Tratto da “La nostra civiltà muoia con eleganza”, intervista di Vincent Tremolet De Villers al filosofo francese Michel Onfray pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 14 di gennaio dell’anno 2017:
Da che cosa può essere sostituita la nostra civiltà? «Da ciò che si dimostrerà più forte di lei e contro cui non potrà combattere. La demografia ci dice che la Francia bianca e cattolica si avvia a scomparire. La cosa non mi indispone, non propongo nessuna politica reazionaria per impedire che questo avvenga, non mi unisco al coro di prefiche, di cui tutti conosciamo i nomi, constato, così come Michel Foucault annunciava la morte dell’uomo il cui volto svanirà sulla sabbia di una spiaggia coperta dal mare, che possiamo annunciare con lo stesso spirito la morte dell’uomo europeo che una volta era prevalentemente bianco e giudeo-cristiano. È così, al di là del bene e del male. La demografia testimonia a favore dell’Africa, della Cina, dell’India e dell’Asia. La risposta alla sua domanda è in quei paesi».
All’ateismo religioso, associa l’ateismo sociale. Lei è spietato con le ideologie e il progressismo: con il comunismo, ma anche con il consumismo. Non è, in definitiva, un anarchico? «La parola “anarchico” ha una connotazione negativa: è l’epiteto che caratterizza i bombaroli del secolo XIX. Vi è un secondo senso, un po’ tecnico, che rimanda a Proudhon, per il quale l’”anarchia positiva” è un modo di organizzazione contrattuale della società. È l’autogestione, il potere orizzontale, la creazione della libertà con formule concrete, pratiche e non violente. Questo è il mio modo di sentire. Il mio anarchismo sociale riguarda le credenze liberali di destra e di sinistra, che sono sbagliate perché credono che lo Stato giacobino è la meccanica ideale, mentre bisogna restituire il potere al popolo perché possa gestire da sé la sua vita comunale, locale, dipartimentale, regionale, e possa poi, con un sistema di parlamenti regionali che designano delle persone secondo la logica del mandato imperativo, gestire la sua vita nazionale e internazionale. (…)».
Molti politici e intellettuali ritengono che la nostalgia abbia un aspetto patologico. Lei non nasconde una serie di legami umani, regionali, artistici, politici. È un nostalgico? «Quando è necessario, sì: la perdita di ciò che era buono e migliore di oggi può legittimamente suscitare rimpianti. Un periodo di pace nel passato è migliore di un periodo di guerra attuale, un periodo antico di intelligenza è migliore di un periodo odierno di idiozia, un’epoca di libertà è migliore di un’epoca di servitù nei nostri giorni, un tempo di amore per le lettere è migliore del disprezzo per le lettere di oggi. Ma se l’oggi è meglio di ieri, preferisco l’oggi: una medicina più efficace per una maggiore salute, delle tecniche digitali di facile apprendimento e uso che consentono l’accesso alla cultura, la scomparsa di indebite gerarchie che permette delle relazioni veramente contrattuali e immanenti, una condizione della donna meno feudale che prima del Maggio del ’68 e tante altre cose. Chi sa essere solo conservatore sbaglia, chi sa essere solo progressista sbaglia: bisogna preservare l’eccellenza e diffidare di ciò che spinge verso il basso».
Lei scrive che il nostro mondo sta crollando e che questo crollo potrebbe travolgere tutto. Perché, nonostante questa cupa constatazione, continua ancora a scrivere, a partecipare attivamente alla vita intellettuale? «Perché non ci rimane che l’eleganza. Morire in piedi, con il sorriso sulle labbra, dopo aver personalmente contribuito il meno possibile al naufragio».
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