La scissione fu un regalo al fascismo? Glielo domando anche perché fu lo stesso Gramsci a definirla due anni dopo in una lettera a Togliatti “il trionfo della reazione”. «Lo strappo tra comunisti e socialisti contribuì alla vittoria di Mussolini. Anche se probabilmente Mussolini si sarebbe affermato lo stesso perché era l’unico che aveva un disegno chiaro in mente. Oggi noi vediamo soprattutto lo sfarinamento delle forze politiche sull’altro lato della scena: non solo di comunisti e socialisti, ma anche della componente liberale. Il capo de fascismo campò sulle divisioni e sull’insipienza di tutti gli altri».
Il paradosso del Pci è che il comunismo, là dove si è realizzato, ha prodotto dispotismi e regimi illiberali, in qualche caso sanguinari, mentre in Italia è stato baluardo della democrazia. Intanto condivide questo giudizio? «Sì, anche se dovremmo analizzare caso per caso. Ma fermiamoci alla storia italiana. Il Pci ha sicuramente svolto questo ruolo di difesa della libertà e della democrazia. Sotto il fascismo fu l’unica formazione politica capace di mantenere una presenza clandestina ininterrotta per tutto il ventennio. Alla fine della guerra, la gente s’è ricordata della coerenza di chi aveva resistito e gli ha dato il voto. E anche nella resistenza al nazifascismo i comunisti furono la principale forza politica impegnata nella lotta armata, introducendovi elementi di costruzione della democrazia: mi riferisco all’esperienza del Comitato di Liberazione Nazionale».
Questo ruolo fu mantenuto anche negli anni Cinquanta? «In quel decennio oscuro noi abbiamo 25 mila perseguitati: licenziati per rappresaglia sindacale. La grande maggioranza è comunista. E anche gli scontri di piazza contano un numero di morti superiore alle vittime di analoghi scontri in Germania, Francia e Gran Bretagna: sono gli anni della Celere di Mario Scelba, a lungo primo ministro e ministro dell’Interno; molti prefetti si erano formati in epoca fascista. Aver retto a questa repressione durissima senza cedere mai a una risposta violenta è il segno di un’enorme alfabetizzazione democratica. Il Pci insegnava agli operai a recitare gli articoli della Costituzione davanti ai poliziotti».
E per tornare alla domanda iniziale: come si spiega il paradosso del ruolo di sentinella democratica di un partito che sognava la rivoluzione? «La figura chiave è stata quella di Palmiro Togliatti: era stato complice di Stalin, sapeva cosa accadeva da quelle parti e proprio per questo inseguì un altro progetto. Fin dal 1944 ebbe in mente il partito nuovo, il partito di massa con due milioni di iscritti: era il solo modo per resistere in una scena internazionale complicata. E poi ci fu la scelta di partecipare al progetto della Costituente. Il Pci è stato l’unico partito comunista europeo che abbia contribuito alla realizzazione della carta costituzionale».
Se Togliatti l’avesse fatto, il Pci sarebbe stato un partito diverso? «È la storia d’Italia che sarebbe stata diversa. Il Pci si sarebbe potuto riunire al Psi partecipando al processo di riforme. Pensi che differenza. Togliatti non ha mai voluto una Bad Godesberg italiana. Non ha mai detto: basta con la rivoluzione, siamo riformisti. E non l’ha mai detto nemmeno Enrico Berlinguer, che s’è sempre rifiutato di equiparare la sua forza politica alla socialdemocrazia. Stiamo ora ricostruendo grazie agli archivi i suoi incontri clandestini con Willy Brandt, presidente della Spd, e con i laburisti inglesi: erano questi i suoi interlocutori, non Breznev. Ma ancora nel 1986, al XVII Congresso, un terzo dei delegati indicava l’Unione Sovietica come il modello della società più giusta. C’era un equivoco di fondo».
Di fatto però era un partito riformista. Lei nel libro cita quella bellissima profezia di Turati rivolta ai comunisti transfughi: siete persone oneste, tornerete sui vostri passi e diventerete riformisti. Così in fondo è stato. «È indubbio che il Pci, tra gli anni Sessanta e Settanta, sia stato la forza politica che più ha contribuito al ciclo di riforme fondamentale, talvolta magari criticandole – regioni, statuto dei lavoratori, diritto di famiglia, divorzio, aborto, servizio sanitario nazionale – ma poi quella spinta riformatrice si è esaurita. Dopo la morte di Moro e la fine del compromesso storico, la proposta del Pci ha ripiegato sulla questione morale: richiamo efficace sul piano etico-civile, ma sul piano politico una proclamazione di impotenza. Infine, nell’ultimo tratto, il partito non ha saputo più leggere le trasformazioni della società italiana in senso individualista».
Lei parlava prima della mancata elaborazione culturale sul nesso democrazia e comunismo. La conseguenza è stata che quando è caduto il muro di Berlino, (…), i calcinacci sono finiti anche sulle giacche dei dirigenti del Pci. E dopo la fine del partito c’è stato un lungo silenzio, tra l’imbalsamazione da parte dei nostalgici e la liquidazione da parte dei tanti che dicevano: in fondo non sono mai stato comunista. «Quel lungo silenzio dei comunisti è figlio dell’occasione perduta da Togliatti nel 1956: ossia quella di tagliare il cordone ombelicale con l’Urss. Ed è significativo che anche nel 1991, quando nasce un’altra formazione politica, gli ex comunisti si rifiutino di chiamarsi socialisti. La parola socialismo è rimasta un tabù. E non solo perché c’era Craxi, ma perché pensavano di appartenere a un’altra storia. Perfino Veltroni, quando dà vita al partito democratico, va a cercare il modello negli Stati Uniti, scartando la famiglia europea del socialismo».
Lei perché ha votato a lungo il Pci? «L’ho sempre ritenuta la forza politica più capace di far bene alla democrazia italiana. Ha difeso le istituzioni dall’eversione della destra. Ed è stato il partito che più ha retto l’urto del terrorismo: senza Berlinguer e Pecchioli, la Democrazia Cristiana sarebbe franata».
Cosa è rimasto di quella storia? «Niente. Non esiste più un partito della sinistra che forma la classe politica, offre una sede in cui discutere, propone l’idea che il mondo si possa migliorare. Oggi nei miei studenti leggo uno sguardo rassegnato e triste: i militanti del Pci quello sguardo non l’hanno mai avuto».
E la sua eredità ideale? «I ragazzi la ritrovano in papa Francesco. Con un altro lessico, e con l’equivoco di fondo della rivoluzione sovietica, i militanti comunisti dicevano le cose che oggi dice il papa-pastore: amore per il prossimo, giustizia sociale, fraternità universale. Potrà sembrare un paradosso, ma la storia è questa».
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