Tratto da “La
distopia a Botteghe Oscure” di Simonetta Fiori pubblicato sul settimanale “il
Venerdì di Repubblica” del 15 di gennaio 2021: Per Togliatti era il demonio o,
per dirla alla sua maniera, "un'altra freccia aggiunta all'arco
sgangherato della borghesia anticomunista". Berlinguer invece gli tolse i
panni di Belzebù per concentrarsi sul profeta della meccanizzazione degli umani:
ma il vaticinio gli sembrava sbagliato. Il lungo viaggio del Pci intorno a
Orwell potrebbe inscriversi entro queste due date, lontane nel tempo e
sideralmente distanti nella sostanza. Nel novembre del 1950, in piena guerra
fredda, lo stigma del Migliore scagliato dalle pagine di Rinascita. E nel
dicembre del 1983, alla vigilia del compimento dell'anno orwelliano, la
"riabilitazione" sulle pagine dell'Unità, diretta da Emanuele
Macaluso e distribuita in un milione di copie. In era staliniana, la
stroncatura di Togliatti non può certo sorprendere. La denuncia affidata alla
distopia di 1984 riguardava apertamente il totalitarismo comunista, con il
tiranno georgiano incarnato dal Grande Fratello, il "bispensiero" che
caricaturizza la filosofia di Lenin e il nemico Goldstein a ricalco dal vero
nome del rinnegato Trockij, ossia Boronstejn. Lo scrittore Gustaw Herling ha
raccontato quale meraviglia i polacchi provassero nel leggere il romanzo.
"Ma questa è la nostra vita" dicevano. "Come fa a conoscerla
così bene? Sarà forse un russo?". Il Migliore non poteva trovare di meglio
che imputare a Orwell la volontà di sporcare le "magnifiche sorti e
progressive" dell'umanità. "Qualsiasi sforzo si compia per gettare le
fondamenta di una società nuova non può condurre ad altro che all'umiliazione
della ragione umana". Ma così si spegne ogni speranza, concludeva il
segretario comunista, recitando il suo "vade retro" contro il
negatore del sogno egualitario. La guerra ideologica di quella stagione finì
per contagiare un lettore della finezza di Italo Calvino, che in una lettera a
Geno Pampaloni liquida Orwell come "libellista di second'ordine".
Pampaloni era stato tra i primi a intuire il carattere "imbarazzante"
dello scrittore inglese, guardato con sospetto non solo dai comunisti ma dagli
stessi socialisti, pur essendo "un socialista democratico", ma di
matrice liberale, non marxista. E scrutato con diffidenza anche dai letterati. Sarebbero passati alcuni decenni prima che Calvino facesse ammenda di
quell'antico giudizio, includendo Omaggio alla Catalogna tra "i libri
indispensabili". "Che si sia tardato a comprenderlo non fa che
provare quanto fosse in avanti rispetto alla coscienza dei tempi" scrive
Calvino. "Lui la Catalogna l'aveva alle spalle, ma tanta parte della
gioventù d'Europa la stava faticosamente vivendo o cercando" (…). La
guerra civile spagnola era stato il passaggio rivelatore. Volontario contro
l'esercito di Franco, Orwell era rimasto vittima della campagna menzognera
scatenata dagli stalinisti, che l'avevano accusato di far parte d'un
"complotto trockista-fascista" in combutta con il futuro Caudillo.
Tornato a Londra, tentò in tutti i modi di ripristinare la verità storica sui
crimini commessi dai comunisti in Spagna, ma la stessa stampa laburista si
mostrò tiepida dinanzi alle sue denunce. Fu allora che lo scrittore cominciò a
dare battaglia contro quella che considerava la peggiore e più pervasiva delle
ideologie, capace di instupidire il ceto intellettuale. Cancellato a lungo
dall'ortodossia comunista, Orwell non figura neppure tra le letture della
sinistra italiana sessantottina. "Ho l'impressione che noi militanti di
quegli anni fossimo la perfetta replica dei militanti inglesi che negli anni
Trenta, dopo l'uscita di Omaggio alla Catalogna, invitavano Orwell ad
accontentarsi di essere un romanziere, ritenendo che la politica non fosse pane
per i suoi denti" racconta lo storico Luciano Marrocu, (…). Claudio
Petruccioli, segretario dei giovani comunisti dal 1966 al 1969, non annovera
1984 tra le letture della sua militanza politica, bensì come romanzo di
formazione nell'età dell'adolescenza. "Ero un ragazzino quando presi in
mano il romanzo ed ebbi la stessa reazione che avevo provato davanti a Il
tallone di ferro di Jack London: entrambi descrivevano un'umanità repressa per
la quale occorreva un grande movimento di liberazione. Arrivo a dire che
contribuì a spingermi verso la sinistra. Allora non ero in grado di leggervi la
critica del totalitarismo comunista. E anche dopo essermi iscritto al Pci, non
avrei avuto con Orwell alcun imbarazzo perché ero convinto che si potesse
essere comunisti senza essere toccati dal problema del totalitarismo". Naturalmente,
aggiunge Petruccioli, si trattava di un'illusione. "La connessione tra
l'esperienza del comunismo realizzato e il totalitarismo è innegabile. Io
cominciai a parlarne dopo l'invasione di Praga, ma nella sinistra comunista è
stata un'acquisizione molto tardiva. E ancora adesso c'è chi rifiuta la nozione
di totalitarismo riferita al comunismo sovietico". Per vedere circolare i
libri di Orwell a Botteghe Oscure bisogna aspettare la seconda metà degli anni
Settanta, grazie a una nuova generazione che s'è liberata dagli antichi dogmi.
Pietro Folena - allora giovanissimo dirigente del Pci - includeva Orwell tra i
capisaldi di una formazione progressista, insieme a Heinrich Böll e ad Albert
Camus. L'avrebbe scritto sull'Unità nel 1988, quando La fattoria degli animali
e 1984 furono tradotti in Unione Sovietica, dopo quattro decenni di censura. E
il suo corsivetto metteva insieme la lezione libertaria dello scrittore inglese
con il "lievito comunista" di Gramsci. "Ci sarà stata anche
dell'ingenuità", dice oggi Folena, "ma allora leggevamo Gramsci nella
chiave dell'eterodossia. E dopo il 1977 ci fu una forte rottura culturale
rispetto a principi mai messi in discussione, con un netto distacco dei più
giovani dall'Urss". Lo sdoganamento ufficiale di Orwell - se così si può
dire - venne formalizzato da un numero speciale dell'Unità diffuso in un
milione di copie. Caporedattore della cultura era allora il ventinovenne
Ferdinando Adornato, a cui venne in mente - alla vigilia della grande profezia,
nel dicembre del 1983 - di dedicare l'inserto all'autore di 1984. "Era
ancora poco riconosciuto a sinistra. E proposi un'intervista a Enrico
Berlinguer, che accettò". Ancora più spiazzante fu l'esito di quel
colloquio, perché il segretario del Pci, scegliendo di accantonare il discorso
sul totalitarismo comunista, si produsse in un inatteso elogio delle potenzialità
democratiche delle nuove tecnologie, stigmatizzando come sbagliate le
previsioni orwelliane. "Berlinguer non aveva interesse a soffermarsi sulla
denuncia antisovietica di 1984: tutto quello che aveva da dire era stato già
espresso con lo strappo da Mosca nel 1981 e oltre non intendeva spingersi"
ricorda ora Adornato. La ricchezza di 1984 - romanzo a più dimensioni - permise
a entrambi di puntare sulla profezia che riguardava il controllo esercitato
dall'informatica sulla società di massa. E un Berlinguer molto più avanti
dell'intellighenzia del suo partito - tradizionalmente conservatrice rispetto
alle minacce della tecnica e della massificazione - si produsse in un elogio
dei computer come possibile strumento di progresso civile. Sei mesi più tardi
sarebbe morto a Padova. Viene spontaneo chiedersi che cosa direbbe oggi della
"democrazia digitale". Ma sono domande impossibili e quindi conviene
rinunciarvi.
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