(…). Ho conosciuto Fatima Hassouna nel 2021, quando con un gruppo di amici stavamo formando dei club studenteschi per i giovani assediati di Gaza: cinema, lettura, fotografia, media digitali, lingue… Fatima si è unita a due club: il club della fotografia e il club del libro. Ricordo con chiarezza il nostro primo incontro: era piena di vita e parlava con passione. Aveva appena iniziato il suo percorso nella fotografia, coltivando anche l’amore per la scrittura. Insieme abbiamo realizzato una serie di doc. “Una donna coraggiosa che insegue la luce alla ricerca della meraviglia”, così si descriveva Fatima Hassouna, 25 anni. Viveva a Gaza City con la sua famiglia e si era laureata in Multimedia all’University College of Applied Sciences. Insegnava anche ai bambini: arte, fotografia, scrittura e teatro. Ma questa luce si è spenta: Israele ha sterminato la sua famiglia colpendo la casa nel quartiere Al-Tuffah, a est di Gaza City. Hassouna è stata una delle documentariste più importanti del genocidio in corso. “Non ha mai lasciato il campo dall’inizio della guerra, documentando massacri sfidando proiettili e bombardamenti. Ha lavorato affrontando la morte ogni giorno fino a che Israele l’ha ammazzata”, ha scritto un nostro amico sui social. Nel suo testamento, pubblicato dopo l’attacco dell’Idf alle tende dei giornalisti al Nasser Medical Hospital, ha scritto: “Se muoio voglio una morte che scuota il mondo. Non voglio essere solo un titolo di giornale o un numero tra le statistiche. Voglio una morte che il mondo senta, un’eredità che duri per sempre, immagini immortali che il tempo non possa seppellire”. Il suo amico poeta, Haydar Al-Ghazali, ha scritto per lei: “Il sole di oggi non sarà violento con nessuno. Abbraccia la città con il calore di una madre, che non ha mai conosciuto. E si scrolla di dosso il dolore con la fermezza di una vecchia donna i cui figli fanno visita dopo una lunga attesa. E la cornice sarà perfetta, dall’alto, proprio come Fatima amava scattare le sue foto”. Nella Giornata internazionale della donna, Fatima scrisse: “Ricordiamo ogni donna palestinese che è diventata un simbolo di resilienza di fronte alla macchina del genocidio, che ha sopportato l’oppressione e l’ingiustizia, che si è privata della propria carne per nutrire i figli e risparmiargli la fame”. Fatima per 18 mesi ha affrontato razzi, proiettili e granate. Ha sopportato la fame, la sete e l’assedio nel nord di Gaza. È stata un modello. Ha vissuto solo 25 anni, senza mai vedere un’altra città oltre Gaza, ma sognava di fotografare le città di tutto il mondo. Nonostante gli orrori di questo genocidio, Fatima si è fidanzata durante la guerra. Si stava preparando per il suo matrimonio nei prossimi giorni, ma un aereo da guerra israeliano l’ha uccisa. Fatima ha lasciato le fotografie che documentano il genocidio: uccisioni, fame, sete, sfollamenti e incendi. Il nome di Fatima Hassouna si aggiunge alla lista di giornalisti e fotoreporter uccisi da Israele, finora 212, in un chiaro e sistematico attacco a chi documenta la verità per il mondo. Cara Fatima Hassouna, vorrei che tu potessi vedere come il mondo intero ti piange. Scrivo per te e su di te, come mi hai chiesto: non come un semplice numero, ma come una persona viva, con una storia, dei sogni, dei desideri e delle foto che ha sempre voluto scattare. Grazie, Fatima, per tutto quello che hai lasciato in noi. (Tratto da “Fatima, la mia amica reporter che documentava i massacri” di Aya Ashour – corrispondente da Gaza per “il Fatto Quotidiano” – pubblicato oggi giovedì 17 di aprile 2025).
“Putin e il suicidio Ue come l’antica Grecia”, testo di Pino Arlacchi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, mercoledì 16 di aprile 2025: L’Europa di oggi è afflitta, come la Grecia antica, da disuguaglianze e fratture: si sta spegnendo perché è caduta in mano a élite scadenti, preoccupate solo della propria sopravvivenza. Con il suo folle piano di riarmo l’élite al potere in Europa Occidentale sta tentando di costruire una minaccia russa che esiste solo nei suoi deliri e che serve a nascondere la sua incapacità di giocare la vera partita, che è tutta interna all’Europa stessa. La partita del lento e inesorabile impoverimento della sua popolazione a vantaggio di pochi privilegiati che dura da mezzo secolo. La partita della perdita dell’energia vitale del continente, sempre più isolato in un pianeta non più dominato dall’Occidente e che trabocca di voglia di emancipazione e di pace. Il progetto europeo, concepito dopo il 1945 come reazione a due guerre mondiali che avevano portato l’Europa sull’orlo dell’autodistruzione, ha esaurito la sua spinta propulsiva. Non è più un grande piano di pace e prosperità condivisa. Si è corrotto e ribaltato in un cupio dissolvi, in un rinnovato impeto suicida. Che altro può essere se non un folle voto verso la morte l’attacco che l’oligarchia dell’occidente europeo sta sferrando ad un’altra parte dell’Europa, la Russia, dotata di armi di distruzione di massa in grado di distruggere l’intera civiltà europea? E se la Russia decidesse di prendere sul serio la minaccia di aggressione lanciata da Bruxelles giocando d’anticipo e prendendo l’iniziativa invece di aspettare vent’anni come nel caso dell’Ucraina? Per il momento Putin pare più propenso a considerare poco più che un vaniloquio le dichiarazioni della von der Leyen e le isterie anti-russe del Parlamento europeo. Ma nel caso opposto non credo che la fine dell’Europa avverrebbe lentamente, nell’arco di secoli o di generazioni, come è accaduto alla sua casa madre, la Grecia classica, estintasi per le stesse assurde ragioni promosse oggi dagli inetti leader europei. Non sono stati gli archi dell’invasore persiano né le lance macedoni a spegnere la voce di Atene, ma il graduale avvelenamento delle sue stesse radici. La Grecia classica non cadde sotto i colpi di un nemico esterno. Morì per un prolungato suicidio, consumato nell’arco di guerre fratricide. Lo sfacelo della Grecia antica conserva una risonanza inquietante e un’attualità che non possiamo permetterci di ignorare. La narrazione tradizionale che attribuisce alla “minaccia persiana” le origini del declino ellenico è una semplificazione storica che non regge all’analisi critica degli eventi. Come ha osservato Arnold Toynbee, le civiltà non muoiono assassinate, ma si suicidano. Il caso greco ha contribuito a ispirare questa massima, rivelando come il sistema delle poleis, le città-stato, con la sua straordinaria vitalità culturale e le sue profonde contraddizioni politiche, contenesse già in sé i semi del proprio disfacimento. L’evento catalizzatore di questo processo di autodistruzione fu indubbiamente la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), un conflitto che lacerò il mondo greco per 27 anni, contrapponendo Atene e la sua Lega Delio-Attica a Sparta e la Lega Peloponnesiaca. La guerra fu iniziata dagli Spartani ma Tucidide, il grande storico testimone diretto degli eventi, distingue tra la “causa vera” e i “pretesti immediati”. Secondo lui, la causa profonda era stata “la crescita della potenza ateniese e il timore che essa provocava in Sparta”. Atene aveva trasformato la Lega di Delo (nata come alleanza difensiva in stile Nato contro i Persiani) in un vero e proprio impero marittimo le cui navi minacciavano le coste del Peloponneso spartano. Quindi, se formalmente fu Sparta a dichiarare guerra, Tucidide suggerisce che fu l’espansionismo ateniese a rendere il conflitto praticamente inevitabile. (Vi viene in mente qualcosa?). I numeri parlano da soli: Atene perse circa 30.000 cittadini durante l’epidemia di peste del 430-429 a.C., un quarto della sua popolazione. L’aggressione del 415-413 a.C. contro Siracusa, una splendida polis siciliana colpevole solo di far ombra ad Atene, si concluse con la sconfitta e la perdita di 40.000 uomini e 200 navi. Quando, nel 404 a.C., la città si arrese a Sparta, le sue mura furono abbattute mentre i suoi abitanti piangevano la fine dell’egemonia ateniese e, con essa, di un’epoca d’oro del pensiero umano. Come scrive Luciano Canfora, “La Grecia classica morì così, consumandosi in un’interminabile successione di guerre, in cui ogni vittoria era effimera e ogni sconfitta permanente. Solo l’arte e il pensiero greco sopravvissero, ma in forme sempre più distaccate dalla realtà politica”. Nel cuore di questa autodissoluzione giaceva un paradosso irrisolto: il sistema delle città-stato, che aveva generato l’incredibile fioritura culturale del V secolo a. C., si rivelò incapace di evolversi verso forme di aggregazione politica più ampia. Ogni polis difendeva gelosamente la propria autonomia (autonomia) e libertà (eleutheria), considerando l’indipendenza un valore assoluto e non negoziabile. Nessun pensatore greco andò oltre effimeri vagheggi su una federazione delle poleis di lingua greca. Non dimentichiamo, al riguardo, come i padri fondatori dell’Unione europea consideravano l’inclusione della Russia come la meta finale del cammino verso un Europa estesa dall’Atlantico agli Urali. Cammino interrotto e progetto espansivo crollati ormai senza rimedio. E senza alternativa. La lezione della caduta della Grecia classica è che nessuna eccellenza artistica e filosofica può salvare una civiltà la cui leadership non sa affrontare le sfide politiche e sociali del momento. Le civiltà muoiono quando perdono la capacità di rinnovarsi dall’interno, di ringiovanire come sta adesso accadendo alla Cina: il paese più povero del mondo che diventa tra i più ricchi nell’arco di soli 40 anni grazie alla qualità della sua leadership e del suo progetto socialista. L’Europa contemporanea è afflitta, come la Grecia antica, da disuguaglianze e fratture che appaiono insanabili. La nostra civiltà si sta spegnendo perché è caduta in mano a élite scadenti, preoccupate solo della propria sopravvivenza, pronte ad asservirsi a padroni esterni e condannate a diventare vittima delle proprie paranoie. Se la parte russa dell’Europa decide di prendere davvero in considerazione la minaccia armata che l’oligarchia dell’Europa occidentale sta cercando di costruirle contro, la storia si ripeterà sotto forma di una tragedia ancora più definitiva di quella che ha distrutto l’antichità greca. Perché adesso c’è in scena l’Apocalisse nucleare. Ma la storia sembra ripetersi, fino adesso, sotto forma di farsa. Speriamo.
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