C’è voluto questo “annus
horribilis (?!)” affinché si tornasse a parlare nel
bel paese della “scienza”. Pro o contro non importa, l’importante è stato
averne ripreso a parlare. È come dire che “tutto il male non viene per
nuocere”. È fuor di ogni dubbio che dopo o a causa dei “NO VAX” esista pur
sempre nella “pancia” del Paese una diffusa diffidenza nell’arte “magica” della
“scienza”. Solamente una grossissima “maturità” civica potrà portare strati
sempre più larghi della popolazione a guardare alla “scienza” con il dovuto
rispetto ed interesse, così come ha ben raccontato Maurizio Maggione nella Sua
“memoria” (Non è che la sera a cena sentissi mio padre e mia madre discutere,
cosa dici lo facciamo, non lo facciamo? Credo che per tutti loro, scritto o non
scritto, fosse un dovere prima che un obbligo, e l’uno non è necessariamente
l’altro, e il primo è anche di più perché è la libera e cosciente accettazione
del secondo) riportata nel post del 7 di gennaio. È su queste certezze
che sono andato a “scovare” questa memoria che risale al mercoledì 9 di febbraio
dell’anno 2005 e che contiene una “riflessione” sul “tema” di Eugenio Scalfari,
“riflessione” che risale alla “pre-istoria”, ovvero al “paleolitico” 26 di luglio
dell’anno 1990. È pur vero che a quel tempo i signori della “scienza” non
gigionavano negli studi televisivi per combattersi, smentirsi, insultarsi. È
molto elementare capire come i deplorevoli comportamenti di quei “sacerdoti”
della “scienza” siano stati dettati dalle notevolissime risorse economiche che
la “scienza” in quanto tale riesce a far circolare, risorse per le quali tutto
è consentito pur di accaparrarsene la fetta più grossa. Scrivevo a quel tempo: Il titolo di questa “rilettura” è stato
preso a prestito dalla interessante nota di Marco Panara apparsa sull’ultimo
numero del settimanale “Affari & Finanza” del 7 di febbraio 2005. Da quando
l’Italia ha iniziato a diffidare della scienza? Stando alle cronache ed alle
cose conosciute dal grosso pubblico, il bel paese da un bel po’ di tempo si è
distanziato dai più avanzati paesi in fatto di ricerca ed investimenti e quindi
in fatto di incremento della produzione, della redditività e della ricchezza,
da distribuire poi equamente tra tutti i protagonisti dell’economia di un paese
moderno ed avanzato. È vero, è un andare a lume di “naso” nella ricerca dell’inizio
della diffidenza e dell’abbandono, e di una o delle molte sue ragioni. I fatti
che la televisione occasionalmente ci offre, di ricercatori e scienziati costretti
all’espatrio e che poi risultano essere inventori o scopritori di prestigio in
campo internazionale, è una misura, seppur empirica, di uno stato delle cose
nel bel paese. Ed è esemplare e tipico di un paese dalla corta memoria come
esso, il bel paese, si impossessi e faccia propri i successi compiuti
all’estero dagli uomini che ha costretto ad emigrare sottraendo energie ed
intelligenze necessarie per competere in campo internazionale. Eppure, alcuni
decenni or sono nel bel paese la ricerca si poneva all’attenzione di tutti, e
tanto per richiamare alla memoria un qualcosa di quel felice periodo, come non
ricordare il bel paese all’avanguardia nella ricerca sulle materie plastiche,
con una ricaduta industriale notevole. Oggi sembra che una scelta di campo sia
stata effettivamente fatta; il bel paese si vota, anima e corpo, alle ricerche
e produzioni marginali, con bassissimo investimento tecnologico, nei campi in
cui il rischio sembra ridotto all’osso, e tanto per intenderci, si punta tutto
sulla produzione dell’immateriale, ovvero nel campo della comunicazione e
dell’intrattenimento da un lato, e sulla speculazione finanziaria “tout court”
dall’altro, all’interno della quale il rischio imprenditoriale è quasi nullo. È
questa una scelta recente, dettata dalla circostanza di un capo del governo
imprenditore dell’immateriale per eccellenza, oppure è una scelta datata? Andando
a rileggere certe note storiche ci si leva lo sfizio, e l’ansia della ricerca
di risposte viene in qual certa misura soddisfatta. Scriveva infatti giovedì 26
luglio dell’anno del signore 1990 Eugenio Scalfari, prima ancora quindi della
decisione storica della discesa in campo dell’egoarca di Arcore: (…). In
realtà, come parecchi sospettavamo da tempo, l’Italia non è soltanto la quinta
tra le grandi potenze industriali ma anche la prima tra le repubbliche delle
banane.Meglio testa di gatto, dice il proverbio, che coda di leone. E noi
testa di gatto siamo e abbiamo l’aria di esserne abbastanza contenti. (…). Ciò
che distingue i bananieri dagli imprenditori veri è che i secondi fanno i loro
affari misurandosi col mercato e con le sue regole; i primi utilizzando i
padrinaggi politici per piegare il mercato ai loro interessi.(…).
Berlusconi è un bananiere a ventiquattro carati, cioè un uomo d’affari che fa i
suoi affari con la politica.È un lobbista di tale dimensione da poter
disporre, quando siano in gioco i suoi interessi, addirittura della maggioranza
parlamentare. (…). Parole pesanti
come le pietre, scritte nell’anno del signore 1990. Possiamo pensare a quella
data come ad una delle date a cui far risalire lo stato comatoso della scienza
e della ricerca del bel paese? Nessuna certezza invero, ma la realtà è sotto
gli occhi dell’intero mondo, e non porsi domanda alcuna non è un buon esercizio
di libera e consapevole cittadinanza. Un paese che diffida della scienza non farà
molta strada. La faranno forse, altrove, alcuni suoi scienziati, ma il paese
no. Perché resterà fuori da pezzi di futuro: li potrà comprare, se ne avrà i
mezzi, ma non li produrrà. È già successo all’Italia negli ultimi decenni,
siamo rimasti fuori da molti settori del farmaceutico e della chimica, dal
nucleare, dall’informatica e dall’industria delle telecomunicazioni.Settori
che occupano una buona parte della nostra spesa, ma nei quali la nostra
capacità produttiva è inesistente o marginale. La diffidenza nei confronti
della scienza, talvolta addirittura la paura della scienza ha ragioni complesse
e serie. Nella percezione collettiva quella stessa scienza che due o tre
decenni fa era uno degli strumenti ai quali affidavamo la costruzione di un
futuro migliore, oggi invece c’inquieta. Forse perché, sostengono alcuni,
ancora due o tre decenni fa era percepita come la strada da seguire per
estendere al massimo le capacità e le possibilità dell’uomo come lo conosciamo,
mentre ora la percezione è che si sta entrando in una fase in cui la scienza
potrebbe superare l’uomo come lo conosciamo e modificarlo, cambiarne i
meccanismi e la natura, rendendolo qualcosa di diverso, che non sappiamo
prevedere. E così come l’uomo, gli animali e le piante. Forse, scendendo ad un
livello meno filosofico, il rapporto con la scienza si è incrinato perché non
le chiediamo più solo miglioramenti ma certezze, chiediamo la garanzia che
certe cose non ne determinino altre, e gli scienziati non sono per loro natura
dispensatori di certezze.La loro misura è “l’evidenza scientifica”,
che è molto, che è tutto quello che sappiamo oggi, ma che per chi chiede
certezze non è abbastanza.In Italia in particolare c’è dell’altro. Ci
sono su molti temi le posizioni della Chiesa, c’è carenza di cultura
scientifica che le nostre scuole e i nostri licei non insegnano abbastanza né
nel modo giusto. C’è la delegittimazione progressiva della scienza e degli
scienziati, infilati quotidianamente nel tritacarne dello scontro tra i gruppi
di interesse e le posizioni più intransigenti, dal quale esce sminuzzata,
tirata da una parte e dall’altra senza rigore né rispetto. E però siamo
chiamati ad esprimerci e decidere su cose complesse, dalle staminali agli
organismi geneticamente modificati, per citare le cose all’ordine del giorno,
di cui sappiamo pochissimo, e non sappiamo di chi fidarci. Avremmo bisogno di
spiegazioni e invece riceviamo slogan. La scienza resta sullo sfondo.La
questione ha anche un’altra faccia, della quale non si parla mai: i costi, che
per la società italiana nel suo complesso sono le occasioni perdute, i settori
economici non sviluppati, la frustrazione e la diaspora dei talenti. L’Associazione
Galileo 2001, nata per difendere e diffondere la libertà e la dignità della
scienza, ne ha fatto un libro, dal titolo appunto “I costi della nonscienza”
(edizioni Ventunesimo Secolo, euro 15), che è una lettura istruttiva, benché
permeato da uno spirito antiambientalista monocorde e soprattutto ingenuo,
perché non riconosce la responsabilità profonda di tutta la politica, della
quale i partiti ambientalisti sono solo una parte, e anche piccola. Èla
politica che non ha il coraggio di scegliere né, spesso, la credibilità
necessaria per costruire il consenso su scelte che non possono essere fatte con
la pancia ma che dovrebbero essere fatte con la testa.Non
si spiegherebbe altrimenti perché comunità che hanno convissuto per decenni con
discariche indecenti siano pronte a fare le barricate alla sola ipotesi di
sostituirle con un inceneritore, guidate da sindaci di ogni colore. Gli
scienziati dicono che un inceneritore moderno ha meno emissioni di una sola
automobile, ma nessuno è disposto a credere loro. Eppure basterebbe fare una
gita a Peccioli, un piccolo comune toscano che aveva una discarica e l’ha
trasformata in un inceneritore supermoderno, migliorando enormemente la qualità
dell’ambiente e traendone le risorse per rivitalizzare il paese, investire in
innovazione e in servizi, con un significativo effetto anche sull’occupazione.
E come Peccioli altri. Che però non diventano esempi da seguire e restano
invece esperienze isolate e marginali.Ma i costi sono ben altri da
quello del trasporto in Germania dei rifiuti che non vogliamo incenerire qui. I
costi maggiori sono lo spreco delle intelligenze, della passione, dei talenti;
la non partecipazione a filiere produttive che sono quelle dove maggiori sono
il valore aggiunto e le possibilità di creare lavoro qualificato e benessere
futuro per la nostra società; l’esclusione o la marginalità nei grandi progetti
internazionali di ricerca; il mancato flusso di innovazione verso settori
produttivi maturi, nei quali fortissima è la concorrenza sui costi. Il costo è
nella dipendenza da saperi sviluppati altrove.Si fa un gran parlare di “knowledge
economy”: ricordiamoci però che i “knowledge” di cui c’è bisogno non sono solo
quelli necessari per costruire prodotti finanziari complessi o per inventare
campagne pubblicitarie efficaci.
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