È passato domenica 24 di gennaio – tre giorni
ancora alla “Giornata della Memoria” - sulla rete RaiStoria un film
straordinario del regista ungherese Ferenc Török. Titolo del film: “1945”, ricavato dal racconto “Homecoming” di Gábor T. Szántó. Uno di
quei film che è difficile incontrare oggigiorno, ma neppure dimenticare. Film
lineare, essenziale, di un bianco e nero straordinario grazie alla fotografia di
Elemér Ragályi e di una colonna sonora semplice ma ricca di accordi e toni
dovuta all’arte di Tibor Szemzo. Meritoria RaiStoria che in tal modo assolve in
pieno il Suo ruolo di emittente pubblica.
La trama è semplice. 12 di agosto dell’anno
“1945”, titolo appunto dell’opera
cinematografica: la seconda guerra mondiale è al suo termine ed ha già rivelato
al mondo gli orrori dell’Olocausto. Giungono al mattino, nella stazione
ferroviaria di un piccolo borgo ungherese, due misteriosi uomini uno dei quali vestito
secondo la tradizione ebraica. I due uomini dovranno percorrere un tratto per
raggiungere la meta, che non è dato di sapere. La straordinarietà del film sta
in questo: nel corso del loro incedere, in un tempo che si dilata a dismisura,
scorre tutta la vita del borgo. In quel giorno si celebreranno le nozze di
Árpád, figlio di un notabile del luogo, con la giovane contadina Kisrózsi.
Nell’incedere
lento dei due stranieri - due ebrei, padre e figlio, che seguono un carro sul
quale hanno caricato due casse con l’etichetta “profumi” – e nel giro di poche
ore appena di quel loro lento cammino, tutto cambia nel silenzioso borgo
ungherese. L’influente notaio del villaggio, István Szentes, padre di Árpád,
delatore al tempo dell’occupazione tedesca, sospetta che i due stranieri siano
gli eredi di quei concittadini ebrei deportati, anche su sua delazione, dai
nazisti e depredati dei loro beni per suo ingannevole agire, e siano tornati ora
per reclamare quei beni che gli abitanti di quel borgo hanno acquisito
illegalmente. L’incedere lento di quella silenziosa marcia ha l’effetto di ingenerare
in tutti gli abitanti quel panico, sinora contenuto o ignorato, che rivela
quanto la vita di ciascuno di essi si sia drammaticamente e consapevolmente legata
alla tragedia della deportazione ed alla spoliazione di quegli innocenti. Il lento
passo dei due ebrei scandisce il tempo della storia che avviluppa in sé tanti segreti,
tante colpe, tanti rimorsi, tante violazioni e tradimenti del passato e
spingendo un personaggio debole a pagare con la vita, impiccandosi. Intanto nel
tramestìo di tutte quelle vite si consuma la mancata celebrazione di quel
matrimonio tra il giovane Árpád e la contadinella Kisrózsi, la partenza del
giovane per mete ignote e lontane, non sopportando più i ricordi delle
ingiustizie delle quali è stato inerme testimone e, come angelo vendicatore, la
giovane Kisrózsi appicca il fuoco alla “drogheria” degli Szentes. Tutto avviene
come se quel plumbeo cielo avesse deciso di regolare i conti con quelle vite
perdute. La storia trova l’acme allorquando i due stranieri attraversano tutto
il borgo indifferenti ad esso per dirigersi in un luogo di sepoltura, ove fanno
scavare, dai conduttori del carro, due fosse, entro le quali, avvolti nei loro
scialli rituali, sistemano amorevolmente gli oggetti appartenuti ai loro cari
perduti in quella tragedia della guerra, oggetti di un bimbo e di altra persona
fortemente amata. E dopo il doloroso rito compiuto i due riprendono, sempre a
piedi, la via del ritorno con il loro incedere lento, sotto un cielo sempre più
plumbeo che riverserà sulle loro superstiti vite il fragore di una pioggia
copiosa quasi a voler lavare l’infamia di quegli esseri abitatori di quello
sperduto borgo. Un film straordinario, indimenticabile, degno d’essere stato –
grazie a RaiStoria – la giusta anteprima della “Giornata della Memoria” 2021.
Tratta da “Lottare sempre per non
tradire la Memoria”, intervista di Raffaella De Santis a Lia Levi,
scrittrice e giornalista sfuggita all’Olocausto, pubblicata sul quotidiano “la
Repubblica” del venerdì 22 di gennaio: (…). «Dentro il dolore collettivo c'è il
dolore di ognuno di noi», (…). La comunità ebraica romana sottovalutò
il rischio? «Peccarono di ottimismo. Pensavano fosse impossibile che i tedeschi
infierissero sulla città del Papa. C'è stata insipienza nel non dare credito a
nessuno dei segnali forti che arrivavano, sia a causa di un'inadeguatezza
assoluta della classe dirigente, sia per quieto vivere. Molti sperarono che si
potesse continuare a mediare, ma quando si combatte tra la vita e la morte non
ha più senso mediare».
Nel 1938, l'anno delle leggi razziali, lei
aveva sette anni. Nell'ottobre del 1943, undici. Come ha vissuto quel momenti?
«Mio padre era impiegato in una compagnia di assicurazioni a Torino, venne
licenziato. Ci trasferimmo prima a Milano, poi a Roma, dove iniziò a lavorare
clandestinamente in un piccolo ufficio. Ricordo bene l'arrivo dei tedeschi
nella capitale, i miei genitori che cercavano in casa l'oro, io e mia sorella
che li aiutavamo a frugare nei cassetti: catenine, medagliette, ciondoli. Ho
impressa l'immagine di mia madre con un braccialetto in mano che chiede: ma
sarà oro? Aveva paura che fosse solo placcato. Due giorni dopo, (…), mi ha
portata in un convento di suore, dove mi è stato cambiato il nome».
Dai suoi racconti sembra che le donne
sappiano affrontare meglio il pericolo. «Mia madre ci ha salvato la vita. Mio
padre era intelligentissimo ma incapace di prendere una derisione pratica. In
linea di massima gli uomini teorizzano, le donne dicono cosa mangiamo domani e
dove dormiamo. La parte pratica, tenere le persone in vita, è affidata a loro.
Mia madre era laureata in legge, l'unica laureata donna a Torino nel 1928, ma
non aveva mai fatto veri lavori, a parte una rubrica di consigli sentimentali
su un giornale, a quei tempi era così».
Lei era giovanissima, aveva coscienza dl
quanto stava accadendo? «Dello sterminio e della Shoah non sapevo niente. I miei
genitori non me ne avevano parlato, un po' per proteggermi, un po' forse per
un'educazione piemontese. Ho appreso dopo quanto era successo, grazie a Primo
Levi, Anna Frank, ai documentari sullo sterminio. Questa consapevolezza ha
inciso molto sulla mia storia di scrittrice».
Ha però debuttato tardi, quasi a
sessant'anni, come mai? «Da bambina avevo scritto una lettera indirizzata a me
stessa. "Cara Lia, ricordati che da grande devi diventare
scrittrice". Non era un auspicio, era un dovere. La conservo ancora.
Sapevo che prima o poi sarebbe successo. Mi frenava però un senso di rimorso
per aver vissuto la tragedia della mia gente nell'incoscienza infantile,
spavalda, come lo sono spesso i bambini. Di fronte all'irraccontabile non me la
sentivo di scrivere il mio libro, mi sembrava una mancanza di rispetto. Quindi
ho lasciato passare tantissimo tempo, mi sono sbloccata solo negli anni
Novanta».
Che cosa era cambiato? «La dirigenza
comunitaria prima di tutto. Non c'era più la stessa sintonia. Ma ha inciso soprattutto
l'indignazione verso un atteggiamento politico privo di memoria. Mi resi conto
che l'Italia si metteva dalla parte delle vittime, dimenticando che eravamo
stati dalla parte dei complici».
Per molti anni ha fatto la giornalista, si
trattava di un ripiego? «Tutt'altro, mi piaceva, in realtà ero poco incline
alla vita solitaria dello scrittore. Avevo anche scritto due sceneggiati
radiofonici, firmandoli con un altro nome perché mio marito si vergognava, gli
sembrava non fosse compatibile con la mia attività giornalistica a Shalom, un
giornale politico (…).
Le sembra che il razzismo stia riaffiorando?
«Oggi riguarda soprattutto gli stranieri, ma è sempre esistito, è un male
dell'umanità. Allora però era lo Stato ad essere razzista, una grande
differenza. In ogni caso non dobbiamo considerare la democrazia come acquisita.
Bisogna sempre darsi da fare per difenderla, per arrivare un minuto prima e non
un minuto dopo».
La memoria serve anche a questo? «Qualcuno
ha detto che la memoria è l'eterno presente di tutto ciò che ha senso e valore.
Solo rapportandoci al nostro passato possiamo costruire l'oggi. La migliore
architettura contemporanea non esisterebbe senza le grotte in cui gli uomini si
riparavano».
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