inizialmente sospettato, può tornare a casa libero da ogni peso. In una variante molto popolare, il detective è una persona estranea al mondo dei piedipiatti, e i poliziotti in divisa fanno la figura dei babbei di fronte alla Miss Marple di turno. Ogni volta che il vero colpevole viene acciuffato, Gesù si salva, Giuda viene smascherato e Pilato rimane a bocca aperta. Il giallo moderno è un piccolo rituale letterario per correggere il più grande torto della storia. Ciò che resta però incomprensibile è come mai una religione che ha una predilezione particolare per il mea culpa e l'autocritica, abbia tralasciato di puntare il faro delle indagini su sé stessa. Il vuoto esiste e merita di essere colmato. Ci sarebbero enormi vantaggi per tutti. I lettori potrebbero apprendere nuovi fatti sulla vita consacrata e gli scrittori di polizieschi avrebbero una grande quantità di nuovo materiale su cui lavorare. Nelle stanze della cittadella dove vive il Papa, il principio del segreto è stato preso così alla lettera che la trasparenza è bandita per legge e tutto il potere è esercitato da uno solo. Chi varca la linea di confine di porta Sant'Anna trova un mondo irreale, dove impera il gioco degli specchi. Nessuno, lì dentro, si è davvero stupito se nei giorni della malattia di papa Francesco la domanda che più circolava tra i fedeli non era «come sta oggi» ma «è vero che è già morto e non ce lo dicono?». Dentro le mura leonine proclamare la verità in faccia all'interlocutore è considerato uno sgarbo imperdonabile. Per affermare bisogna negare. Per negare bisogna emettere profondi sospiri. Il Vaticano è un grande tavolo di biliardo dove i giocatori tirano sempre di sponda, mai dritti in buca. Si farebbe però un errore clamoroso se si pensasse che gli ecclesiastici usino sempre e ovunque la lingua dell'allusione e che nei corridoi della città pontificia si fischiettino canti gregoriani. Il Vaticano, i conventi, gli istituti religiosi sono luoghi dove convivono i misteri della Trinità e il Corriere dello Sport. Un cardinale può rivolgersi ai suoi pari nel latino della Vulgata, e poi, tornando a casa in auto, può augurare al motociclista che gli taglia la strada di annàmmorìammazzato (se ne pentirà in seguito, forse). Tutto questo serve a dire che per scrivere un giallo ambientato nel mondo religioso è bene impratichirsi dell'ambiente. Inutile, per esempio, mettersi sulla scia di Umberto Eco e compulsare quotidianamente i tomi di Tommaso D'Aquino: oltre ai costi da sostenere, lo sforzo non basterebbe a creare un nuovo Guglielmo da Baskerville. Più utile fare due chiacchiere con un prete all'oratorio, mescolarsi con i fedeli in piazza San Pietro, soggiornare in un monastero per una settimana di relax meditativo. Come Diogene, cercare l'uomo - e la donna - ma con la tonaca. Gli istituti religiosi brulicano di un'umanità invisibile e pronta a farsi indurre in tentazione. Badesse, priori, economi, postulatori, procuratori: ci sono più cariche nella Chiesa che insetti nelle paludi di Comacchio. Sono uomini e donne del tutto simili a noi, gente che come Shylock ride se gli si fa il solletico e sanguina se li si trafigge. Alcuno sono pronti ad assistere i lebbrosi. Altri si scannano per avere più soldi e più potere. A volte si tratta delle stesse persone. È lì che bisogna scavare: non per capire meglio la Chiesa, ma per capire meglio gli esseri umani. Si dirà: ma così si getta fango su gente votata al bene! Giusta obiezione, se non fosse che, osservava Gilbert Keith Chesterton, giallista arrivato a un passo dalla beatificazione, «nella classificazione delle arti, l'assassinio con mistero appartiene alla grande e allegra compagnia delle cose chiamate scherzo». La morale di questa omelia fuori dal pulpito è che il giallo vaticano non differisce da tutte le storie di crimini e misfatti, e per questo motivo non va preso troppo sul serio. Gli omicidi e i delitti saranno tutti inventati. (Tratto da “Color giallo Vaticano”, testo a “firma” di Sommo Marsico – dietro la quale “firma” si cela l’identità reale della coppia di Autori del testo - pubblicato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 6 di aprile 2025).

“Francesco il saggio folle”, testo di Javier Cercas pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 4 di aprile 2025: (…). Jorge Mario Bergoglio nacque il 17 dicembre 1936 nel quartiere di Flores, a Bue-nos Aires, in seno a una famiglia cattolica di classe medio-bassa proveniente dal Piemonte. Era il maggiore di cinque fratelli; gli altri quattro si chiamavano Oscar, Marta, Alberto e Mana Elena: quest'ultima è ancora viva. La lingua in casa era lo spagnolo, però i suoi nonni gli trasmisero l'italiano, che ha sempre parlato con accento portegno. Fu un bambino normale, religioso e diligente; fu anche un adolescente ordinario, a cui piaceva uscire con gli amici. Era un buon ballerino di tango. Ebbe diverse fidanzate. Il 21 settembre 1953, mentre scendeva per avenida Rivadavia per incontrare una di loro e vari amici, entrò nella basilica di San José, si inginocchiò davanti a un confessionale e si confessò. Bergoglio non ricorda per cosa lo fece, o preferisce non ricordarlo; ricorda, invece, che a confessarlo fu un sacerdote di Corrientes, di nome Carlos Duarte Ibarra, che viveva nella Casa Sacerdotale, che di tanto in tanto diceva messa nella basilica e che morì l'anno successivo, per una leucemia. Quando finì di confessarsi, Bergoglio rinunciò all'appuntamento e tornò a casa. Quel giorno prese la decisione di farsi prete, anche se per un anno non la comunicò né alla sua famiglia né agli amici. In quel periodo studiava chimica, lavorava nel laboratorio Hickethier Bachmann e di notte si guadagnava qualche extra come buttafuori nei bar di tango. Nel 1955 si diplomò in chimica. Nel 1956 entrò nel seminario di Villa Devoto, dove si formavano i preti della diocesi di Buenos Aires e dove lo soprannominavano Il Gringo, per i suoi tratti da yankee e la sua statura anglosassone. Nel 1957 dovettero asportargli un pezzo del polmone destro per salvarlo da una pleurite che lo ridusse in punto di morte, un intervento chirurgico che gli lasciò come strascico una voce un po' afona e un'occasionale mancanza di fiato (e che più tardi gli avrebbe impedito di realizzare la sua vocazione di missionario). Nel 1958 chiese di entrare nella Compagnia di Gesù. Il 13 dicembre 1969, pochi giorni prima di compiere trentatré anni, venne ordinato sacerdote. Quattro anni dopo fu nominato Provinciale dei gesuiti argentini e uruguaiani, ruolo che esercitò fino al 1979. L'esercito aveva già da tempo soppresso la democrazia argentina e imposto un regime militare. A quel periodo risalgono le accuse fondate contro la Chiesa cattolica di connivenza con la dittatura; da quel periodo Bergoglio è perseguitato dalla denuncia infondata di aver facilitato o propiziato o tollerato il sequestro e la tortura di due gesuiti, Orlando Yorio e Franz Jalics, che i militari mettevano in relazione con la guerriglia montonera: è un fatto, tuttavia, che non seppe proteggere i suoi due compagni, e che si è sempre sentito responsabile di quella colpa. (…). Tra il 1980 e il 1986 svolse l'incarico di rettore del Colegio Maximo de San José nella zona di San Miguel, a ovest della Gran Buenos Aires, il centro di formazione dei gesuiti più prestigioso dell'America latina, da dove continuò a dispiegare la sua influenza sul governo della provincia. Nel 1990, dopo un periodo di disaccordi con i suoi superiori, che lo accusavano di minare la loro autorità, di cospirare contro di loro e di dividere la congregazione, venne allontanato da Buenos Aires e condannato all'ostracismo in una residenza per gesuiti a Còrdoba, dove trascorse due anni di espiazione. Da quell'oscurità lo liberò monsignor Quarracino, arcivescovo di Buenos Aires, che nel 1992 lo nominò vescovo ausiliare della diocesi e rilanciò la sua carriera ecclesiastica: nel 1997 era arcivescovo; nel 2001, cardinale. A marzo del 2013, dopo la rinuncia al papato di Benedetto XVI, vittima della sua fragilità fisica e della sua impotenza nel riformare un Vaticano messo alle strette dalla corruzione e dagli scandali, Bergoglio venne eletto papa (momento in cui si riconciliò con i suoi confratelli gesuiti, dai quali si era distanziato da più di vent'anni). Un Papa che sembra soddisfare tutti i requisiti dell'argentino prototipico: adora il tango ed è appassionato di mate, di calcio e del San Lorenzo de Almagro, la squadra più umile di Buenos Aires; tutti o quasi tutti: il 14 marzo 2013, il giorno dopo che Bergoglio era apparso sul balcone della basilica di San Pietro annunciando che i suoi fratelli cardinali erano incorsi nella stravaganza di designare un papa giunto dalla fine del mondo, un quotidiano gratuito colombiano titolò a tutta pagina: «Argentino, ma modesto». Un titolo imbattibile. È anche veritiero? Bergoglio è un argentino modesto? Il Papa rientra in quell'ossimoro geniale? Come qualunque persona minimamente complessa, Bergoglio è un uomo poliedrico, sfuggente, molteplice. «C'è altrettanta differenza fra noi e noi stessi che fra noi e gli altri» scrisse Montaigne. L'identità individuale è un concetto problematico (per non parlare di quella collettiva, che è una fantasia); non siamo uno: siamo moltitudini. Bergoglio non costituisce un'eccezione alla regola: non ha senso affermare che il Bergoglio infantile che dava calci a un pallone in calle Membrillar, dov'è nato, sia esattamente lo stesso del cardinale che, agli inizi del secolo, prendeva ogni settimana l'autobus per andare nelle villas miseria che circondano Buenos Aires; o che l'adolescente che divorava pubblicazioni comuniste e leggeva con piacere Leònidas Barletta, dimenticato e dimenticabile scrittore argentino di sinistra, sia identico al settantaseienne che il 18 gennaio 2015 celebrò a Manila una messa alla quale, secondo il calcolo delle autorità filippine, assistettero sei milioni e mezzo di fedeli. Il ritratto che tracciano di lui i gesuiti argentini degli anni Settanta e Ottanta non è lusinghiero: secondo loro, Bergoglio era un uomo dotato di una grande vocazione al potere, di una notevole intelligenza politica e di un progetto per la Compagnia di Gesù, ma anche un tipo personalista, duro, superbo, autoritario, divisivo, subdolo, manipolatore e intimorente (più di un novizio dell'epoca assicura che ispirava paura). Vent'anni dopo, però, quando già era arcivescovo di Buenos Aires, le testimonianze coincidono nel presentarlo in modo quasi opposto: a quel punto era un cinquantenne introverso, malinconico e un po' tormentato, ma soprattutto un religioso che si faceva in quattro per aiutare i poveri. Il papato g1i riservò una nuova metamorfosi: chi l'ha conosciuto prima e dopo il 2013 assicura che, lungi dal metterlo a disagio, quella responsabilità massima l'ha reso un anziano caloroso, pieno di entusiasmo e in pace con sé stesso, come se il soglio di san Pietro fosse stato per lui un galvanizzante benefico. Tutti questi personaggi sono lo stesso Bergoglio, ma sono tutti diversi. Ci sono ritratti comuni a tutti loro? Pochissimi, probabilmente. Un temperamento robusto e pragmatico, scarsamente portato alla speculazione astratta e restio alle ideologie. Una prudenza che lo invita a schivare lo scontro, sebbene, quando lo ritiene necessario, non se ne stia zitto né lo sfugga, il che gli ha procurato numerose inimicizie, soprattutto nella Chiesa stessa, soprattutto nella sua stessa congregazione. I suoi nemici lo considerano astuto, qualità che i suoi amici elogiano; lo considerano (o lo consideravano) anche arrogante, intransigente e dispotico, tratti che i suoi amici negano o identificano con il suo carisma e la sua capacità di leadership: due qualità che nemmeno i suoi più fieri detrattori gli contestano. Repulsione per il fasto, per i privilegi e per ciò che definisce «la mondanità spirituale [...] infinitamente più disastrosa di qualunque altra mondanità». Una discrezione che può sconfinare nell'ermetismo: tra i gesuiti era conosciuto come «La Gioconda», per l'espressione impenetrabile del suo volto. Una tendenza individualistica che in determinati momenti si è scontrata con la disciplina ecclesiastica. Un talento comprovato per l'a tu per tu, per il rapporto personale. Doti organizzative. Capacità di concentrazione e di lavoro. Passione per la lettura e gusto per la scrittura (anche se non si è mai considerato un teologo o un erudito). Passione per l'opera, che da bambino era solito ascoltare il sabato pomeriggio, con la madre e i fratelli. Sobrietà, disciplina: da tempo immemore, Bergoglio si alza poco dopo le quattro del mattino per pregare; va a letto verso le dieci di sera; fa ogni giorno una siesta di quarantacinque minuti. Religiosità d'acciaio. In realtà, quest'ultimo sembra il tratto più costante di un uomo cangiante e sfuggente. Lo è? È la sua fede in Dio, nella resurrezione della carne e nella vita eterna la cosa che unisce tutti i Bergogli di Bergoglio?

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