A lato. "Autunno al mare" (2020), penna ed acquarello di Anna Fiore.
Ha scritto Umberto Galimberti in chiusura del Suo “Per salvare la cultura, iniziamo a studiare di più” – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” dell’undici di gennaio dell’anno 2014 - che “quando sento dire che, per risollevare l’economia, dovremmo investire sul nostro patrimonio artistico che è il più ricco del mondo, penso che non ci sia alcuna possibilità se prima non si investe sull’istruzione, in grado di creare una sensibilità di massa per cultura e arte (che non sono solo evento o spettacolo”.
Appena
sette anni trascorsi dallo scritto ed in piena “pandemia” la cosa da
sacrificare come azione prioritaria è la “scuola”, come dire che l’istruzione è
la “cenerentola” della politica in tutte le vicende storiche di questo
stralunato paese. Non per niente la “pandemia” ha trovato fertile terreno in
quel comparto vitale che è la “sanità” che, al pari della “scuola”, ha visto
falcidiate le sue risorse in quelle annuali occasioni definite un tempo “leggi
finanziarie”. E le condizioni attuali della “scuola” e della “sanità” sono lo
specchio fedele di una mala-politica che sui due vitali comparti pubblici ha
operato drasticamente e ripetutamente. Ha scritto Umberto Galimberti: I
libri invenduti nei magazzini e le opere d'arte negli scantinati sono la misura
del livello culturale del nostro Paese. E senza competenza vince il puro
mercato. A proposito dei beni, Marx operò la distinzione tra il loro valore
d'uso e il loro valore di scambio, già rintracciabile in Adam Smith, che gettò
le basi dell'economia politica, e fatta propria dall'economista inglese David
Ricardo. Il valore d'uso è la capacità di un bene di soddisfare i bisogni,
mentre il valore di scambio è la capacità di un bene di permutarsi con altri
beni. In un regime capitalistico, regolato dal mercato, i due valori non
coincidono. Una bottiglia d'acqua, ad esempio, soddisfa lo stesso bisogno qui
da noi come nel deserto, ma il suo valore di scambio non è uguale da noi e nel
deserto, perché la misura non è il nostro bisogno, ma la sua permutabilità con
altri beni, indicizzata dal denaro. Questa è la ragione per cui i libri che si
presume abbiano maggior vendibilità sono preferiti dalle grandi case editrici a
quelli di maggior spessore culturale a cui solitamente si dedicano le piccole
case editrici, con ritorni economici insufficienti a tenere in piedi la loro
attività, che viene ulteriormente depressa dalle librerie, che per non chiudere
hanno bisogno di vendere. Lo stesso può dirsi dell'arte che, al pari della
moda, inventa gli artisti attraverso i media, crea il loro culto, e con il
culto il mercato. Per cui è il mercato a decidere quali libri si devono
pubblicare e quali artisti promuovere a prescindere dal loro effettivo valore.
Un'opera, infatti, diventa "opera d'arte" solo quando entra nel
mercato. Ed entrarvi non dipende dall'opera, ma dal marketing che intorno ad
essa si decide di fare. L'unico correttivo per invertire la tendenza sarebbe la
diffusione di una cultura di massa che, incominciando dalla scuola, faccia
della competenza dei lettori e dei frequentatori di mostre il criterio decisivo
per selezionare ciò che vale e ciò che non vale. Ma finché in Italia sono
considerati forti lettori quelli che leggono 4 libri all'anno, e finché per
l'educazione artistica, è prevista una sola ora alla settimana nei licei, è
chiaro che, con un livello culturale così basso, a
regolare il successo di un libro o di un'opera d'arte è solo il mercato,
artificialmente drogato dai media e dalla pubblicità.
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